Francesco Manfredi | L’uomo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Non c’è da meravigliarsi se, a un primo sguardo, il titolo di questo contributo apparirà pretenzioso e discutibile. Pretenzioso, nell’ovvio richiamo al celebre saggio sull’opera d’arte di Benjamin, fissando implicitamente un termine di confronto ineguagliabile; discutibile, proprio nell’introdurre surrettiziamente una tesi tutt’altro che dimostrata, vale a dire la riproducibilità stessa dell’essere umano. Nel caso di Benjamin, infatti, la considerazione della riproducibilità prendeva le mosse dal fatto della riproduzione, cioè dall’avvenuto raggiungimento di un “determinato standard” nelle tecniche di riproducibilità dei fenomeni visivi e sonori[1],  tale da aver innescato un processo di stravolgimento irreversibile del concetto stesso di opera d’arte, oltre che aver dato vita a un linguaggio espressivo rivoluzionario, fondato sulla produzione – e riproduzione – di immagini e suoni. Nel nostro caso, mancando tale fatto (l’avvenuto raggiungimento di un tale standard performativo nella riproducibilità dei processi costitutivi del bios umano) si darebbe per scontata la possibilità della riproduzione (sorvolando sul fatto che la questione principale verte proprio sulla tale possibilità), il che implicherebbe a sua volta dare per buona una precisa teoria della mente, della materia organica, del loro rapporto reciproco e così via; in parole povere, una precisa metafisica riduzionista.
Come se non bastasse, ci si troverebbe pure a dover precisare cosa si intenda con il termine “uomo”, finendo col perdersi in una serie di rettifiche circa il senso di quella riproducibilità, se essa verta sulla possibilità di riprodurre i processi cognitivi propri dell’intelligenza, o piuttosto il corpo vivo dell’uomo, col suo complesso di organi e tessuti, oppure il suo comportamento e le sue azioni, la sua coscienza di sé, il suo costituirsi come soggetto,i suoi sentimenti ed emozioni, la sua identità, il suo ruolo sociale, o ancora tutto ciò nello stesso tempo. Insomma, ci troveremmo a dover sviluppare preliminarmente un’intera antropologia che, definendo livelli, processi e ordini, definisse cosa e quali funzioni dell’uomo nello specifico sarebbero nel caso riproducibili; un’operazione, questa, improvvida, che, da sola, farebbe desistere chiunque anche soltanto dall’intavolare la discussione che qui si propone d’intraprendere.
Ora, tale obiezione è senza dubbio fondata, eppure cominciare a inquadrare criticamente il problema della riproducibilità tecnica dell’uomo può risultare qualcosa di più di un mero esercizio dialettico o di una presuntuosa scimmiottatura, soprattutto in considerazione del fatto che gli sforzi della ricerca scientifica ufficiale si muovono tutti in tale direzione, tanto che si potrebbe asserire che tale standard è già prossimo al suo raggiungimento, e che rimangono da definire soltanto le strategie più efficaci per conseguirne la realizzazione. Anche se provvisoriamente risulterà inevitabile, quindi, dare per scontato un riduzionismo che, dal punto di vista critico, può risultare assai grossolano, è necessario, per esaminare il problema, immergersi nella forma mentis dell’epoca, e, nello specifico, calarsi in un tipo di mentalità produttiva, dal momento che ciò che qui si vuole sottoporre a critica, non è una certa visione scientifica del mondo, bensì una determinata forma di produzione materiale. Il problema della riproducibilità tecnica dell’uomo, infatti, non è riconducibile a una discussione teorica sulla correttezza o meno di certe tesi, o sulla semantica che sta alla base di una certa rappresentazione dell’intelligenza e dei processi organici, oppure, ancora, sull’inevitabile componente ideologica che ogni teoresi si porta dietro, e così via; ma deve essere inquadrato in un più ampio contesto problematico di natura economica e sociale, come tratto caratteristico di una determinata tipologia di civiltà materiale. Alle istanze della tecnica, infatti, il pensiero, come pensiero, non può opporre alcunché. Simile alle mura del castello di Forciade/Mefistofele, “talmente lisce che pure il pensiero vi scivola”, l’essenza della tecnica rimane assolutamente impenetrabile a ogni tentativo di comprensione, tanto quanto il nocciolo della realtà, o, se si vuole, del male[2].  Come considerava Lord Bacon, la metafora che più si addice a descrivere il sistema della tecnica è il labirinto[3].  In un tale labirinto, cosa sia tecnicamente possibile fare, diventa una questione oziosa per il pensiero, dal momento che essa non può che trovare una risposta di natura tecnica. E la risposta, per la tecnica, altro non è che la produzione dei mezzi per risolvere il problema stesso: tutto è tecnicamente possibile nella misura in cui sono producibili i mezzi teorici o pratici per risolvere un determinato problema di riproducibilità[4].
Benjamin continuava il suo saggio sull’opera d’arte asserendo che con l’avvento della riproducibilità ciò che andava perdendosi era il carattere auratico dell’opera d’arte stessa, intendendo per aura quell’involucro di unicità e durata che costituisce l’autenticità non soltanto, in senso specifico, dell’oggetto/opera d’arte come produzione singola legata a un determinato hic et nunc, bensì anche di un qualsiasi oggetto in generale, attraverso l’esperienza unica che se ne fa, come “apparizione (Erscheinung) unica di una lontananza”[5]. Lo scadimento – o deperimento, o decadimento – dell’aura consiste nell’avvicinamento e nell’attualizzazione dell’oggetto tramite la riproduzione. Le modalità di produzione e di ricezione dell’opera d’arte subiscono una trasformazione radicale nell’epoca tecnologica, una trasformazione che ne modifica il valore e il significato in maniera irreversibile. Tale trasformazione si può condensare nella formula secondo la quale all’aura irripetibile si sostituisce il medium seriale come sostrato dell’esperienza estetica; all’esperienza della ’vicina lontananza’ dell’opera d’arte tradizionale, si sostituisce una sorta di possesso dell’oggetto nel medium della riproduzione. Lungi dal valutare tale rivoluzione in senso nostalgico o pessimistico come perdita o scadimento tout court dell’arte in senso classico, Benjamin si sforza di coglierne il carattere progressivo, non solo nella prospettiva della nascita di una serie di nuovi linguaggi artistici, ma anche in funzione della politica e delle scienze sociali, come segno dell’importanza sempre maggiore che le masse e le modalità di fruizione estetica legate alla comunicazione di massa andavano assumendo nella civiltà contemporanea.
Dal nostro punto di vista, vediamo se queste indicazioni possano mai esserci di aiuto anche per il tema che abbiamo scelto di svolgere. Soprattutto, cerchiamo di mantenere lo stesso sguardo lucido nel cogliere, non soltanto i caratteri di ciò che va perdendosi all’aumentare delle capacità tecnologiche di riproduzione (in questo caso infinitamente più difficili da individuare), bensì anche – se mai ci fosse – il risvolto progressivo del fenomeno (che, diciamo subito, non sarà però riducibile ai meri vantaggi pratici che da una tale riproducibilità ci si attendono). Insomma, riguardo la riproducibilità tecnica dell’uomo, quindi, cosa potrebbe mai voler significare un simile decadimento dell’aura? E, come si diceva, è possibile rispondere a una tale domanda senza nemmeno conoscere la natura di un tale essere?
 
 1. Pur sospendendo la domanda sulla natura dell’uomo, bisognerebbe sin da subito riconoscere che il decadimento dell’aura, nel nostro analogo, non può essere interpretata come un semplice epifenomeno della crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, così come è stata ampiamente descritta dall’intellettualità del secolo scorso. Spaesamento, alienazione, nevrosi, mercificazione, reificazione, sradicamento, disumanizzazione, unidimensionalità, disincanto, assenza di qualità, autocolpe-volizzazione, inadeguatezza, solo per fare alcuni esempi, sono le caratteristiche formule impiegate da figure diversissime per inquadrare la crisi del personalismo classico, l’incrinatura di quella consapevolezza, cioè, da parte del singolo essere umano, di essere un unicum non solo perché dotato di un’identità individuale irripetibile, bensì anche in quanto appartenente a una specie ’eletta’ fra tutte quelle naturali, poiché portatore di un essenza razionale; di essere insomma un uomo. La ’frammentazione’ o ’polverizzazione’ dell’identità individuale dell’uomo contemporaneo è un fenomeno storico-culturale che soltanto ellitticamente può essere messo in relazione con il problema che stiamo affrontando.
