Nicola Gragnani | Mitologia quantistica

Lezione. 5
 
“... è impossibile considerare la materia
come ciò che veramente esiste”
(Werner Heisenberg)

Questa lezione - sia detto il vero! – verrà tenuta da un uomo che non conosce minimamente non solo la meccanica quantistica, ma neppure la fisica classica, e la matematica ancor meno della fisica. Non studiai queste materie al liceo, non le ho studiate da autodidatta nei parecchi anni a seguire, con ogni probabilità non le studierò in futuro. Credo d’essere molto vicino inoltre a non ricordare più la procedura per svolgere in colonna, ordinatamente, un’operazione. Ora, con queste credenziali, come convincere il lettore virtuale, di per sé incline al nomadismo informatico a continuare la lettura? Così: l’unico punto di vista che permette di svelare la quantistica come ultima mitologia – e questa è proprio l’essenza della cosa - deve strutturalmente situarsi in un altrove, al di fuori del gioco della scienza, in un altro linguaggio, in un’altra forma di pensiero, insomma nell’altrove della filosofia. Il fisico teorico, concentrato sulle sue equazioni, o quello sperimentale intento ad accelerare particelle a velocità vertiginose non hanno certo tempo da perdere con il problema apparentemente insensato dell’essenza mitologica della meccanica quantistica. Noi però, i filosofi, proprio in quanto filosofi amiamo orgogliosamente la perdita di tempo e l’argomento ozioso e dunque poniamo come fosse decisiva per il destino dell’essere la seguente questione: è la meccanica quantistica, con tutte le sue filiazioni, un mito nel senso più autentico della parola mito? Ovvero: la trama della meccanica quantistica è una narrazione sacra?
Intanto: perché definire un paradigma della fisica del novecento come “mito”? Non si sta abusando già da tempo dell’idea di narrazione mitica in queste sfilacciate lezioni filosofiche, tanto da svuotarla d’ogni senso? Vediamo. Affinchè un mito sia riconosciuto come mito è essenziale, innanzi tutto, che la narrazione mitica si stagli come qualcosa di alto, molto alto, e che questa altezza sia tuttavia qualcosa di visibile, in qualche modo, da qualcuno che si trova in basso e all’esterno del palcoscenico delle divinità agenti. Ora, un elemento che senza dubbio permette questa polarizzazione tra uomini e divinità consiste nel fatto che gli abitanti del mondo di sotto non riescono a capire come siano sorte le divinità del mondo di sopra. Immedesimiamoci perciò per un attimo, ad esempio, nel mondo greco che fu: nei templi, nelle narrazioni, nei gesti scolpiti le divinità ci sono, palpabili, presenziano luoghi e parole, con oracoli che predicono il futuro, Dioniso che ride dello smembrato Penteo e generali sacrificanti al terribile Zagreo per trionfare in battaglie troppo difficili. La presenza divina è dunque evidente e palpabile: in alto gli déi, in basso gli uomini. In effetti: chi avrebbe mai potuto raccontare tutte queste storie infinitamente intrecciate? Come sono nate? Che siano stati Omero ed Esiodo? Ma il Greco, o meglio noi immedesimati in lui, sa bene che Omero ed Esiodo furono cantastorie raccontanti magistralmente storie antiche, storie narrate anticamente da cantastorie di storie antiche. Il Greco non capisce come possano essere sorte tutte queste storie, non sa se siano state inventate dagli uomini o se gli uomini siano stati inventati dalle storie, se si tratti di accadimenti o meno, se siano doni degli dei agli uomini o degli uomini agli dei: l’origine del mito assume così la forma, per il Greco - e per inciso: anche per noi – del “non mi ci raccapezzo”.
Ma il Greco, in verità, a meno che non fosse uno strambo, ovvero un filosofo, non si poneva affatto il problema dell’origine del mito e per questo, non comprendendo, comprendeva senza concetto l’unica cosa da comprendere: che le storie mitiche sono storie divine. Noi siamo oggi nella stessa o in analoga situazione (anche se resta dubbio se le nuove storie siano degne d’esser dette divine), e per questo dicevamo anzitempo che solo dall’esterno della fisica si può caratterizzare la quantistica (e la scienza in generale, certamente) come un mito, perché essa è, socialmente parlando, indubbiamente innalzata dal profano ad altezze così vertiginose, ed è dal profano così poco problematizzata, nonché così profondamente creduta, da esser senza dubbio posta, appunto dal non addetto ai lavori, dall’ignorante qualunque, sul piedistallo delle narrazioni sacre. E come il Greco spontaneamente divinizzava le storie divine non comprendendone l’origine, così noi, non comprendendo nulla della genesi delle mirabilia prodotte da strabilianti scienziati, spontaneamente divinizziamo tutto ciò – per quanto in forma assai moderna – grazie alla nostra completa ignoranza delle procedure che conducono la scienza alle sue asserzioni così come alle sue esplosioni atomiche. La quantistica può così elevarsi a mito innanzitutto a causa dell’impossibilità dei più ad accedere alle proposizioni matematiche e, in misura minore ma rilevante, dall’impossiblità di accedere agli strumenti tecnici e agli esperimenti effettivamente realizzati per giungere a determinate conclusioni o manipolazioni della materia.
Solo gli iniziati ai misteri possono infatti comprendere dall’interno i miti, solo gli iniziati possono accedere con gli dèi in sfere extra-mondane proibite ed impensabili per l’essere umano quotidiano ed indaffarato ad orientarsi nel mondo; solo gli iniziati alla matematica superiore possono viaggiare in mondi di cui si raccontano cose fantastiche, i mondi degli elettroni, dei quark, dei muoni, dei gluoni, dei fotoni, dei neutrini, della materia oscura, dell’antimateria e della curvatura spazio-temporale, mentre l’uomo qualsiasi, invece, può solo venire a sapere, dall’esterno, dell’esistenza di tali mondi, che gli possono soltanto essere narrati, raccontati. Così, come accadeva e sempre riaccade nelle iniziazioni, l’iniziato alle equazioni, secondo tradizione iniziatica, tiene per se il segreto e cripta l’equazione ai più, lui e lui solo possedendo la tecnica estatica per l’accesso ad altri mondi; e come il veggente ama raccontare la visione ma non gradisce granché spiegare come sia giunto a “vedere” di più, così lo scienziato va dove deve andare sulle ali del suo potente artificio matematico e, raggiunto il luogo giusto, afferma: “ecco, vi erano un tempo elettroni, protoni e neutroni, ma ora vediamo meglio, e vediamo nuvole e nessuna orbita e nessuna traiettoria: questo è il caos, che ci affascina e ci terrorizza, ed è la struttura ultima di tutto ciò che esiste”. Noi ascoltiamo, tramite le potenze mediatiche veicolanti il mito moderno, e restiamo meravigliati, a bocca aperta.
La bocca aperta, tuttavia, gesto stupendo se di breve durata, nel permanere troppo sul volto diviene segno inquietante e sicuro di profonda e radicata stupidità. Una caratteristica della potenza della scienza, infatti, così come della costruzione di ogni mitologia, consiste infatti nel generare imbecillità. L’imbecillità mitologica in questione non riguarda, ovviamente, cose come l’origine, l’essenza, il fine o la materia della mitologia, ma gli effetti sociali complessivi dell’instaurarsi della potenza mitologica. Proprio là infatti dove una potenza si attualizza costituendo un nuovo mondo di senso e l’infinita finezza spirituale intrinseca al processo trova modo di estrinsecarsi, proprio là si prepara anche il terreno per un nuovo inabissarsi del pensiero. Non nel senso, anch’esso straordinariamente vero, che ciò che viene ad essere svelato allo stesso tempo stende altrove un nuovo velo, ma nel senso, utilissimo alla conservazione sociale delle cose presenti ma non alla salute della singolarità irriducibile che pure dobbiamo essere, che la nuova potenza, infinitamente alta e lontana, si instaura come dominio al posto della singolarità possibile.