La perdita dell’aura potrebbe essere intesa semplicemente come la perdita del senso – o sentimento – di unicità del singolo essere umano, un senso che può soltanto essere definito equivocamente, come una sorta di intuizione della propria unicità, del proprio ’sé’ (a patto di non ricamare troppo su tale riflessività). Ma isolare un contenuto puramente teorico del significato di tale ’sentimento’ – al di là cioè dei diversi piani culturali su cui tale contenuto si è stratificato nel corso dei secoli di sviluppo della storia delle civiltà umane, – appare del tutto impossibile. L’unica cosa che si può affermare con certezza a tal riguardo, a mio avviso, è che la perdita dell’aura, nel caso dell’uomo, si manifesta in primo luogo proprio nel bisogno di definire in una formula significativa ciò che si è perso. La domanda sull’unicità dell’uomo (allotria rispetto ad altre problematiche filosofiche quali, ad esempio, l’imperativo socratico del ’conosci te stesso’, o l’analitica esistenziale di Kierkegaard e Heidegger ecc.) nasce sotto la spinta della disponibilità tecnica alla riproduzione, in parte come una sorta di sguardo retrospettivo su ciò che è perduto, in parte come programma attivo di ricerca, cioè come integrazione tecnica di ciò che si va riproducendo. È sicuramente più proficuo individuare arbitrariamente un punto di partenza e da quello muovere per circoscrivere il nostro problema, piuttosto che volere a tutti i costi procedere per formule consistenti. Nel nostro caso tale punto di partenza, sarà nient’altro che la carne umana.
La decadenza dell’aura ha a che fare innanzitutto con il corpo vivo dell’uomo, e ciò che tale decadenza va a modificare non è l’astratta coscienza di sé dell’uomo singolo, bensì il rapporto composito che egli ha con il suo corpo[6].  Essa, certamente, investe la coscienza che l’uomo ha di sé stesso, ma non, esclusivamente, la coscienza che egli ha di sé stesso come persona, bensì la coscienza che egli ha di sé stesso come essere vivente ecologico[7].  Secondo tale prospettiva, il deperimento dell’aura è connesso alla possibilità aperta dalla tecnica all’uomo di poter disporre liberamente del proprio corpo e dell’ambiente nel quale esso si colloca come mezzo e strumento per poter realizzare i propri scopi[8]. Un tale approccio, certo, non fa che ricondurre il problema della riproducibilità tecnica dell’uomo alla questione più generale del rapporto fra tecnica e umanità, ma vale la pena sviluppare alcune osservazioni, senza ovviamente pretendere di svolgerne tutte le possibili implicazioni.
 
2. Ora, quando si valuta tale rapporto, sembra del tutto scontato far dipendere la prima dalla seconda, vale a dire considerare la tecnica come un prodotto dell’attività umana. La tecnica viene considerata qui uno strumento, e la strumentalità è ciò che definisce qualitativamente la tecnica. Ma si è sicuri che la questione sia così facilmente derubricabile? Dire che la tecnica dipende dall’uomo non significa dire semplicemente che la tecnica è un prodotto dell’intelligenza umana e che l’uomo si riferisce a essa come un mero strumento in suo possesso. L’ha ben compreso Heidegger, per il quale la dipendenza della tecnica dall’uomo non può essere ridotta al mero paradigma strumentale, bensì deve essere ascritta a un tipo di atteggiamento metafisico caratteristico del pensiero occidentale. “L’essenza della tecnica non è nulla di tecnico”, secondo le celebri pagine della Questione della tecnica. L’essenza della tecnica è la metafisica, cioè la precisa direzione intrapresa dal pensiero metafisico a partire da Platone con la riduzione dell’essere a ente oggettivo, termine della teoresi. Tale riduzione costituisce l’abbandono da parte del pensiero della via maestra dell’essere: “il pensiero volge alla fine quando si ritira dal suo elemento”, cioè l’essere; e quando ciò accade, esso “sostituisce questa perdita procurandosi un valore come téchne[9]. In tal senso la tecnica è un prodotto dell’Occidente e non vi è tecnica al di fuori dell’Occidente: “esiste solo una tecnica occidentale; essa è la conseguenza della filosofia e non è nulla al di fuori di quest’ultima”[10].
Ma dire che la tecnica è il risultato di un determinato ’destino’ dell’Occidente, significa in realtà scardinare la presunta posizione di superiorità dell’uomo rispetto a quella natura che egli vuole dominare con la tecnica. La genitura metafisica della tecnica consegna l’uomo a una configurazione d’essere, quella dell’impianto, che lo risucchia inesorabilmente verso un’esistenza macchinica all’interno di un apparato di puro dominio. In Heidegger coesistono, quindi, due intuizioni fondamentali: la natura onto-logica della tecnica, come deragliamento metafisico rispetto alla via dell’essere, e l’inversione del rapporto di dipendenza fra uomo e tecnica. Così, nel momento in cui l’uomo appare come “Signore della terra”, come dominatore delle forze naturali, egli in realtà perde la sua essenza e si consegna a un modo d’essere estraniante[11].
Ritornando alla questione della riproducibilità tecnica dell’uomo, nelle ultime pagine di Oltrepassamento della metafisica l’uomo è definito “la materia prima più importante”, e – con sagace anticipazione degli sviluppi futuri delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica – H. prefigura una futura “fabbricazione di materiale umano” e un “dirigismo in materia di fecondazione” capace di “regolare in modo pianificato la generazione di esseri viventi”[12].  Detto altrimenti, la riproducibilità tecnica dell’essere umano costituisce il volgersi dell’uomo stesso in fondo[13]. L’uomo, inteso come insieme di processi biologici e cognitivi disponibili alla riproduzione, giungerebbe così a realizzare il pieno dominio dell’impianto, installandovisi egli stesso come riserva d’impiego inesauribile. Nella prospettiva di Heidegger la riproducibilità tecnica dell’uomo costituirebbe una sorta di limite abissale per l’integrità dell’uomo stesso, dal momento che, sprofondando anima e corpo nell’apparato tecnico, parrebbe dissolversi l’unicità stessa dell’uomo come luogo di apertura all’essere, quindi di possibile realizzazione di senso. La riproducibilità tecnica dell’uomo costituisce il capitolo conclusivo di questo dramma destinale, nella misura in cui ponendo sé stesso come prodotto tecnico, l’uomo si avvicina alla fine del suo essere: provocando l’essere in vista della strumentalità, egli scoperchia il vaso dove sono rinchiuse quelle forze in grado di non solo di annientarlo materialmente (come nel caso della bomba atomica), ma anche di organizzarsi autonomamente sulla base di un’intelligenza auto-sussistente come volontà di pura riproduzione, quindi di soppiantarlo nello stesso esercizio di quella volontà[14].
Heidegger, com’è noto, non ascrive alla filosofia, cioè al pensiero logicamente organizzato, alcuna capacità di incidere su tale destino, anche se paradossalmente, proprio per il suo carattere ontologico, l’avvento della tecnica racchiude in sé gli opposti caratteri del pericolo e della salvezza. L’unica ’salvezza’, nel caso della tecnica, è costituita non certo da una purificazione delle intenzioni di chi la sfrutta, dal momento che proprio la visione strumentale della tecnica è ciò che viene messo in discussione, bensì nella necessità di comprendere la tecnica, cioè di pensarne l’essenza, al fine di mettere in luce la differenza fra il modo del disvelamento provocante e quello dell’evento/uomo come senso dell’essere. Pensare autenticamente, secondo H., significa imboccare una strada diversa da quella compiuta dall’Occidente e, invece che provocare l’ente in vista dell’impiego, porsi in una condizione di accoglimento dell’essere, in tal modo superando l’entificazione dell’essere. Comprendere la matrice metafisica della tecnica costituisce l’unica possibilità di salvezza. In tal senso la questione fondamentale della nostra epoca è di tipo ontologico e riguarda in ultima istanza il destino dell’Occidente[15].  Naturalmente tale paradossalità in Heidegger non è in alcun modo dialettica, poiché non è certo l’uomo con le sue forze, a potersi salvare.