Quest’ultimo passaggio merita una spiegazione, perché si tratta, davvero, di gettare uno sguardo in un tratto dell’essenza dello spirito della nostra epoca. Se dobbiamo provare ad essere noi stessi, se vogliamo tentare l’impresa della libertà, dobbiamo prima di tutto pensare. Oggi più che mai. Per pensare dobbiamo riconoscere innanzitutto che i nostri pensieri non ci appartengono. Questa è l’iniziazione specifica richiesta dalla sana filosofia.
Si proceda intanto ad un piccolo esperimento. Si chieda a dei ragazzi che cosa è la bellezza, e tutti o quasi tutti risponderanno: “è ciò che piace a me e che io trovo bello, ma altri trovano bello altro, perché la bellezza è relativa”; poi si provi a chiedere lo stesso rispetto a ciò che è buono, giusto, bene e male, e tutti diranno: “per me è questo il giusto, ma per un’altro è quest’altro” e così via; si continui poi l’esperimento chiedendo quale dovrebbe essere la forma politica migliore per l’uomo e si sentirà rispondere: “la democrazia”; si continuerà poi chiedendo che cosa è il pensiero e si ascolterà questa risposta: “il cervello”; e ancora, da domanda a risposta: Che cosa è la luce? “Raggi! Onde! Sì, raggi che premono sull’occhio”; E la forza di gravità? “Ma è questa! Questa penna che adesso cade, eccola, eccola qui la forza di gravità!”; Da dove origina l’universo? “Dal Big Bang”; E l’uomo? “Dalle scimmie”; Esistono gli atomi? “Certo!”; Gli scienziati li vedono? “E come no?”; Come sarebbero fatti? “Come i sistemi planetari, con una sorta di sole centrale ed elettroni orbitanti come pianeti attorno ad esso”. Il nostro esperimento potrebbe procedere ancora a lungo, così, di automatismo in automatismo. Ora, queste sono solo alcune questioni alle quali si sa immediatamente rispondere: i più hanno dunque le idee chiare, chiarissime, nientemeno che sull’estetica, sull’etica, sulla politica, sull’origine dell’uomo e dell’universo e sulla struttura di tutto ciò che ci circonda. Un ragazzo, verso i sedici anni, sa già tutto questo, nel senso che tutto il contenuto del presunto suo pensiero è già dato in questa forma. Curioso, nell’era del relativismo e dell’individualismo più esasperati, tutti sono perfettamente conformati nel loro essere relativisti e ribadire la propria irriducibile individualità! Curioso, nell’era della fine della metafisica, tutti sanno cosa è pensiero, cosa è vita, cosa spazio, tempo, materia, uomo, animale, pianta, tutto! Che colpo di fortuna: nell’epoca della fine della scienza del tutto, trovarsi tutti che sanno tutto!
Ci sono dunque questi pensieri automatici, meccanici, irriflessi, e molti, molti, molti altri simili, e questi pensieri pensano nella persona, e quasi quasi sono loro che pensano la persona, che, come pensante, svanisce. Nel carattere si ritrova poi nuovamente l’individualità, è vero e siamo tutti d’accordo, e lì sono evidenti le differenze di inclinazioni e gusti tra Pinco e Pallino, tuttavia nell’elemento più alto, nel pensiero, la sostituzione risulta oramai completa. Entra l’universale, il singolo scompare. Tutti sono Pincopallino. Questo universale, ora e qui, oggi, ha la forma della narrazione scientifica (e del suo correlato relativistico, determinato dalla svalutazione di tutte le sfere non riducibili a certezza scientifica: il buono e il bello). E così la scienza genera imbecillità, ossia l’impossibilità di pensare. Non si tratta soltanto di un effetto indesiderato ed inevitabile dell’affermarsi della scienza, così come secoli fa la Chiesa trionfante non produsse innocentemente il suo specifico ingabbiamento del pensiero. Parte integrante della narrazione scientifica è infatti l’occultamento delle sue procedure e di tutta la complessità, la problematicità che la riguarda. E’ una cosa d’altra parte arcinota, e anche Kuhn la fa notare nella sua Struttura delle rivoluzioni scientifiche: le rivoluzioni, in quanto scandaloso emergere della falsità dell’immagine precedente della materia, sono scomode e perciò mantenute invisibili al mondo sociale, ed anche all’interno delle discipline stesse i manuali accademici sempre occultano ciò che è problematico ai futuri scienziati in erba e sclerotizzano dogmaticamente la scienza, in modo che l’esser scienziato significa, normalmente, esser preliminarmente convinti di apprendere un sapere vero e sicuro ed impegnarsi a risolvere “rompicapi” all’interno di una cornice assiomatica indiscutibile. Esiste dunque già nel corpo sociale della scienza una tendenza alla dogmaticità, che poi nel corpo vivo degli uomini non diventa né più né meno che una colata di cemento armato versata sulla vita del pensiero. La scienza distrugge ogni possibilità di libero pensiero. Senza la comprensione di questo vero e tragico presupposto, che cioè la potenza scientifica affetta e condiziona prepotentemente e necessariamente la mente di tutti (anche dello scrivente, dunque), oggi senza questa consapevolezza non si può più fare niente che assomigli ad un atto intelligente, assolutamente niente. Perché tutta la natura è pensata scientificamente e la natura, almeno da un certo punto di vista, è precisamente il tutto che è.
Il filosofo ha perciò l’obbligo, tra le altre cose, di tornare a sviluppare la filosofia della natura. Ma tra la filosofia e la natura vi è oggi, per l’appunto saldamente piantata lì nel mezzo, la scienza, che a sua volta è un termine medio tra l’osservatore e la cosa osservata. La scienza tra l’uomo e la natura, in modo che la natura risulta sempre e per forza di cose (e oramai per esplicita ammissione degli scienziati migliori) natura scientificamente afferrata e non proprio “la natura in sé” (ritorno al buon vecchio Kant), e la filosofia invece tra l’uomo e la scienza, in un certo senso perciò doppiamente distante dal vero, eppure di fronte ad un vero (la scienza e l’immagine scientifica della natura intesa come costruzione dell’immagine scientifica) che la scienza con i suoi occhi matematici non riesce ad osservare se non con enormi difficoltà e quasi forzandosi ad uscire da se stessa (di questo sforzo diremo più avanti).
Non si può dunque sottrarsi al confronto con la scienza, e questo proprio per tornare a pensare senza imbarazzo e con gioia alla luce, ai colori, all’acqua, alle montagne, alle api che impollinano i fiori e agli spazi siderali (e non intendo al nostro vissuto di tutto ciò). A maggior ragione non può sottrarsi al compito la filosofia della mitologia, perché la possibilità di rintracciare nell’eccezionale la traccia del “sacro” dipende in tutto e per tutto dal poter spezzare certe abitudini mentali e dal poter vedere la natura con occhi nuovi. Il presupposto per andare alla caccia di Dio è dunque, ora e qui, in questa lezione, un tentativo di comprensione (dall’esterno della cosa stessa) della sfera più teoricamente impegnativa dell’immagine odierna della natura, un confronto con la meccanica quantistica.
 

Dialettica della meccanica quantistica

C’era una volta un mago, naturalmente tedesco, che si chiamava Max Planck. Correva l’anno 1900 quando, trafficando ed elucubrando attorno ad una strana fornace, “il corpo nero”, trovò impossibile comprendere lo spettro delle radiazioni atomiche con le regole tradizionali della stregoneria moderna e allora provò, così, per disperazione, ad inventare una nuova formula. Ma dove trovarla? Guardava la scatola nera, poi il grafico con le onde, poi la scatola, poi il grafico: non ne veniva a capo. Allora improvvisamente, ispirato dalla sua Musa, voltò le spalle al forno ardente - via dai fenomeni! - chiuse e serrò gli occhi quasi a farsi male e allora ascoltò, ascoltò con attenzione, restò concentrato e cominciò ad intravedere qualcosa, poi a vedere, indubbiamente a vedere, quindi fissò la cosa addirittura chiaramente, laggiù dove niente è sotto gli occhi, e trovò finalmente la formula della rivoluzione scientifica. La pronunciò e gli piacque. Suonava così: H=6,62 ×10−34. Soddisfatto ma anche sconvolto e come svuotato tornò al suo calderone, mescolò, calcolò, osservò ed ora le cose, - che buffo! - tornavano davvero. Troppo buffo però, troppo assurdo. Sorrise allora del suo giochetto matematico, magicamente capace di spiegare l’esperimento ma incapace di rispettare le più elementari nozioni di fisica classica. Scuotendo la testa, divertito, senza credere minimamente ad una corrispondenza della futura “costante di Planck” con qualsivoglia fenomeno fisico, andò a letto a coricarsi. Aveva lavorato duro e anche se in fondo aveva prodotto soltanto un mero artificio matematico pensava comunque di meritarsi una sana dormita.