Heidegger ha un bel parlare contro l’umanismo che ogni filosofia della cultura si porta addietro, ma il suo culto del pensiero antimetafisico e pastorale rischia di essere il classico rimedio peggiore del male, dal momento che, idolatrando la ventura dell’Essere, comporta una squalifica di tutto ciò che è storicamente determinato dalla prassi umana, a partire dall’uomo stesso inteso come prodotto storico, come prodotto, cioè, delle sue proprie azioni – un pensiero, questo, completamente alieno all’orizzonte delle ricerche heideggeriane, e che lo porta a misconoscere la differenza fra il tecnico-pratico e l’etico-pratico. Così la riduzione delle sfere della politica, dell’economia e dell’agire sociale a mere appendici o, peggio, ipostasi della stessa logica di dominio che anima il pensiero dominante della metafisica attraverso la sua configurazione tecnicizzata, non è altro che una conseguenza necessaria dell’impostazione errante di questa speculazione. Riguardo a tale erranza c’è da chiedersi se essa piuttosto non vada incontro allo stesso destino atavico del pellegrino Abele, che, in nome della stanzialità, dovette essere sacrificato alla civiltà insieme con l’amicizia divina[16].  Innocente il pastore, certo, ma in fondo anacronistico, come anacronistica, in epoca di stermini pianificati, l’idillica concezione del male come irruzione dell’“ostilità” e “inselvatichimento”, vagheggiata dallo stesso Heidegger sulla scorta delle suggestioni esercitate dal Forestaro jüngeriano[17].  L’ontocentrismo heideggeriano non sarà certo umanistico, ma resta da vedere se non costituisca ancora una forma sublimata di antropocentrismo, per di più eurocentrico, nella misura in cui, da un lato, l’uomo, come luogo di accoglimento della verità, concentra su di sé, come un fuoco ottico, i raggi della vicenda universale dell’essere; dall’altro, come abbiamo visto, con l’avvento della tecnica il destino dell’Occidente diventa il destino dell’intero mondo.
 
3. Ma lasciamo Heidegger per adesso e riprendiamo la questione dal capo opposto. Si diceva che, considerando il rapporto fra uomo e tecnica, non c’è niente di più scontato che considerare la seconda in dipendenza dal primo. Ripercorrendo sommariamente l’interpretazione della tecnica elaborata da Heidegger abbiamo visto come la critica della strumentalità vada di pari passo col riconoscimento dell’inversione del rapporto di dipendenza fra uomo e tecnica, ancorché lo stesso Heidegger lasci aperto uno spiraglio ’spirituale’ di realizzazione di senso, attraverso l’apparentamento di pericolo e salvezza nell’elemento del pensiero. Volgiamoci ora a tutt’altro contesto: il trans-umanesimo tecnologico anglosassone degli ultimi decenni. Ora, benché non possa considerarsi altro che una divagazione letteraria, tuttavia anche da confronto con esso è possibile ricavare alcune utili indicazioni al fine della nostra ricerca. Esso parte più o meno dallo stesso assunto, vale a dire la considerazione della tecnica come prodotto dell’uomo, ma per arrivare a un’inversione di tipo opposto.
Secondo una rappresentazione inaugurata dalla science-fiction[18],  e ripresa da una serie di autori che potremmo definire prognostici (e suddividere, inoltre, in chiliastici – Vinge, Kurzweil e gli annunciatori della singolarità tecnologica[19],  – e mistici – Teilhard de Chardin e i teorici della noosfera)[20];  una rappresentazione che, si diceva, sta raccogliendo un numero crescente di adesioni da parte degli specialisti, – la progressiva riproduzione di tutte le funzioni cognitive e sensoriali attraverso dispositivi sempre più sofisticati, fino alla riproducibilità dei nessi genetici della vita intelligente, non potrà che condurre a una sorta d’innesto evolutivo, a un salto di qualità nella storia dell’evoluzione, che lascerà la specie homo un passo indietro rispetto a una forma di vita intelligente di ordine superiore (a noi inaccessibile, come le procedure dell’intelligenza umana sono inaccessibili agli animali), la quale, a quel punto, potrà disporre liberamente della materia senza più alcun vincolo di natura biologico. Anzi, essa potrà costruire sé stessa a partire proprio dalla propria implementazione in una materia ormai completamente trasparente. L’uomo naturale è qui il superfluo, una sorta di larva,e la tecnica da esso sviluppata l’essenza intelligente che si libera delle condizioni contingenti che ne hanno favorito lo sviluppo. L’uomo artificiale, così, costituisce una sorta di crisalide in vista dello sviluppo ulteriore dell’intelligenza tecnica, che giungerà alla sua forma conclusiva proprio nella misura in cui si libererà di quell’eccedenza evolutiva, la forma biologica determinata dell’uomo stesso.
In questa prospettiva, la decadenza dell’aura costituisce nient’altro che il risvolto del necessario processo di autopurificazione della razionalità tecnologica che, emersa a forma di vita autonoma, instaurerà con la materia un rapporto completamente diverso da quello di incarnazione proprio dell’uomo. Al deperimento dell’aura corrisponderebbe il potenziamento di tale forma di vita secondo una proporzionalità inversa che culminerebbe nella fine dell’uomo stesso. Tale esito costituirebbe una fine, se non dal punto di vista fattuale – una tale forma di vita superiore potrebbe sbarazzarsi agevolmente dell’intero genere umano – almeno dal punto di vista del primato evolutivo della specie umana; in un certo senso ponendo fine sia alla storia dell’evoluzione, dal momento che un’intelligenza assoluta sarebbe in grado di disporre assolutamente della materia, sia alla storia tout court, perché non si vedrebbe cosa resterebbe da agire agli uomini una volta relegatati in un tale posizione di subalternità, se non quella di essere oggetti da esposizione[21].
Assistiamo qui a una sorta di capovolgimento inverso rispetto a quello che consideravamo in Heidegger: mentre là la strumentalità si rovesciava nell’impronta metafisica della tecnica, qua la strumentalità si rovescia nell’azione intrinseca di una forza che si struttura come intelligenza emergendo dalle potenzialità organizzative della materia stessa. In tal senso l’uomo cessa del tutto di avere una qualsivoglia preminenza ontologica, dal momento che esso si rivela come il mero portatore occasionale di una forma di bios, rispetto alla quale egli costituisce però un involucro che verrà abbandonato come una muta una volta rivelatosi incapace di accoglierla. Dal punto di vista organico tale incapacità coincide con la limitazione rappresentata dall’esistenza biologica del corpo. Così, la nuova forma di vita, cioè il nuovo stadio dell’intelligenza, progettando sé stessa progetta la materia di cui è composta, cioè produce la sua stessa incorporazione (presumibilmente superando i limiti di qualsiasi precedente incorporazione, dettati dalle contingenze adattative e dalla casualità delle mutazioni). La questione fondamentale, quindi, diventa qui di ordine biologico, poiché, dando credito a questa rappresentazione, si assiste, con lo sviluppo della tecnica, allo sviluppo di tendenze intrinseche alla materia organizzata, rispetto alle quali l’uomo si pone come – si perdoni l’ossimoro – agente passivo. Agente, nella misura in cui l’impulso allo sviluppo tecnologico proviene dall’esercizio delle sue abilità intelligenti; passivo, dal momento che, in realtà, tali abilità intelligenti sono espressione di una forza organizzatrice che mira a trascenderne la forma biologica determinata.