Si svegliava intanto - annus mirabilis 1905 - e più non si concesse sonno, un secondo mago, ancora tedesco naturalmente, un mago molto più potente, che operò a partire dal primo come la luce opera a partire dall’elettricità, dal chimismo e dal magnetismo, e che in tanto superò il mago del fondamento quantistico quanto la luce del sole supera in splendore la scintilla elettrica. Si trattava, si sa, del famoso Albert Einstein. Nella sua mente potente, inchiodandosi come alle sfere cristalline le stesse fisse, permaneva da giorni, da mesi, da anni il simbolo di Planck: H=6,62 ×10−34. Esiste d’altra parte in queste cose una precisa legge spirituale, che è ancora passibile di divulgazione e che è possibile formulare così: colui che ha la forza di permanere di fronte ad un simbolo, con perseveranza e con umiltà, per una quantità di tempo non umanamente circoscrivibile all’interno delle prassi del buon senso, colui dunque che è - potremmo ben dirlo – ossessionato e quasi preso in possesso dal simbolo stesso, quello è l’uomo a cui il simbolo si dischiude, si rivela. Così, Albert un bel giorno si svegliò, guardò in se stesso nella solita direzione per osservare il medesimo fenomeno, ma a sorpresa l’H planckiana era stavolta scomparsa e anche del cielo cristallino, che Einstein sempre aveva pensato atto a sostenerla, non vi era alcuna traccia. L’H non si fondava su un solido esteso cielo cristallino! Ma dove si trovava, ora? Questo risultava ancora molto misterioso, ma non c’era tempo per interrogarsi troppo sul luogo dell’H, no, perché svanendo la magia planckiana aveva lasciato una traccia fisica nella luce, qualcosa di stranamente granulare, di discontinuo, e tra le altre cose di estremamente piccolo. Albert trovò la scoperta, per certi versi, un poco fastidiosa, non tanto perché si trattava di negare la natura ondulatoria della luce per riabilitare in qualche modo il vecchio Newton, oppure non tanto perché si trattava di allontanare ancor più l’intuizione spontanea delle cose dalla natura delle cose, ma soprattutto per questo, perché in fondo nel suo cuore sentiva la luce come un’ombra di Dio e quasi quasi non gli sembrava che, a qualcosa di grande come all’ombra di Dio, si addicesse una struttura granulare a fotoni. Ma tant’è: “al Grande Vecchio” - pensò Albert – “piacciano molto i misteri complessi e a puntate e visto che certo Dio non gioca a dadi, si verrà a scoprire soltanto poi, nel tempo, come conciliare queste micro-stranezze con quelle macro-stranezze che, mi pare quasi di presentirlo, dovranno inesorabilmente demolire il poderoso edificio newtoniano, per poi conciliarle ancora con certe profonde intuizioni dell’unitarietà religiosa dell’universo.. Bene, intanto ho un pezzo del grande puzzle: ho qui dei meravigliosi quanti di luce!”. Così pensava il grande scienziato, e dopo un momento di estrema soddisfazione e quasi di beatitudine spinoziana del terzo tipo, stava recandosi anche lui a dormire, dopo una dura e quasi infinita veglia matematica. Toccando le coperte, tuttavia, si ricordò che lo strofinio produce elettricità, allora tentò di cacciare il pensiero e si coricò, ma ciò gli ricordò che un corpo fermo e coricato nel letto potrebbe benissimo costituire, posta una stanza con due finestre ed un fulmine percepibile da entrambe... si girò di lato per non pensare al fulmine, ciò che di nuovo gli fece però rammentare che muovendosi anche sol per girarsi quel corpo stesso inesorabilmente non riceverebbe la luce simultaneamente dalle due finestre e... “E sia!” – urlò inferocito Einstein – “Alla malora! Andiamo, forza, il treno in movimento e il fulmine, la velocità della luce e il tempo! In piedi! Ora!”.
Ma lasciamo per un attimo i maghi e torniamo ai filosofi. Schelling scrisse una volta: «la luce è la grandezza più continua che esiste, e la rappresentazione più meschina è quella che considera la luce un fluido discreto»1. La luce, il «simbolo immediato della produttività universale», il «simbolo di ogni continuità», ciò che di per sé è solo fenomeno e quindi «non è materia», insomma, signori, - la Luce! – che per il Maestro si erge a seconda potenza della natura, balzo verso la smaterializzazione dell’inorganico, condizione ed elemento agente effettivo del salto successivo, della vita, insomma ancora, signori, - la Luce! – proprio la luce veniva con Einstein ridotta, per la rovina lì per lì apparentemente definitiva della “questione romantica”, ad elementi granulari, discreti, corpuscolari, buttati un po’ qua e un po’ là, atomi della luce, quantità. «La rappresentazione più meschina» celebrava nel novecento il suo trionfo, incassava il Nobel e distruggeva la continuità della res extensa, la dottrina ondulatoria e l’idea di una specificità irriducibile della luce alla grossolanità del misurabile.
La scienza del novecento operava così il suo primo passaggio dialettico, ribaltando la sostanza materiale estesa in una sostanza caoticamente distribuita a fasci di quantità specifiche. Così, in questo rovesciamento, la materia raggiungeva però la massima determinazione possibile. Si giungeva alla misurazione di ogni forma di energia, persino della luce, e non solo alla misurazione astratta, ma ad inquadrare la luce stessa proprio fisicamente, a “fotografarla” nella sua nudità, priva dello splendore del fenomeno, nuda nel suo essere poderosa e sinuosa duna sono da lontano, ma semplice somma di grossolani granelli di sabbia se osservata più da presso. Si tornava, da questo lato, a trovare naturale e credibile persino l’operazione chirurgica di Newton, che pensò a suo tempo d’aver sezionato la luce utilizzando la lama del prisma, e così il povero Goethe, che aveva ben mostrato che in fondo ciò che si vede nel noto esperimento non è affatto lo scomporsi della luce in colori, ma che i colori sono il frutto dell’azione della luce su un corpo solido, il povero Goethe, così profondamente pre-fenomenologico, venne abbandonato ancora una volta alla naftalina.
Ma l’operazione era oramai avviata, l’impresa della massima materializzazione delle forze materiali prendeva piede, ed Einstein sembrava il giusto individuo cosmico-storico per compierla. Ed andò infatti per quella via, senza seguire gli sviluppi ulteriori e dialetticamente opposti della sua intuizione fotonica, di cui anzi divenne acerrimo nemico. Abbandonò cioè a se stessa la quantistica da lui generata e continuò a materializzare tutto, che è poi un’operazione che ogni grandissimo mago, al culmine delle sue forze, deve riuscire in effetti a realizzare. La scienza pre-einsteiniana infatti era sì immersa fino al collo nella materia, nel determinismo causale della materia, geometricamente rappresentata e puntualmente misurata, eppure nei suoi fondamenti poggiava su inconfessate entità metafisiche. Tre su tutte: lo spazio, il tempo, la gravità. Einstein concentrò allora ancora una volta la sua mente e si affidò alla Musa planckiana voltando le spalle ai fenomeni – sprezzante dell’empiria come solo un grande fisico può essere, perché il fisico è un uomo che pensa di poter dedurre la natura dalle proprie operazioni matematiche – fissò la sua E=mc², aspettò che svanisse per trasmutarsi in cose e infine sentenziò: “lo spazio non è un vuoto assoluto ed infinito, indipendente dal tempo e dalla materia, non è il newtoniano abbraccio divino all’universo, ma è in fondo il campo gravitazionale, che dunque non è nello spazio ma è lo spazio, e il tempo non è anch’esso che una componente dello spazio, che dunque è uno spazio-tempo, perché il tempo dipende dalla massa e dalla sua velocità e non è affatto ciò che scorre uniformemente per tutti nello stesso modo, così come lo spazio non è affatto qualcosa di piano ma si curva, ovvero lo spazio è curvo, è curvo perché è come una specie di strano tessuto che si infossa in presenza di masse importanti come pianeti e stelle e che, in certe condizioni, può persino forarsi”.
Non lo disse così, in verità, ma attraverso il misterioso succedersi, pagina dopo pagina, di acrobatici equilibrismi fisici. L’equazione, infatti, è l’essenza della fisica. Comunque, traducendo il tutto in linguaggio corrente, si può forse sperare che disse qualcosa di simile, che disse, ad esempio, che lo spazio si può increspare, oppure addirittura (anche se forse questo lo dissero gli epigoni) che si potrebbe forare. Ora, si può pensare ad una più concreta materializzazione dello spazio? Cosa c’è di più “fisico” di una stella che, morendo, crolla su se stessa creando un buco nero?
Eppure, mentre lo spazio acquisiva spessore reale proprio svanendo nella sua autonomia, proprio quando Einstein giunse a dichiarare che Descartes aveva in fondo ragione perché «non esiste spazio “vuoto di campo”», [2] insomma proprio mentre sembrava esser ritornata in forma nuova l’idea aristotelica che senza sostanza materiale non può darsi alcuno spazio («Se immaginiamo di togliere il campo gravitazionale, non rimarrà assolutamente nulla, neanche uno “spazio topologico”»), [3] proprio nel cuore stesso di questo gigantesco sforzo per rendere la fisica conseguentemente empirista (Einstein amava citare Hume e Mach, e non a caso), proprio nel nucleo iniziale di questo sforzo - l’equazione tutto abbracciante nella sua strabiliante semplicità: E=mc² - proprio in quel non-luogo si annidava il più formidabile rovesciamento della fisica classica se non di ogni fisica possibile. Il nostro corpo di carne, e con esso anche tutto ciò che amiamo definire “corporeità” non sarebbe, a prestar fede alla via della relatività, se non energia rallentata, “massa” sì, ma soltanto in quanto movimento lento. Un movimento più veloce e.. puff! - ecco il numero migliore del mago Albert - la massa scompare e resta l’energia. La materia è in primo luogo energia. Accelerassimo allora per scherzo, ora e qui e nella nostra immaginazione, l’intero universo, che cosa resterebbe ancora dei pianeti, delle stelle, del tempo, dello spazio, delle montagne e del mare? Non assolutamente nulla, in questo caso, ma certamente un non-qualcosa, una non-propriamente-materia, un’energia. Forse, in termini schellinghiani, un’infinita produttività.
E venne il terzo tedesco, oscuro e ancora più oscuro, e il suo nome era Werner Heisenberg. Lasciamo però da parte l’oscurità più esplicita (il “progetto Manhattan”) ed osserviamo nel genio delle particelle il momento fondamentale. Potrebbe essere questo: la questione della materia qui si rovescia e la scienza giunge ad una nuova determinazione di se stessa, proprio nel pieno del suo furioso ritagliare analiticamente, intellettualmente la materia in parti sempre più minuscole. Più piccole di ogni immaginabile piccolezza. Cose infinitamente piccole, dobbiamo capire che si parla qui di cose di un infinitamente piccolo che solo la matematica può figurare, e solo strumenti grottescamente pachidermici, gelidi e fantascientifici possono monitorare (si pensi all’acceleratore del Cern); cose minuscole ricercate tra l’altro con l’impiego di enormi capitali, come se le micro-particelle valessero il segreto di tutte le cose, o come se potessero permettere la massima estrinsecazione del desiderio di potenza dell’essere umano (e questo in effetti sembra che sappiano farlo; tuttavia abbiamo deciso di non discutere ulteriormente l’asservirsi della scienza alla costruzione della bomba atomica. Ricordiamo che ciò è avvenuto, e tanto fa).
Dunque la fisica con Heisenberg, dicevamo, diventa un’altra cosa, cambia pelle. Infatti la fisica è la scienza dei corpi in movimento, ma i corpi qui divengono meri fenomeni, e parliamo proprio di tutti i corpi, dalle stelle agli alberi, dall’acqua alle microparticelle. Queste ultime, che dovrebbero essere il sostrato, il noumeno svelato come fondamento del reale, si rivelano in realtà illusione, Maya, mere immagini artificiali di qualcosa. Di qualcosa d’altro, ovvero, in termini kantiani (esplicitamente utilizzati dal fisico tedesco): immagini del noumeno. La materia svanisce. Ciò che è si rende per la fisica, finalmente anche per la fisica (in ritardo di secoli rispetto alla filosofia) estremamente problematico. Intanto, metodologicamente: che il mondo possa essere descritto oggettivamente, a prescindere dall’osservatore, si rivela una prospettiva illusoria ed ingenua, un infantile realismo pre-gnoseologico. Poi, meta-fisicamente: che la materia debba essere, nella sua ultimità, posizionata in qualche luogo e moventesi nello spazio da un qui ad un là ad una certa velocità, questa ovvietà presupposta da ogni indagine fisica e da ogni intuizione ordinaria delle cose, si rivela nella neo-stregoneria tedesca come una mera semplificazione intellettuale necessaria per la descrizione del reale, uno spontaneo ma erroneo immaginarsi la materia così e così perché l’uomo, in fondo e kantianamente, non riesce a pensarla altrimenti; qualcos’altro dunque, non propriamente l’uomo, permette invece l’apertura di un orizzonte ulteriore, l’apertura per poter dire questo, che la materia, in verità, non propriamente “è”, bensì ha la “possibilità d’essere”.
L’essenza della materia non è il reale bensì il possibile, l’onda di possibilità individuata dalla giocoleria matematica. Una nuova potenza doveva infatti scalzare l’a-priori kantiano necessariamente presupposto da ogni indagine classica (“sostanza/accidente”, “causa/effetto” ecc..) per mostrarne certi limiti d’applicabilità anche agli stessi fenomeni (e non solo, come si sa, alle idee noumeniche), una nuova ed inedita forma di rivelazione dell’essere capace, essa sola (in questo momento storico) di squarciare la nostra abitudine, sempre assolutamente presente ed operante, a porre la cosa che è come essere e la sostanza come cosa realizzata, definita, presente, permanente, estesa.
Quale, dunque, l’apertura del nuovo orizzonte, quale la potenza in questione capace di spezzare e scovare il dogmatismo sempre operante? Risposta: l’essenza nascosta dell’equazione, che sempre precede la comprensione dell’uomo come l’opera d’arte precede e guida il vero genio. Il genio scientifico è l’equazione che dà la regola alla scienza. Ma che cosa significa, però, che la materia è, secondo l’equazione, onda di possibilità? Significa che, prima dell’osservazione, ma non per questo modificata nella sua essenza dall’osservazione, la materia, ciò che ad esempio chiamiamo “elettrone” può effettivamente essere sia qui che lì allo stesso tempo e secondo il medesimo rispetto (si badi bene, nel possibile, non nel “reale” fenomenico, in atto, dove continua a vigere il principio di non contraddizione), ovvero la “materia” di un elettrone non presenta di per sé un’estensione definita, non sta in uno spazio ben delimitato e non si muove da un orbita all’altra seguendo una traiettoria. L’elettrone si comporta in modo folle e assurdo. Così folle che infatti l’elettrone stesso, così come lo pensiamo, come una piccola palla da biliardo ruotante attorno ad un nucleo, non esiste. Talvolta sembrerebbe piuttosto un’onda o una nuvola, tal’altra un corpuscolo. Inoltre, se anche talvolta è, certamente non si muove, non ruota attorno al nucleo (e così l’immagine planetaria delle orbite e del sole/nucleo centrale si svela per ciò che è, immaginazione, rapporto analogico che surrettiziamente precede e guida la costruzione dell’immagine della materia; per lo più, infatti, per la maggior parte dei suoi concetti, delle sue sistematizzazioni dei dati sperimentali, la fisica atomica è un prodotto della fantasia, ovvero di una fantasia vincolata, come d’altra parte anche la fantasia del pittore è pur sempre vincolata dalla tela e dai colori).