Anche per quanto riguarda l’interpretazione generale del fenomeno della tecnica, i trans-umanisti sono agli antipodi rispetto a Heidegger, dal momento che, mentre quest’ultimo ascrive la comparsa della civiltà della tecnica alla strada imboccata dal pensiero filosofico delle origini, quella che abbiamo definito più sopra la ’matrice ontologica della tecnica’; per i primi la tecnica è un dato che accompagna l’uomo sin dall’inizio del suo salto evolutivo, il cui sviluppo procede dal Neolitico ad oggi senza soluzione di continuità (anche se per fratture e scarti esponenziali, come nel caso delle ultime due rivoluzioni scientifiche), e, seppure vi è una ragione storico-culturale dello sviluppo di tali rivoluzioni proprio in Occidente, tale ragione per nulla incide sulla linea di progresso bio-tecnologico globale, costituendone una mera stazione di passaggio. Se proprio si vuole trovare un punto di contatto, seppure un po’ forzato, lo si può rinvenire nella comune critica rivolta all’umanesimo tradizionale. Anche questa concezione, infatti, dichiara di voler accantonare l’umanesimo, ma, come in Heidegger restava problematico se il primato ontologico non fosse da considerarsi piuttosto una riedizione ’povera’ dell’antropocentrismo tradizionale, così in questa rappresentazione – certo agli antipodi – resta da vedere se una tale assolutizzazione delle facoltà intellettuali umane, peraltro appiattite su quelle logico-computazionali, non costituisca una forma piuttosto ingenua di antropocentrismo evolutivo[22]. Certo è che,non essendo la tecnica più pensabile come un mero prodotto dell’attività umana (come qualcosa di appartenente alla sua essenza come semplice attributo statico), essa si trasforma in qualcosa che, seppur sollecitato dall’uomo, motu proprio finisce col segnarne il destino: difettivamente in Heidegger, eccessivamente nei teorici del trans-umanesimo.
 
4. Ci siamo soffermati su queste due posizioni per mostrare che, agli estremi del ventaglio – per così dire – delle possibili interpretazioni del fenomeno della tecnica, si delinea lo stesso scenario: la trasformazione della tecnica in ’fine assoluto’ comporta l’uscita di scena dell’uomo come essere ’fissato’ alla sua natura. Da questo punto di vista, l’analisi della questione della tecnica – una questione, a dire il vero, assai abusata negli ultimi decenni – coglie solo in parte quelle che sono le implicazioni del processo di riproducibilità dell’uomo, dal momento che essa costituisce una sorta di ricerca asintotica che spinge al limite una concezione determinata dell’uomo stesso – o della tecnica – per evidenziarne il collasso. Il punto nevralgico dell’argomentazione di Benjamin, invece, è costituito dal fatto che la riproducibilità tecnica rompe con tutto un modo tradizionale di intendere, da un lato, la funzione dell’opera d’arte, dall’altro, la fruizione dell’opera d’arte. Da un lato, infatti, “la riproducibilità tecnica emancipa l’opera d’arte dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale”[23]; dall’altro, “il modo in cui la percezione sensoriale umana si organizza è condizionato in senso storico”[24].
L’apprensione dell’unicità dell’oggetto percettivo attraverso l’aura corrisponde alla sua collocazione metafisica in quel continuum storico che è la tradizione. L’aura è il corpo dell’opera, un corpo corruttibile legato all’hic et nunc. In quanto ’dotata di aura’ l’opera classica è legata a doppio filo alla ’matericità’: sia a quella spazio-temporale (il marmo, il legno, la tela, la pasta del colore), sia a quella storica (la committenza, il contesto politico, economico e sociale, la temperie culturale e così via). La funzione sociale dell’arte originariamente si risolve interamente nell’ambito del ’rituale’: in un primo tempo, in ambito esclusivamente religioso, quindi in ambito politico o civile, a seconda dell’avanzare del processo storico di emancipazione della bellezza come essenza dell’arte che comincia in età rinascimentale. Ma la riproducibilità tecnica, nella prospettiva di Benjamin, porta a compimento questo processo di liberazione della funzione sociale dell’arte, poiché essa produce un medium inedito che veicola un modo di fruizione dell’arte completamente diverso rispetto al passato: il “peso assoluto” del valore espositivo dell’opera d’arte supera decisamente quello cultuale, ed essa “diviene un oggetto con funzioni totalmente nuove”[25].
Ciò che individua l’opera d’arte, la sua aura, individua il corpo come svolgimento del corso naturale del suo sviluppo. Il corpo vivente, infatti, si configura come ciò che storicizza la coscienza individuale, sia ciò che ne detta il tempo attraverso le diverse stagioni del suo divenire, sia ciò che ne definisce il campo d’azione. Il corpo vivente dell’individuo trascorre le varie età modificandosi, si individualizza attraverso le esperienze che ne segnano il corso vitale, si riproduce biologicamente attraverso l’unione dei sessi senza che in tale riproduzione vada perduto alcunché della sua ’aura’. In tal senso il corpo umano naturale condivide con l’opera d’arte classica la stessa mistica dell’aura che ne iscrive il limite nell’ambito del cultuale: il ’rituale’ del corpo è il suo divenire determinato, dalla nascita alla morte, il suo respirare con la natura, il suo assurgere a tempio simbolico della stessa sacra interiorità che è simboleggiata dalla raffigurazione della divinità nella statua, nell’immagine o nell’oggetto rituale, o dalla circoscrizione dell’epifania del sacro nella conformazione architettonica del tempio reale.
Cosa succede se adesso si introduce la riproducibilità all’interno dell’ambito del corpo vivo dell’uomo? In che modo si trasformano la sua funzione sociale e le sue dinamiche percettive? Come la riproducibilità tecnica in ambito artistico, così la riproducibilità tecnica in ambito umano produce una nuova corporeità che modifica profondamente il processo di sviluppo dell’essere umano, quindi le modalità della sua individuazione e soggettivazione. La funzione sociale del corpo cambia in rapporto alla sua modificazione come medium del processo di costituzione del soggetto. Da questo punto di vista l’incremento esponenziale delle capacità di ingegnerizzazione genetica e bionica promettono non solo di indurre artificialmente la riproduzione dell’individuo che già c’è, come nel caso della clonazione, bensì anche di riconfigurare artificialmente la morfologia interna ed esterna del corpo – a  partire dalla riproducibilità degli organi e dei tessuti fino alla progettazione ex novo di componenti artificiali, – aprendo una prospettiva di totale modificazione del rapporto fra il soggetto e il suo corpo, e inficiando l’idea stessa di ’decorso naturale’ nello sviluppo di quest’ultimo. Il che equivale a dire che, all’aumentare delle possibilità di intervento di modificazione della sua morfologia, decresce il valore ’cultuale’ del corpo, e aumenta il suo valore espositivo come termine del processo di riconoscimento sociale.
Non si tratta soltanto della sua esibizione reclamistica da parte della moderna industria pubblicitaria, quanto piuttosto del profilarsi all’orizzonte della nascita di una nuova fisiognomica fondata sull’integrazione immediata del dato biometrico con la rete di dati che definiscono gli standard di prestazione degli individui, una specie di somatologia integrata alla nuova funzione che il corpo disponibile alla riproducibilità manifesta come spazio di controllo sociale. Nel corpo riproducibile tecnicamente, infatti, vengono immesse e lette procedure comportamentali standardizzate riconducibili a ogni aspetto della vita sociale dell’individuo: dal lavoro alle relazioni interpersonali, dalla salute allo svago, dagli interessi alle perversioni. Alla riproducibilità del corpo come medium di soggettivazione si affianca la riproducibilità della performance sociale che da un tale corpo ci si attende. Alla standardizzazione del medium corrisponde la standardizzazione dei codici di comportamento e l’intensificazione delle occasioni di osservazione e controllo di tali performance (sesso e lavoro soprattutto, pratiche destinatarie di controllo sociale sin dall’avvento della modernità), come nella distopia del new flesh del Cronenberg di Videodrome (1983), o in quella del Dick di Ubik (1969).
In un’epoca in cui il sistema dei bisogni sociali è forgiato a immagine e somiglianza dei meccanismi pulsionali dell’individuo, la ’liberazione del corpo desiderante’ sembra più che mai funzionale all’attuale assetto consumistico della civiltà del capitale. La dissoluzione della resistenza residuale avviene non attraverso l’uso autoritario della violenza sui corpi – ma con eccezioni significative, per esempio a Genova nel 2001, – bensì attraverso l’incanalamento delle energie psichiche verso il consumo come conditio sine qua non di realizzazione sociale. In un quadro ’psicotico’ come quello contemporaneo, pratiche ’antagoniste’, o immediatamente sorte come tali, ad esempio il feticismo cyberpunk per lo scarto industriale, trasformato in dotazione corporea e impugnato come moto di protesta contro la volontà assimilatrice della macchina sociale (si rammenti, ad esempio, lo scioccante capolavoro di Tsukamoto, Tetsuo, the Iron Man, 1989)[26],  si capovolgono nel loro contrario: l’impianto di chip per il controllo biometrico o per l’ottimizzazione di performance sociale quali il consumo dei beni o la prestazione lavorativa; oppure la sperimentazione di sostanze psicotrope vissuta come fuga dalla società e dalle sue dinamiche di regimentazione (Jünger, Huxley, Ginsberg, Burroughs), nell’immersione diretta nell’oceano dell’informazione attraverso la realtà aumentata, dove ogni diretto o indiretto j’accuse si dissolve nel consumo di un intrattenimento del tutto funzionale alle logiche di produzione e di inquadramento sociale.