Insomma l’elettrone non è e non ruota. Ma è anche il nucleo stesso che, così come lo immaginiamo, certamente non c’è. Sappiamo scinderlo e far scomparire delle città, questo è certo, ma il nucleo non c’è [4]. Questo è lo stato, un poco problematico, della fisica verso la metà del XX secolo. Di più. Prendiamo ora una di queste microparticelle e produciamo da essa, grazie ad un urto ad alta velocità, un’altra microparticella identica, lasciamo poi viaggiare in direzioni opposte le due particelle per molti chilometri e poi interagiamo e modifichiamo una di esse; si scoprirà che l’altra, a distanza anche infinitamente grande, risulterà immediatamente modificata nel senso della prima. Un’azione a distanza a prescindere da uno scambio d’informazione? Possibile? Credibile? Ma non era l’azione a distanza(sotto altri nomi e altre spoglie)un principio fondamentale della magia, dell’astrologia e insomma delle scienze occulte e delle “tradizioni” di quasi tutti i popoli? Un principio, ad esempio, giustificato neoplatonicamente dall’esistenza dell’a-spaziale anima del mondo?
Ora, immagino che il lettore coraggioso e paziente, che è giunto fin qui ma non ha prestato perfetta e concentrata attenzione alla nota 4 e alla citazione iniziale dell’articolo, abbia già più volte pensato, più o meno coscientemente: ma tutto ciò, che non vi è elettrone, non nucleo, non estensione, che l’essenza della materia è pura possibilità, queste strane affermazioni sono un qualcosa di realmente detto e pensato da Heisenberg e dai teorici di Copenhagen, oppure il presunto filosofo e scrivente sta qui operando nel senso del tentare di esprimere filosoficamente dei pensieri che, nei fisici in questione, sono semplicemente impliciti? Lasciamo che la questione sia risolta questa volta proprio da qualche citazione.
Heisenberg afferma, ad esempio: «..non si può negare che le particelle della fisica odierna sono assai più affini ai corpi platonici che agli atomi di Democrito» [5]. Ne segue, necessariamente, che la fisica non è più propriamente scienza dei corpi fisici, bensì scienza dei corpi platonici, ovvero, notoriamente, scienza dei corpi metafisici, delle simmetrie geometrico-matematiche di stampo platonico-pitagorico. La fisica del novecento, spesso senza che i fisici se ne siano accorti, è trapassata in una fisica dei corpi metafisici, in una fisica della metafisica, una fisica/metafisica. Ciò è già successo, è la storia di un Ereignis, per quanto talvolta la società acquisisca realmente la consapevolezza di un evento con secoli di ritardo. Dunque, lo ripetiamo, le particelle di cui tratta la fisica non sono propriamente reali come le immaginiamo, infatti queste particelle «appaiono piuttosto come astrazioni derivate dal materiale d’osservazione, vero quest’ultimo nel senso proprio», [6] e quindi, non essendo propriamente “vere”, essendo costruzioni cui si ricorre con consapevolezza (consapevolezza viva e vivace nel genio rivoluzionario, molto fievole nel fisico ordinario, inesistente nell’uomo comune, quindi anche nell’intellettuale comune, che non riesce a pensare la problematicità della scienza in nessun modo), insomma acquisita la coscienza di dedurre e formare la “particella” a partire da dati d’osservazione per poterli interpretare, e dato il comportamento “non classico” di queste onde-corpuscoli-né onde-né corpuscoli, preso atto del fatto di per sé sconvolgente che «neppure la qualità dell’essere appartiene a ciò che viene descritto» dalla fisica quantistica, [7] viste tutte queste cose si può clamorosamente affermare - badate bene, in fisica/metafisica - si può affermare che: «Per la scienza moderna non c’è più all’origine l’oggetto materiale, ma la forma, la simmetria matematica» (analogamente a Platone: prima il triangolo/l’equazione fondamentale della materia, dal triagolo i cubi/particella n.1 e dunque dai cubi la terra/dato reale osservabile, e ancora dal triangolo/equazione all’ l’icosaedro/particella n. 2 e dunque all’acqua ecc.).
E ora si badi bene anche a questo passaggio immediatamente successivo: «E siccome la struttura matematica rappresenta in ultima analisi un contenuto spirituale, si potrebbe dire anche con le parole del Faust di Goethe: “All’inizio era il logos”». [8] Un «contenuto spirituale» come oggetto della scienza, e, come determinazione del contenuto spirituale, questa parola qua, non propriamente innovativa questa volta ma sempre decisiva: il λóγος.
Heisenberg pensa la struttura rilevabile dall’equazione come analoga al Fuoco/Logos (Eraclito), come Possibilità (richiamandosi a modo suo ad Aristotele), come Idea geometrica (Platone), ovvero sente evidentemente il bisogno di forzare la fisica oltre se stessa, di penetrare nell’autentica filosofia. Non come altri scienziati, non come ad esempio Einstein, che volle farsi talvolta e magari anche efficacemente filosofo per non lasciare ad altri l’elaborazione dell’epistemologia, non in questo senso Heisenberg si accosta alla filosofia. Ascolta e vuole ascoltare invece, Heisenberg, l’antica voce della fisica antichissima e senza vergognarsi della metafisica (come invece se ne vergognano i filosofi), si riallaccia e vuole che la fisica si riallacci alla posizione del problema greco della scomposizione della materia e a quello della ricerca di una sostanza fondamentale e prima da cui ricavare tutto ciò che è. Per Heisenberg, dunque, l’archè, in assenza dell’equazione fondamentale per l’unificazione di tutti i fenomeni, al momento si può dire filosoficamente oppure, fisicamente parlando, solo einsteinianamente, ovvero, posto il problema del - “cosa è essere”? non possiamo esimerci dal rispondere, provvisoriamente ma fisicamente: E=mc². L’essere è Energia. L’Energia non è una cosa, è un Fuoco-Logos-Possibilità, è un PossibilitàPensieroBruciante, ma può mutarsi in cosa.
Così la fisica atomica ritorna umilmente a chinarsi ai piedi del genio primo di Einstein, pur sapendo di non potersi interamente riconciliare con lui. Infatti, la fisica utilizza oggi vari differenti e non compatibili paradigmi per la descrizione del reale, la meccanica classica, la relatività, la quantistica e forse anche altri (la teoria del calore, ad esempio), e questo dovrebbe far molto riflettere tutti coloro che pensano alla scienza come ad una semplice descrizione della natura, se è vero che invece le nature descritte sono molteplici e differenti; il fatto poi che, in determinate condizioni, ad esempio nello spazio, sia utilizzabile Einstein, in altre, nel microcosmo, Heisenberg, e nei corpi del sub-lunare Newton, tutto ciò potrebbe consolare o addirittura inorgoglire soltanto il fisico da televisione, lasciando invece sconsolati oppure spronando alla ricerca i Fisici con la f al maiuscolo. In verità la fisica, la fisica che cerca la filosofia, è già incappata in gigantesche contraddizioni, vive una crisi profondissima nei suoi fondamenti (triste verità: chiunque cerca la filosofia ha sempre a che vedere con la parola “crisi”) così, mentre la tecnica cresce, strabilia e domina, la fisica si mette alla ricerca della filosofia, ovvero presente la sua crisi esistenziale ultima, il suo inevitabile collasso futuro, insomma la fisica non si riconosce più, smarrita com’è in leibniziani infiniti mondi infinitamente piccoli.