 
5. Quest’ultima considerazione ci conduce a prendere in esame l’ultimo punto del nostro discorso, legato direttamente al rapporto fra politica, capitalismo e corpo tecnicamente riproducibile. Si legge in Benjamin: “[con la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte] al suo fondamento nel rituale subentra il fondamento su una prassi differente, la politica”[27]. Calato nella temperie del dopoguerra, il principio di emancipazione dell’arte dalla religione si trova indissolubilmente legato ai contemporanei movimenti di massa, il fascismo e il comunismo; ma, mentre il primo sovverte il carattere progressivo di tale emancipazione nell’estetizzazione della politica come azione violenta – espressione di quella stessa violenza sociale perpetrata dalle classi dominanti, – il secondo risponde con la politicizzazione dell’arte, unica strada per combattere quell’autoalienazione propria della civilizzazione capitalistica, e opporsi in maniera autenticamente rivoluzionaria a quell’ideologizzazione della violenza che nel fascismo culmina nel culto della guerra. Adorno considerava la chiusa ’marxista’ del saggio di Benjamin (rispetto al quale non è mai stato particolarmente tenero) niente più che un’aggiunta posticcia, e, in effetti, il suo Epilogo appare dettato più che altro dall’esigenza di rispondere polemicamente alla stomachevole retorica bellicista di Marinetti. Tuttavia, non è detto che non se ne possa ricavare qualche considerazione utile alla nostra traccia.
La guerra, prosegue Benjamin, è “una rivolta della tecnica, che avanza sul ’materiale umano’ quelle pretese a cui la società ha sottratto il materiale naturale[28]. Essa consente di “mobilitare tutti gli strumenti tecnici salvaguardando i rapporti di proprietà”[29].  Sembrano qui profilarsi due concezioni della tecnica, una riconducibile al pervertimento capitalistico del concetto di lavoro, un lavoro che“si risolve nello sfruttamento della natura”; un’altra, invece, fondata sul risveglio delle forze latenti della natura in vista del benessere e del progresso sociale, secondo una linea che non si discosta dalle utopie vagheggiate da Bacone e Fourier[30].  La politicizzazione dell’arte, unica alternativa allo svilimento della tecnica e alla sua trasformazione in prassi diretta all’annientamento dell’uomo, poggia in definitiva sull’idea ottimistica – e dogmatica – del diritto all’emancipazione delle masse proletarie[31],  e della possibilità del ’gioco armonioso’ fra uomo e natura all’insegna dell’avanzamento del benessere e della pace sociale al posto della retriva difesa dello sbilanciamento nei rapporti di proprietà e di produzione consolidati.
L’utopismo estetico con cui si conclude il saggio sull’opera d’arte rivela però la preoccupazione di realizzare attraverso l’arte quella prassi rivoluzionaria in grado di sovvertire l’auto-alienazione dell’umanità perpetrata dall’inquinamento capitalistico della tecnica, liberando quest’ultima dalla sua perversione coattiva, e restituendole il suo valore emancipante. L’idea di fondo, rimane quella – marxiano-hegeliana – della differenza qualitativa fra tecnica e lavoro, della priorità ontologica del secondo sulla prima, e dell’inversione di tale rapporto esclusivamente in conseguenza dello snaturamento capitalistico del lavoro come sfruttamento. L’ambivalenza dell’antropologia marxiana (che concepisce l’uomo, da un lato, come produttore di sé in ambito economico, e, dall’altro, come essenza da realizzare in ambito politico), in riferimento alla questione della tecnica, però, mostra qui tutta la sua problematicità:se è l’uomo stesso a rendersi disponibile alla riproduzione tecnica, non vi è nessuna essenza da liberare, né attraverso il lavoro, né attraverso l’arte; e non vi è alcun modo di dirigere l’azione rivoluzionaria verso il ristabilimento dell’armoniosa collaborazione fra uomo e natura corrotta dall’oppressione sociale.
Sicuramente la riproducibilità tecnica dell’uomo mira soprattutto alla riproduzione della sua funzione sociale di lavoratore, ma non certo nella direzione sperata dalle utopie del XIX e XX secolo, vale a dire come affrancamento dell’uomo dalla schiavitù del lavoro alienante, bensì, ancora una volta, nella prospettiva capitalistica dell’ottimizzazione del profitto. La funzionalità intrinseca dell’organizzazione tecnologica del lavoro alla riproduzione del capitale, secondo i crismi del taylorismo classico (qui nella sua versione informatizzata), mira alla riproduzione del corpo come agente produttivo in una virtualità potenzialmente infinita, poiché l’azzeramento del salario – o se si vuole l’abbassamento vicino alla soglia dello 0 dei costi di manutenzione della forza lavoro meccanica – focalizza l’intero processo produttivo nella produzione stessa degli agenti produttivi sotto forma di investimento nella ricerca tecnologica finalizzata all’individuazione e all’isolamento funzionale degli atti produttivi, nonché alla traduzione di essi, da una parte, in cinestesie completamente meccanizzate, dall’altra, in intelligenza artificiale capace di autoprodursi (progettarsi e implementarsi) in funzione della performance richiesta. In tal modo, tuttavia, la differenza fra tecnica e lavoro finisce per dissolversi, diventando il lavoro, tecnica di produzione, e la tecnica, lavoro completamente produttivo. L’eccedenza umana del lavoro si dissolve qui interamente, abbandonata com’è ogni finalità formativa dell’atto produttivo a vantaggio dell’organizzazione tecnologica del lavoro.
È difficile qui dire cosa diriga cosa: se la virtualità potenzialmente infinita dell’accumulo di capitale imponga la riproduzione e organizzazione tecnologica dell’uomo e del suo ambiente mediante la riduzione di tutto a quantum di informazione, oppure, al contrario, se la virtualità potenzialmente infinita dello sviluppo tecnologico come pura procedura di auto-produzione, si innervi sulla struttura capitalistica di divisione sociale del lavoro soltanto opportunisticamente, in vista di un suo abbandono una volta conseguito lo scopo di riproduzione dell’uomo e dell’intera realtà. Ci troviamo di fronte a una sorta di conflitto antinomico, la cui soluzione appare impossibile, o che, almeno, soltanto nel tempo del suo compiuto venire alla luce potrà essere considerato con minore astrattezza e maggiore aderenza.
 
6. Tutte le considerazioni che abbiamo sviluppato sin qui a proposito del corpo, infine, potrebbero essere riprese e declinate conseguentemente in relazione al concetto di ambiente, con implicazioni ancora tutte da investigare. In questa ottica abbiamo parlato dell’uomo come di un essere vivente ecologico: non solo perché l’uomo, sin dalla sua comparsa, modifica l’ambiente attraverso la sua attività, bensì anche perché l’ambiente costituisce una componente fondamentale della sua corporeità, sia in quanto il corpo sviluppa alcune caratteristiche determinate in risposta a un determinato ambiente, sia come catalizzatore di quella autoriflessione che è alla base della coscienza di sé. Così la riproducibilità tecnica del corpo influisce sull’ambiente in duplice modo: da un lato modifica la percezione dell’ambiente stesso da parte dell’individuo che vi è immerso, dall’altro trasforma l’ambiente in un oggetto di riproduzione, nella misura in cui fa crescere la sua disponibilità ad andare incontro al soggetto sia come termine di progettazione ingegneristica rispondente a determinate richieste di prestazione, sia come virtualità puramente informatizzata (cioè come ambiente totalmente fittizio). In entrambi i casi anche in esso va dissolvendosi il carattere auratico, poiché tende a corrispondere alle esigenze intrinseche di codificazione tecnica e sociale del corpo modificato dell’uomo, perdendo quella ’vicina lontananza’ propria della sua esperienza irripetibile, e acquistando i caratteri – piuttosto – di monotona prossimità tipici dell’analisi statistica.
L’approccio di Benjamin, permette di estendere addirittura l’intera problematica in senso generalissimo. Se all’uomo riprodotto tecnicamente si sovrappone un ambiente parimenti riproducibile, esteso tanto quanto l’estensione del dato tecnicamente disponibile, si arriva alla conclusione che l’ambiente dell’uomo tecnicamente riproducibile coincide con l’intero universo disponibile all’osservazione, venendo così a decadere, ipso facto, quella distinzione tra ’mondo’ (lontano) e ’ambiente’ (vicino) tanto caro al pensiero del secolo scorso. In un certo senso si potrebbe riformulare la domanda circa la riproducibilità tecnica dell’uomo in una domanda circa la riproducibilità tecnica della realtà come fine (termine) dell’epoca del mondo; ma, dal nostro punto di vista, la questione assumerebbe una tale estensione (e una tale profondità) – dal momento che, se per chiarire la questione della riproducibilità tecnica dell’uomo, avremmo dovuto prima saper rispondere alla domanda che cosa è l’uomo; adesso dovremmo addirittura porre la questione assoluta che cosa è l’essere, prima di rispondere alla domanda che cosa è il mondo, – che dovremmo assolutamente desistere dal profferire alcunché di ulteriore a proposito. Certo è che la trasformazione – o riduzione – del mondo a informazione è uno dei risultati degli più eclatanti dell’età della tecnica; e così come, a ben vedere, i termini informazione e riproducibilità possono essere accostati al punto da essere considerati sinonimi, il problema della riproducibilità dell’essere umano può essere considerato niente altro che riformulazione della questione della trasformazione del mondo umano in informazione, la trasformazione, cioè, di tutta la qualità umana in quantità d’informazione.
 
7. Dopo aver delineato un simile quadro, è giunto il momento di chiedersi se sia mai possibile cogliere nel fenomeno della riproducibilità tecnica dell’uomo un che di positivo, allo stesso modo in cui Benjamin coglie positivamente le prospettive creative – dal punto di vista dei linguaggi artistici – e progressive – dal punto di vista delle dinamiche sociali – della riproducibilità dell’opera d’arte. Si potrebbe obiettare che si è completamente ignorato il vantaggio più significativo che il corpo disponibile alla riproduzione tecnica potrebbe offrire: vale a dire la sconfitta, se non della morte (anche se il numero di coloro che l’hanno già bandita dall’orizzonte dell’umano fa legione), almeno della malattia e della sofferenza. Si sarebbe piuttosto dovuti partire da lì, infatti, dal momento che sarebbe apparso sin da subito ben poca cosa la perdita dell’aura a fronte di un vantaggio così evidente, così desiderabile, così sperato.
Per quanto si voglia rendere ingenuo, o volgare, o troppo umano, tale argomento, non è facile né dimostrarne l’inconsistenza, né la contraddittorietà. Quel che si è cercato di mostrare sin qui è il rovescio della medaglia che una tale modificazione dell’essenza del vivente uomo, della sua fisiologia, certo, ma anche della sua socialità e del suo ambiente potrebbe comportare. Non da ultimo, che all’avvicinamento di tali risultati, potrebbe in realtà corrispondere un allontanamento della percezione del loro significato, dal momento che non vi è niente di più indissolubilmente legato all’unicità dell’individuo della sofferenza, della malattia e della morte, in una parola: del male. Certo, si etichetterà tutto ciò come una deriva metafisica, per di più eticamente discutibile, dal momento che finisce per suggerire una deprecabile celebrazione del male di fronte al timore di un progresso problematico; una reazione al proprio tempo, che giunge a santificare, insieme con l’unicità, il dolore e la sofferenza. Perché, o è bene guarire, oppure è bene soffrire; non si danno – almeno in questo – alternative di sorta. E se è bene guarire, nel nostro mondo ciò non può svolgersi che sotto l’insegna della tecnica, a meno di non ricadere in quel pensiero dal quale ci sono voluti così tanti anni e così tanti sacrifici per affrancarsi: vale a dire,quello secondo il quale il male che colpisce l’uomo, sotto forma di patologia, menomazione, malattia, malformazione, è a lui imputabile per una sorta di colpa ancestrale e irrazionale[32].  Ci sono, evidentemente, tutta una serie di casi nei quali, chi è colpito dal male, è in parte – o anche del tutto – responsabile di ciò che gli accade, e non soltanto in riferimento al male che un uomo può procurarsi consapevolmente, bensì anche riguardo al male che è il risultato dell’esercizio della libertà; ma, in ultima istanza, e nel caso del male come ciò che colpisce l’integrità del corpo vivo, la radice del diritto alla cura non può che fondarsi sul riconoscimento che tale male – lungi dal nobilitarlo, in virtù del richiamo spirituale esercitato dalla sua origine trascendente – distrugge la dignità dell’uomo nel modo più odioso e intollerabile[33].
D’altro canto, dacché il corpo vivo entra nel circolo della riproducibilità tecnica, si dissolve l’idea stessa di un’integrità della sua natura, rispetto alla quale il male si pone come qualcosa di estraneo, e la cura come un auspicabile ristabilimento. La stessa integrità, o stato naturale, del corpo diviene un concetto tecnico, o una vaga astrazione concettuale, e si sovrappone pericolosamente con altri concetti tecnici quali funzionalità, produttività, integrazione e così via[34]. Così, volenti o nolenti, si viene risospinti verso la giustificazione del male come salvaguardia della natura individuale del corpo, e della sofferenza come unico orizzonte di senso della singolarità esistenziale. Certo è che la sala operatoria sarà l’adyton del tempio tecnologico futuro, e l’officina – intelligente – della carne lo stadio ultimativo del processo di riproducibilità tecnica del corpo, dove cura, guarigione, modificazione, riparazione costituiranno un’unica pratica clinico-bio-ingegneristica i cui possibili sviluppi non sono nemmeno lontanamente immaginabili.
Si potrebbe, forse, tornare a riflettere su uno dei principi fondamentali da cui si è originato il moderno concetto di libertà individuale, vale a dire l’habeas corpus. La riproducibilità tecnica dell’uomo, infatti, sembra colpire al cuore quel diritto al possesso di sé che costituisce il contenuto fondamentale di tale concetto, e, non solo, nell’ottica della possibile erosione di tale diritto da parte di chi materialmente può detenere il monopolio del sapere relativo alle procedure di riproducibilità, bensì, soprattutto, nel senso del suo progressivo svuotamento di significato in vista delle promesse di miglioramento del benessere individuale. La questione fondamentale che dovrebbe essere posta a tal proposito è se l’habeas corpus possa essere interpretato, oltre che come un rescritto di garanzia del diritto (in termini moderni) dell’individuo di disporre della propria persona fisica – sia nell’accezione classica dell’inviolabilità dell’imputato di fronte all’abuso di autorità, sia, in senso derivato, come diritto all’autodeterminazione terapeutica, pur con tutte le problematiche connesse alla definizione di tale campo, – oltre, insomma, che come fondamento giuridico della rivendicazione del possesso esclusivo del proprio corpo, anche come una sorta di norma volta a rispettarne la conformazione ecologica. A patto, ovviamente, di non intendere tale normatività in senso etico-sistematico, come una sorta di ’regola di prudenza’, o di officium erga se ipsum, alla stregua di un generico ’rispetta il tuo corpo’, o ’abbi cura del tuo corpo’, bensì semplicemente come un’indicazione della necessità di un discrimine riconoscibile fra libera progettazione del corpo e salvaguardia del fondamento ontologico della persona giuridica[35].
Certo, si obietterà, quella che qui sopra veniva chiamata ’conformazione ecologica’ del corpo può sempre essere considerata come un prodotto di quelle pratiche sociali di codificazione delle regole d’esercizio del dominio, per dirla con Foucault, che ne determinano l’accettazione e il rifiuto; e che non esiste nessun criterio intrinseco per distinguere un determinato concetto di integrità psico-fisica da un altro, dal momento che entrambi sono storicamente determinati e costitutivamente condizionati dalle logiche di autoaffermazione del potere[36].  In tal senso, ogni possibile applicazione dell’habeas corpus alle tematiche che abbiamo suggerito, sarebbe sempre biopolitica, e mai, in senso stretto, giuridica. In direzione completamente opposta, è forse possibile rammentare la celebre soluzione hobbesiana (certo un autore da prendere con le molle), una soluzione che, per la sua paradossalità – mai abbastanza sottolineata, – potrebbe ben attagliarsi al nostro discorso.