In ogni caso, crisi o non crisi, una fisica del genere, così essenzialmente aperta alla duplice essenza della scienza, ovvero così genialmente abbandonata all’equazione e alla pura sperimentazione, che non suppone più niente, neppure l’essere della materia, neppure l’estensione, neppure la sostanza, una fisica così sconvolgente non poteva che generare, necessariamente, l’altro da sé: doveva sorgere dal suo seno una metafisica/fisica, per portare a compimento la rivelazione mitica della potenza dell’equazione.
 

Il mito del Vibrante Multiverso
 
Planck,Einstein, Heisenberg... e il quarto? Il quarto, a lungo atteso, non poté più venire, non dal mondo dei crucchi, almeno. Il peccato infinito, l’organizzazione della scienza della morte, doveva infatti recidere la forza spirituale del centro-europa, che perciò improvvisamente si svuotò e collassò su se stesso, sprofondando l’intera cultura europea in un buco nero dal quale più nessuna luce poté più fuoriuscire. Il quarto doveva nascere dunque altrove, là dove, per dialettica necessità di “staffetta”, il nuovo spirito di popolo, giovane e vincente, doveva assumere le redini del governo mondiale: negli States. Lo spirito del mondo riprendeva così il suo corso, l’epoca del dominio inglese del pianeta terra tornava sul binario principale: prima l’Inghilterra in quanto tale, ora l’Inghilterra in quanto States.
Con ciò abbiamo però semplicemente dedotto le condizioni geografico/culturali di possibilità di una ripresa del cammino della scienza atomica. Il nostro ragionamento a-priori deve spingersi però naturalmente ben oltre. Infatti, dati Planck e Einstein come “posizione”, ovvero come materializzazione degli elementi non ancora materializzati della materia (spazio, tempo, gravità, luce), e posta la negazione della materialità della materia in Heisenberg (materia come
strutturalmente indeterminata, possibilità, tendenza; quindi non spazio, non tempo, non gravità, in un certo senso: nulla), bisognava che si manifestasse un ritorno alla materialità, ma tale da prevedere, come sostrato materiale, una materia molto meno grossolana del “quanto”, una materia sì, ma spiritualizzata, come potrebbe essere ad esempio il suono, il suono vibrante, il suono musicale. Come negazione della negazione si doveva presentare sul palcoscenico della fisica una corda musicale come origine della materia, ritorno alla pitagorica musicalità di tutte le cose, così da poter dire: l’Essere è Vibrazione! (L’essere come “Vibrazione” ed “Energia”, le parole d’ordine di tante tendenze New Age, non sono che il riflesso esplicitamente mitico-religioso della forza spirituale più autentica degli ultimi tempi, della fisica, e in un certo senso l’istituzione del culto della fisica stessa, assunta come inesplicabile ed incomprensibile fonte di verità eterne: la New Age è l’istituzione indiretta del rito da parte del Mythos della fisica).
Ma non siamo ancora pienamente soddisfatti della deduzione. In questo modo il quarto non compare ancora nella sua figura definita. Si disse a suo tempo infatti che l’essenza della fisica risiede nell’equazione, per poi successivamente accennare invece ad una duplice essenza della fisica (sensate esperienze e necessarie dimostrazioni..).. e dunque? Quale è l’essenza della fisica? E se l’essenza più essenziale fosse l’equazione e l’essenza richiede per sua natura la propria storica e progressiva estrinsecazione, non dovremmo giungere piuttosto ad una pura e semplice equazione come ultimo risultato della fisica e fine della fisica stessa?
Bene, intanto: l’essenza della fisica, quale emerge nel novecento, è proprio l’equazione, tuttavia tale da mantenere una strettissima relazione con l’essenza più essenziale della fisica classica moderna, la sensata esperienza da ricavare tecnicamente mediante l’impianto dell’esperimento. In Planck il dato sperimentale risulta più che decisivo per poter accogliere la “rivelazione” della costante H e nella quantistica successiva diventa ancora più decisivo, tanto che l’oggetto stesso dell’osservazione acquista il carattere statistico, probabilistico del metodo d’indagine atto ad indagarlo, un metodo appunto statistico, probabilistico. L’esperimento consente di stabilire la possibilità e solo la possibilità che un elettrone si trovi in una determinata serie di posizioni, l’esperimento poi riesce se e solo se questa apparente impotenza metodologica conduce effettivamente a non trovare l’elettrone in una posizione ben precisa e determinata, e tutto ciò, a misurazione effettuata con infinita precisione delle impossibilità di determinazione precisa, diviene quindi il segno inequivocabile e sicuro di una indeterminatezza ontologica della materia. La natura diventa identica all’esperimento. Ma in fondo è sempre stato così: esperimento preciso = la natura è precisa; perciò: esperimento impreciso = la natura è imprecisa e caotica.
Ora, però, raggiunto il culmine della fisica sperimentale, doveva emergere la pura equazione al di là dell’esperimento, sola e solitaria, isolata e ascetica, una pura descrizione matematica del reale senza ricaduta sperimentale. Tuttavia, una descrizione matematica del reale, dunque una fisica. Ma, certo, non più propriamente una fisica, e nemmeno una fisica/metafisica nel senso di Heisenberg quanto, piuttosto e decisamente, una metafisica/fisica, una metafisica matematica descrivente il mondo ma capace di giungere alla prova decisiva del laboratorio esattamente quanto possono sperare di essere corroborate da sensate esperienze e necessarie dimostrazioni le riflessioni pseudo-hegeliane in atto qui ed ora in questa lezione, diciamo così, di epistemitologia.
Ora siamo soddisfatti. La figura si è delineata nei dettagli. Osserviamola attentamente, concentrati, al microscopio: non è un punto, non è un’onda.. ma è, in english: una String! Ed ecco allora finalmente il quarto, sì, il passaggio dialettico è compiuto, lo abbiamo dedotto: è Edward Witten, teorico delle stringhe! (oppure, meglio, della M-theory). E qui la fisica si trasforma interamente in mito, parola rivelativa d’altri mondi. Certo qui la parola è quella formulabile matematicamente – e non è affatto scontato che tutto ciò che è nascosto si possa formulare matematicamente, anzi! – e certo non abbiamo (per ora) equazioni convertibili in divinità viventi ed operanti, non abbiamo (ancora) l’istituzione diretta del rito, del gesto sacro (per cui dobbiamo anche ricordarci di non spingere troppo oltre il rapporto analogico e seriamente giocoso tra fisica e mito), tuttavia, ad osservare dall’esterno la cosa, assistiamo comunque alla formazione di un mito. Perché un mito è sempre una parola-evento fondante, un ciò-che-avvenendo-precede, qualcosa da interpretare, l’irruzione dell’irrazionale nella storia della natura e degli uomini.
Ora, però e come noto, la matematica è la scienza razionale per eccellenza. Sapere la matematica significa sviluppare la propria forza logico-razionale, anche questo si sa. Eppure.. il matematico afferra fino in fondo l’essenza di ciò che sa adoperare? E soprattutto: come nasce un pensiero matematico? (problema ripetibile in generale per la questione: da dove scaturisce un pensiero?). Non da un’induzione, ovviamente. Si tratta allora di una deduzione? Una procedura puramente razionale? Oppure qualcosa di simile ad un lampo? È possibile che esista un “genio” matematico nel senso romantico della parola “genio”? Noi dicevamo poco fa che sì, il genio matematico è l’equazione che dà la regola alla scienza. E in effetti si ammette comunemente che il genio matematico esista. Ma il genio è sempre un uomo vissuto dalle cose, vissuto da qualcosa, non è in possesso di se stesso, non, se non altro, nel suo essere “geniale”. L’intuizione irrazionale, o meglio pre-razionale e non razionalizzabile, ovvero comprensibile in proposizioni o formule logico-matematiche, è la sua vera via conoscitiva. Nella scienza di ordine superiore si lavora molto con la ragione, ma si aspetta l’intuizione. L’intuizione matematica, che dona una chiara e razionale formula matematica, non è comprensibile con una formula matematica.