Per Hobbes la politica è la prima forma di tecnica[37], poiché essa nasce dalla necessità di  arginare la naturale violenza dell’uomo sul suo simile. Ora, andando oltre le crude generalizzazioni del Leviathan, si potrebbe trascrivere la lezione hobbesiana in questo modo: se vale l’assioma dell’uguaglianza degli uomini (ed esso vale in quanto ognuno di essi è un Io le cui disposizioni e i cui talenti per natura non variano da individuo a individuo in modo tale da garantire la manifesta superiorità di uno sull’altro), ne deriva che non c’è altro modo di guardarsi dalla violenza anche di uno soltanto – poiché la violenza genera soltanto violenza in risposta, – che non sia quello di riconoscere l’obbligo di tutti a farsene carico. Farsi carico della violenza per Hobbes, com’è noto, significa istituire un’autorità che abbia il potere di disporne al di sopra di ogni individuo; significa, in parole povere, salvarsi dalla violenza nell’unico modo possibile: facendo confluire la forza dei singoli individui nell’assoluto del potere sovrano, e alienandola in un essere artificiale, lo stato. Ciò non elimina la violenza, ma elimina gli effetti della violenza, cioè la distruzione della società.
L’uomo artificiale così come lo intende Hobbes – e lo stesso vale per la tecnica intesa come ars ovviamente – non ha niente a che fare con l’uomo tecnicamente riproducibile di cui sopra parlavamo, né con la possibilità tecnica come la intendiamo oggi, ma, a proposito di quest’ultima si può far valere lo stesso argomento circolare: nel momento, infatti, in cui essa fa la sua comparsa, obbliga tutti a farsene carico. Alienare la tecnica – nel nostro caso, concentrarne le forze – non può che significare lasciarla essere, ma non per consegnarsi ad essa quali cavie inermi, bensì per esserne noi stessi, in quanto collettività, fosse anche al prezzo di perdere ineluttabilmente il nostro hic et nunc, il corpo politico; perché, come la condizione paradossale in cui vive l’uomo hobbesiano è quella per cui solo nel politico gli si dà libertà dal politico, così quella dell’uomo contemporaneo potrebbe essere espressa in termini simili: che, cioè, soltanto nella tecnica gli si dà libertà dalla tecnica. Egli torna così a essere Ulisse, ma un Ulisse che – al di là delle peripezie letterarie cui il suo mito è andato incontro nel corso dei secoli – deve viaggiare per ritornare: il suo nóstos è di necessità un periplo.
 
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[1] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, 2012, p. 15.
[2] Faust II, vv. 9024/9025. Ma, a scanso di equivoci, ricordiamo la nota di Heidegger che nulla di “demoniaco” vi è nella tecnica (La questione della tecnica in: Saggi e discorsi, Milano, 1976, p. 21).
[3] «L’allegoria più elegante è quella del Labirinto, che indica la natura dell’arte meccanica in generale… Ben detto è anche che quello stesso che ha inventato le tortuosità del labirinto, ha mostrato anche l’opportunità di un filo conduttore, perché le arti meccaniche sono di doppio uso, si prestano al male e offrono nello stesso tempo il rimedio, giacché hanno il potere di sciogliere i loro stessi raggiri». (Dedalo o delle arti meccaniche, in: Uomo e natura, Bari, 1994, p. 176-77).
[4] O per dirla con le parole dell’intelligenza cosmica AC del racconto L’ultima domanda di Asimov (1956): «no problem is insoluble in all conceivable circumstances».
[5] Benjamin, op. cit., p. 19.
[6] Non dissimilmente da H. Jonas, infatti, si intende qui «il corpo vivente come l’archetipo del concreto”, anzi, esso,  “nella misura in cui è il mio corpo, nella sua immediatezza, di interiorità ed esteriorità insieme, è in generale l’unico concreto dell’esperienza completamente datosenza il corpo e la sua elementare esperienza di sé, senza questo punto di partenza della nostra più ampia e generale estrapolazione nel tutto della realtà, non si potrebbe trarre alcuna idea di forza e azione nel mondo e quindi della connessione agente di tutte le cose, dunque nessun concetto della natura in generale». (H. Jonas, Organismo e libertà, Torino 1999, pp. 32-33). Cfr. inoltre l’appunto Interesse per il corpo della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer (Torino, 1966, pp. 247ss.), anche se le considerazioni che qui s’intendono sviluppare si allontanano di molto dalle invettive francofortesi. La tesi sociologica della ’reificazione del corpo’, cioè della ’trasformazione del corpo in cosa morta’ come ’parte del processo costante che ha ridotto la natura a materiale e materia’, appare oggi una formulazione un po’ troppo grossolana e ideologica, soprattutto nell’estremismo delle sue affermazioni più perentorie: come, ad esempio, l’impossibilità, una volta entrati nell’età della tecnica, di recuperare il “vivo” del corpo (naturalmente insistendo sulla differenza semantica dei termini tedeschi Leibe Körper). Quel che proponiamo qui, invece, è di inscrivere nel concetto di riproducibilità proprio quel ’corpo vivo’ che Adorno e Horkheimer ritenevano irrimediabilmente perduto; il che non è detto che non possa rappresentare una prospettiva ancora più inquietante.
[7] Il che non vuol dire ignorare che i progressi più significativi nella riproducibilità tecnica dell’uomo si stiano compiendo sul versante cognitivo, con lo sviluppo della cosiddetta intelligenza artificiale. Partire dal corpo vivo significa qui, semplicemente, non fermarsi alla sterile e del tutto superata opposizione fra materia e mente, o fra corpo e spirito, ma considerare unitariamente l’uomo a partire dalla sua vita concreta e oltre le astrazioni concettuali tradizionali. Nel corpo vivo, quindi, si fanno qui rientrare tutti i vari aspetti della vita umana (fisiologici, cognitivi, affettivi, pulsionali, relazionali ecc.), compresa, naturalmente, la consapevolezza di sé. Benché, infatti, la formazione della coscienza di sé non sia un processo meramente biologico (psico-fisio-ecologico semmai), è del tutto plausibile considerare tale coscienza come una delle funzioni specifiche del corpo umano, o, in modo ancora più neutro, come un’espressione della vita corporea dell’uomo. Se nell’esperienza che si ha di tale coscienza, così come nel linguaggio, appaia nient’altro che la sua astrazione, è una questione che qui non possiamo affrontare. La riflessione che ne è all’origine, tuttavia, è un fatto, ed è un fatto che non desterà più di tanto scandalo ricondurre al corpo vivo nel senso che abbiamo precisato.
[8] Si può certo affermare che l’uomo nasce nel momento in cui il suo corpo perde quelle caratteristiche di animalità che esso ha in comune con gli altri esseri viventi, cioè la capacità di adattarsi naturalmente all’ambiente che lo circonda a partire da specifiche funzionalità (pelo, grasso, squame, artigli ecc.); e che, quindi, la nudità già costituisce una caratteristica che impone all’uomo una considerazione elettiva del proprio corpo, e ne dirige l’operosità in misura preminente. La tecnica sarebbe, così, già in vista del corpo sin dagli albori della civiltà, e la riproducibilità tecnica così come l’abbiamo descritta non costituirebbe una vera e propria linea di frattura. Tuttavia, ciò che non si è verificato sino a oggi è quello sdoppiamento per cui il corpo non è più soltanto termine delle attività umane (in funzione del suo benessere), bensì diventa mezzo di cui si può disporre al pari di ogni altra materia, e che, al pari di ogni altra materia, dal momento che se ne conoscono le leggi biologiche fondamentali, si può modificare a piacimento. Altra precisazione necessaria: è vero che, da un certo punto di vista, l’uomo utilizza da sempre il proprio corpo come mezzo per realizzare scopi di qualsiasi tipo in maniera sempre più complessa, a partire dal semplice uso dei propri arti per provvedere ai bisogni naturali, costruire utensili e armi per procacciarsi il cibo o difendersi (cfr. su ciò i rappresentanti della scuola antropologica tedesca: H. Plessner,  L’uomo come essere biologico, in: Filosofi tedeschi d’oggi, Bologna, 1967, pp. 368ss.; e, più in generale, A. Gehlen, L’uomo nell’età della tecnica, Roma 2003), fino all’uso libero del corpo nelle pratiche rituali o nelle cerimonie di tipo religioso, come nella danza, nelle arti marziali, nel tatuaggio o nell’ornamentalità, ecc. Tuttavia, non è in questo senso che la riproducibilità tecnica investe il corpo dell’uomo trasformandolo in un mezzo: dire che il corpo diventa un mezzo riproducibile, infatti, significa dire principalmente che esso perde gran parte del suo valore simbolico e rituale (anche se, ovviamente, tutta la meccanica pulsionale che, secondo la psicanalisi vi starebbe alla base, rientrerebbe a pieno titolo, nel nostro caso, nell’ambito della riproducibilità tecnica).
[9] Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, 1995, pp. 35-37.
[10] Heidegger, Eraclito, Milano, 1993, p. 7.
[11] Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 20-21. Sul modo di questa produzione, si vedano le celebri analisi di pp. 11ss., secondo le quali il produrre della tecnica non è inteso come pòiesis, in senso classico, bensì come provocazione in vista dell’impiego. «La tecnica è un modo del disvelamento» (p. 9) o, per dirla con le parole di Platone (un Platone quasi sicuramente spurio) la téchne è “eurésistòn pragmáton” (Minosse 314b).
[12] Oltrepassamento della metafisica, in: Saggi e discorsi, op. cit., p. 62.
[13] Cfr. Heidegger: «[la cibernetica] considera in via preliminare l’uomo come un “fattore di disturbo” nel calcolo cibernetico. Con tutto ciò, la cibernetica può esser già sicura della sua “cosa”, vale a dire di calcolare tutto ciò che è nei termini di un processo controllato, poiché nasce l’idea di determinare la libertà dell’uomo come qualcosa di pianificato, cioè di controllabile», Filosofia e cibernetica, Pisa, 1988. “Il bisogno di materiale umano – d’altronde – è soggetto alle regole di ordinamento dell’apparato”, Oltrepassamento della metafisica, op. cit., p. 62.
[14] Che è poi la tesi più volte ribadita da Severino. Cfr. soprattutto: Il destino della tecnica, Milano, 1988.
[15] Tralascio qui di affrontare tutto l’intricato capitolo del rapporto fra nichilismo e tecnica, così come è stato sviluppato dallo stesso Heidegger alla luce delle ricerche su Nietzsche, e da tutta la nutrita schiera dei suoi epigoni. Una cosa però la si può dire: in nessun modo l’uomo della tecnica così come qui lo si intende può essere avvicinato al mito nichilistico per eccellenza, quello del superuomo.
[16] Cfr. Löwith, Saggi su Heidegger, Milano, 2006, p. 103.
[17] Lettera sull’umanismo, p. 96. Cfr. naturalmente E. Jünger, Sulle scogliere di marmo (1939).
[18] Oltre al già citato racconto di Asimov, la brevissima pagina di F. Brown, La risposta (1954).
[19] R. Kurzweil,  La singolarità è vicina, Milano, 2008. V. Vinge, The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era, Vision-21/NASA Symposium 1993. Per un inquadramento critico del Transumanesimo o Post-umanesimo si può consultare l’ottimo libro di R. Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, 2002.
[20] Impossibile condensare in un singolo titolo la vasta opera di Teilhard de Chardin, basti ricordare qui Il fenomeno umano, Brescia, 2008.
[21] Un’intuizione indirettamente sviluppata da Kurt Vonnegut in Mattatoio n° 5 (1969).
[22] Cfr. su ciò un altro interessante contributo di R. Marchesini, Epifania animale. L’oltre-uomo come Rivelazione, Roma, 2014.
[23] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca…, p. 21.
[24] Ibid., p. 18.
[25] Ibid., p. 24.
[26] Il cui nome rimanda a quello di un altro eroe indiscusso della stagione d’oro del cyberpunk giapponese, il Tetsuo dell’Akira di Otomo (Manga 1982/1990, Anime 1988). Entrambi i personaggi, per la dismisura del loro perverso desiderio di essere “altro da sé”, finiscono per rovesciarne sul loro corpo le conseguenze, come nelle allucinanti scene industriali di Tetsuo, in cui il fuoco e il metallo si trasformano nella carne del demone distruttore del mondo, il cui benessere è proprio costituito dalla compiuta incarnazione nel feticcio meccanico che egli venera; e nel trionfo dell’informe di Akira, dove il giovane Tetsuo dilata a tal punto la forza psichica della sua negazione, da diventare un unico informe mostruoso agglomerato di carne e dispositivi completamente incosciente, attratto come una falena da tutto ciò che è per ridurlo a sé. Cfr. M. Boscarol, Tetsuo: the Iron Man. La filosofia di TsukamotoShin’ya, Roma, 2013.
[27] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca…, p. 22.
[28] Ibid., p. 48, corsivo dell’autore.
[29] Ibid., p. 47.
[30] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in: Angelus Novus, Torino, 1962, 1995, Tesi XI, p. 81-82.
[31] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca…, “Le masse hanno diritto di mutare i rapporti di proprietà”, p. 46.
[32] Dire che la via della cura passa attraverso il territorio della tecnica, non significa certo affermare che le tecniche terapeutiche oggi praticate dalla medicina ufficiale siano le migliori (non di altre, magari pseudoscientifiche e ciarlatanesche, ma nel senso preciso della loro funzionalità specifica). Da questo punto di vista la medicina clinica può essere definita ancora una scienza rudimentale, poiché la conoscenza dei processi olistici del corpo, che le malattie più gravi vanno a intaccare, è ancora a uno stato poco più che embrionale, e lo stesso può dirsi del grado di efficienza – non di efficacia – delle cure stesse, che ancora oggi, nella maggior parte dei casi, si limitano a debellare la malattia in un modo traumatico del tutto inadeguato e invasivo.
[33] L’intuizione che il dolore e la sofferenza costituiscano una forma privilegiata di conoscenza, secondo la formula eschiliana del pátheimáthos, costituisce uno degli adagi fondamentali del pensiero occidentale, su cui si è innestata la tradizione cristiana della teologia della croce e della dottrina della sofferenza come riscatto del peccato. Se, o in che modo sia possibile conciliare l’esigenza morale della soppressione del dolore con la coscienza intellettuale del suo valore formativo, rimane in questa sede qualcosa di temerario anche soltanto da chiedersi.
[34] Ed è precisamente questa la posizione della Scuola francofortese che all’inizio si rammentava. In tal senso, l’attacco alla scienza medica quale sottoprodotto di bassa lega del tecnicismo imperante, o mera conseguenza del processo di reificazione di tutto l’umano, è stata condotta, nel secolo scorso, sia da destra, sia da sinistra, con sorprendente foga. Agli attacchi dialettici dei francofortesi già citati, per esempio, si può affiancare la fiera combattività del Trattato del Ribelle di Jünger, Milano 1990; cfr. soprattutto il paragrafo 27, pp. 95ss.
[35] Il che costituisce l’opposto di quell’idolatria del fondamento dell’identità personale sul dato biologico del corpo, che sta alla base di tutte le odierne ’ideologie della normalità’. Come già notava Hobbes nel fondamentale capitolo XVI del Leviathan, la persona giuridica è il primo uomo artificiale che compare nella storia dell’umanità, come attore politico del contratto. Solo in tal modo è possibile tenere insieme la componente ecologica del corpo con quel che Huxley chiama convenientemente la “condanna a essere sé stessi”.
[36] Anche se nessuno vorrà confondere i diversi piani cui appartengono, rispettivamente, patologie diverse come una neoplasia maligna, ad esempio un carcinoma localizzato, e una psicosi cronica, ad esempio la schizofrenia.
[37] Si potrebbe ad esempio, parafrasare l’incipit dell’Introduzione del Leviatano in questi termini: “La NATURA (la tecnica con la quale Dio ha fatto e governa il mondo) è imitata dalla tecnica dell’uomo, come in molte altre cose, così anche in questo: nel poter fare un animale artificiale… La tecnica va ancora più lontano, imitando quella razionale e più eccellente opera della natura che è l’uomo”, “La materia e l’artefice di questo uomo artificiale sono entrambe l’uomo” (Leviatano, Firenze, 1976, p. 5ss.).