In generale, l’intuizione non è assimilabile immediatamente al processo razionale perché in quest’ultimo il prodotto conoscitivo è sotto controllo, è comprensibile e dispiegato: pongo a, b, c e d, poi incrocio a con c e b con d accordandoli, a con b e c con d ponendoli in contrapposizione e così via. Gli elementi del mio discorso su x li unisco e li divido io, dunque, se produco qualcosa di pienamente razionale, so bene (per lo più) come lo ho fatto e che cosa significa. Se qualcuno si fosse ad esempio avvicinato ad un Kant ombroso e corrucciato e gli avesse chiesto: “che c’è che non va, Kant?”, si sarebbe stupito molto di una risposta, diciamo, di questo tipo: “C’è che questo libro qui, la Ragion pura, proprio non lo capisco. Mi sforzo, ma non ne afferro il senso!”. La filosofia è una nebulosa generata da infinite interpretazioni, una galassia di eterogeneità tale da non annoverare ancora neppure una e una sola affermazione difendibile come solida e incontrovertibile verità, tuttavia il filosofo sa, o perlomeno crede fermamente di sapere ciò che pensa. E’ già qualcosa. Non si potrebbe dire lo stesso per la fisica del novecento. La situazione è anzi rovesciata rispetto alla filosofia: qui tutti sanno assieme qualche cosa, che ad esempio in certi esperimenti gli elettroni che passano per chissà quale delle fenditure e chissà come, lasciano poi delle tracce come fossero un’onda; questo lo sanno tutti e lo verificano tutti, ma nessuno sa, tantomeno gli inventori dell’esperimento, che cosa significhi tutto ciò. E allora ognuno dice la sua, o quasi. Infatti, già nella oramai “classica” quantistica del XX secolo si discuteva della corretta “interpretazione” delle equazioni e degli esperimenti, in modo davvero molto differente da come oggigiorno si potrebbe oziosamente discutere sulla corretta interpretazione del pensiero kantiano. Infatti sono stavolta gli autori delle equazioni i tentennanti di fronte all’oggetto, e l’oggetto non è se non il parto della propria attività (presunta) razionale. Sembra dunque che persino il fisico, oggigiorno, non possa più sfuggire alla classica critica socratica alle forme d’arte: lo scienziato, come l’artista, è simile all’oracolo e non sa giustificare la propria produzione, non comprende il senso di ciò che fa.
Ma devo ammetterlo: questo mi sembra anche il bello e l’affascinante della scienza, perché davvero lo scienziato, se (sottolineiamo: se) riesce ad essere tale, può tornare alla meraviglia, ovvero alla precedenza di un eccedenza di senso inizialmente incontrollabile. In una intervista, [9] Witten si trova così candidamente ad affermare che, rispetto alla teoria delle stringhe, «anche se non la capiamo molto bene, siamo sulla strada migliore per..» [10] - fermiamoci subito! Non è meraviglioso e grottesco che uno dei massimi teorici matematici della teoria delle stringhe affermi «anche se non la capiamo molto bene»? Possiamo pensare un Hegel affermante lo stesso rispetto all’idealismo? Dunque: l’essenza della fisica è l’equazione matematica. L’equazione della teoria delle stringhe, evidentemente prodotta dagli uomini proprio come gli uomini producono i sogni, appare come un significato manifesto che deve essere compreso e interpretato anche dal soggetto producente la stessa formazione matematica. La via maestra per elaborare l’interpretazione dell’equazione ed accedere al suo significato latente è l’esperimento. Ma qui qualcosa si incrina, in presenza della string. Infatti, ciò che si giunge ad affermare nella teoria in questione, considerandola poi in relazione alle quattro teorie successive e alla teoria-M che tutte le comprende ed è una teoria del tutto, può davvero essere sperimentalmente dimostrato? Oppure, oramai, è già a battesimo una nuova disciplina che non può che procedere a-priori e che si situa in rapporto con la metafisica, la fisica, la fantascienza e certe concezioni religiose, esoteriche e magiche? Infatti: davvero dovremmo credere che delle particelle, scontrandosi, potrebbero dimostrare ciò che alcuni fisici e matematici scalmanati e incontrollabili vanno postulando da anni? Allora, per chi non conoscesse la questione, ciò che in laboratorio si dovrebbe dimostrare è qualcosa di questo tipo (teniamoci forte):
- che esistono le stringhe, come contenuto ultimo delle ultime microparticelle atomiche, ovvero un “qualcosa” dell’ordine di 10−33 cm, il che significa, pare, una grandezza pari a meno di un miliardo di miliardesimo della grandezza di un nucleo atomico (di che “cosa” stiamo parlando? Cosa significa qui, ancora, “cosa”?);
- che esiste una supersimmetria tra materia e forza, in modo che ad ogni particella materiale (come l’elettrone, dotato di massa) corrisponda simmetricamente una particella di forza (come il fotone che, e anche qui sfioriamo già filosoficamente l’abisso, risulta un “qualcosa” di massa 0);
- che «i principi primi che osserviamo dipendono dalla geometria di altre dimensioni nascoste» [11] (e qui, si badi bene, non si ripete soltanto, a la Heisenberg, che esiste una geometria-struttura delle infinite manifestazioni materiali, ma si aggiunge lo sconcertante riferimento ad «altre dimensioni»);
- che le stringhe vibrano in queste dimensioni nascoste, che sarebbero 10 dimensioni spazio-temporali (6 dimensioni spaziali in più rispetto a quelle da noi esperite, più il tempo; per alcuni, però, le dimensioni sarebbero 11, per altri, a causa di una grave ingordigia dimensionale, addirittura 26);
- che l’universo in realtà non è uno solo, ma sono moltissimi, ovvero che in verità non esiste un universo ma un “multiverso” (secondo alcune prospettive, si tratta di “bolle” che urtandosi generano altre “bolle”, universi/dimensioni intrecciate e probabilmente attraversabili tramite una sorta di “portali”, quali potrebbero essere i buchi neri, che certamente si rivelerebbero allora, dall’altra parte, come dei “buchi bianchi” – cercare informazioni per credere).
Di queste ed altre cose ci aspettiamo la dimostrazione da una macchina che accelera le particelle per farle scontrare tra di loro (naturalmente senza poter manipolare concretamente o vedere le particelle correre, come invece corrono davvero all’ippodromo i cavalli - ricordiamolo ancora una volta), come dal triplice satellite a triangolo equilatero e-Lisa, che presto volerà lontano, ci aspettiamo la prova provata delle increspature gravitazionali e molte cose sull’oscurissima materia oscura che compone il più del nostro universo materiale (che dunque, stando alle ultime, solo in minima parte risulterebbe composto di “atomi”). Siamo infatti nell’età della Macchina, e dunque ora, alla Macchina, richiediamo tutto e la preghiamo di dimostrare la sua potenza infinita accreditando persino la più anomala e delirante delle teorie matematiche, la teoria del tutto. La Macchina, però, fallirà. La matematica e la fisica, l’esperimento e i satelliti non raggiungono infatti il fondo dell’essere, e prima o poi devono naufragare, come naufragò tempo fa la loro anziana e ora quasi decrepita sorella, la filosofia.
Perché, infatti, una teoria delle stringhe? Per riconnettere ciò che va disperdendosi, la teoria 1 (campo elettro-magnetico)con la teoria 2 (relatività di Einstein) e questa con la teoria 3 (quantistica) e questa ancora con la teoria 4 (la materia oscura, che a sua volta tenta di “salvare” l’idea del Big Bang messa in forse e in crisi da varie cose, come ad esempio un’”anomalia”, l’espansione accelerante dell’universo, perché l’universo, sempre a prestar fede alle ultime – e son premi Nobel a divulgarle – sta accellerando anziché, come sarebbe logico, rallentare). Insomma, che cosa succede? La materia, che sembrava quasi definitivamente afferrata nel XIX e XX secolo, ha deciso, beffarda, di guizzar via e di farci ripartire da capo? Sembra davvero così, sembra davvero che Madre Natura, bocciandoci ancora una volta, voglia spingerci a tentare di nuovo. E tenteremo, titanicamente e per sempre! Ma, per carità di Dio, non chiediamo alle macchine di dimostrarci l’esistenza dei multiversi. Scienziati, abbiate pietà di noi! Mostrate ciò che potete mostrare, che ad esempio, se questo è possibile mostrarlo, la forza di gravità in uno scontro tra particelle è minore del previsto e che quindi è stranamente debole, ma non raccontateci la favola che questo significherebbe il provare, il dimostrare che una parte di forza di gravità, che quindi in verità sarebbe una forza più forte, andrebbe a finire in altre dimensioni.. pensatelo, calcolatelo, costruite modelli, fantasticate - questo è bellissimo - ma non svilite il pensiero confondendo ciò che si mostra con ciò che si dimostra!
Dobbiamo capire bene cosa è una dimostrazione, qual’è il suo valore e la sua portata. Relativizzare la dimostrazione mi sembra oggi quantomai essenziale, dato che, fatti storici alla mano, sappiamo che ciò che oggi è dimostrato e inoppugnabile non lo sarà più tra qualche anno, o tra qualche secolo oppure, se davvero la materia in questione è molto resistente, tra qualche millennio. Per quanto mi riguarda, credere davvero che la M-theory sia ad un passo dalla verità ultima, oppure credere, ad esempio, che tra 5000 anni la teoria di Darwin o quella del Big bang saranno ancora in auge, credere questo mi sembrerebbe mancare radicalmente di senso storico.
Dobbiamo capire bene cosa è una dimostrazione, per non trovarci ad affermare, ingenui come bambini, se il volteggio dei satelliti e-Lisa varierà così e così: “ecco, allora esistono le onde gravitazionali”! Gli scienziati, per lo più, faranno però proprio così, come fecero anche quando si scoprirono, si dimostrarono gli elettroni, che però, poi, si rivelarono del tutto impensabili così come erano stati “dimostrati”, come palline ruotanti attorno al nucleo secondo una determinata traiettoria. Bisognerebbe che gli scienziati, tra la teoria e la dimostrazione, in quel “tra”, tornassero ad inserire, come mi pare che alcuni “giganti” precedentemente trattati abbiano davvero cominciato a fare, un terzo elemento: il pensiero, il pensiero filosofico che, alla fin fine, è spesso solo un’attenzione alle cose interiori, ai passaggi concettuali, a quei passaggi concettuali che non si vedono e non sono matematizzabili ma che, anche loro, sono.
La teoria-M infatti, osservandola così, alla lontanissima e da più che profani, dà l’impressione di esser travolgente e fantasiosa, elegante e ambiziosa ma forse, a differenza della quantistica, non altrettanto sulla strada del farsi pensante. Perché niente, oggigiorno, è sulla strada del pensiero. Una teoria invece frizzante, cool, americana. Uno spirito così ancora innamorato della vita, quello americano, che la vita viene qui a moltiplicarsi in una infinità di universi paralleli, dove ogni nostro gesto e ogni nostra decisione viene ad essere ed esistere in dimensioni altre, dove tutta la vita è conservata in tutte le sue dimensioni temporali contemporaneamente. Non altri mondi, spirituali e realmente altri, e neppure il Logos rievocato da Heisenberg, no; la teoria delle stringhe sembra tendere verso l’esistenza eterna della moltiplicazione infinita delle nostre azioni e del nostro mondo quotidiano. Interessante e fantasioso ma molto inglese, ovvero essenzialmente limitato. Il limitato posto come illimitato.
Nonostante questo appunto, diciamo, “negativo”, la teoria-M, che non posso capire (ricordiamolo: ci siamo situati fin dall’inizio nella posizione dell’uomo comune che osserva e teme gli dèi dell’Olimpo), mi piace. Mi piace che la fisica/matematica sia evoluta/involuta in una metafisica/fisica e che tutti i problemi riguardanti tutto ciò che è fondamentale nella materia siano in fondo di nuovo totalmente aperti. Limitata sì ma forse per questo bella, in fondo puramente estetica, l’idea della molteplicità dei piani dimensionali generati musicalmente. D’altra parte è vero che la massa, in senso fisico e in senso sociale, è ciò che ci addormenta, e il pensiero deve sempre e per sua natura tendere a spezzare l’addormentamento; così, l’idea della sinfonia cosmica dei multiversi ci richiama per un attimo a qualcosa di più grande e più ampio del nostro minuscolo correre e lottare quotidiano riconducendoci nell’apertura del mito, producendo un nuovo mito. Perché il mito apre la via alla meraviglia, e ciò è buono, come produce anche l’inebetito credere nell’unzione celeste del sacerdozio matematico, il che è cattivo. Ma, ritornando sul punto, ed ora in forma di appello: “Fisici del mondo piccolissimo, astrofisici del macrocosmo, restate presso voi stessi, riconoscete la vostra grandezza, la vostra peculiarità: voi vi muovete sulle vostre stringhe, o fisici, come sopraffini funamboli, voi siete, o matematici, formidabili funamboli! La vostra stringa matematica è una corda tesa sull’abisso; infatti, ve lo ricordo con strano piacere, ad ogni microscopica oscillazione al di fuori della vostra corda, voi siete tutt’interi nell’abisso, o scienziati, dove si cade di moto rettilineo uniforme, senza più cessare di cadere, all’infinito. Ma se l’esercizio circense viene da voi invece correttamente svolto - per quanto mai e poi mai potrete scoprire i nodi agli estremi della fune che sostengono ciò che vi sostiene – potrete ben dire d’essere perfetti funamboli, di aver attraversato tutto l’abisso, vivi! Siate acrobati dunque, o amanti dei numeri, e non pensate d’esser chissà dove: siete sulla vostra stringa, non più giù, non più su, non ovunque, e nell’infinito oceano abissale della verità una stringa è pur sempre ciò che dite che è, una grandezza infinitesima”.
A volte infatti lo scienziato non si ricorda che al circo, oltre al numero della “stringa eterotica”, ci sono da vedere anche il mago, gli animali, il pagliaccio, il fachiro e i giocolieri, e ciascuno vuole la sua parte. E’ questo lo scienziato ingenuo (quando non arrogante), ingenuità tipica di chi, adolescente come è effettivamente la scienza, crede d’essere l’unico centro dell’universo. Tante ingenuità si annidano infatti tra l’equazione e la dimostrazione. Talvolta (non sempre, dico proprio talvolta) lo scienziato crede davvero che risolvendo la materia nel piccolissimo, trovando l’elemento primo piccolissimo, possa poi dedurre comodamente da questo primo e come se niente fosse, con calma e un po’ di pazienza, tutto il resto dell’esistente, fino alla vita, al pensiero, ai sentimenti (lo scienziato in ciò è davvero un pre-socratico, senza dubbio). Talaltra (e sempre talvolta, dico solo talvolta) lo scienziato non si accorge che il saper misurare un qualcosa, o persino il saper manipolare qualcosa, non coincide affatto con il conoscere la cosa, e allora ecco maturare la mala convinzione di conoscere il tempo misurandolo grazie allo spazio e alla velocità, ed ecco lo scienziato soddisfatto nel produrre e misurare energia elettrica, senza troppe preoccupazioni di comprendere se la cosa stessa, l’elettricità, è stata davvero in questo modo compresa (la misurazione spesso appaga il fisico, lo sazia, lo ingrassa).
Torniamo però adesso ed infine, per chiudere il nostro piccolo discorso quasi epistemologico, al mito. Alla potenza del mito. Entriamo in un salotto e, fatto inconsueto, vi incontriamo uno sciamano che racconta di dimensioni altre e sconosciute e testimonia d’averle anche esperite; noi lo ascoltiamo e pensiamo: “sciocchezze, ciò che esiste è questo mondo qui, questo mondo di terra e di soldi, e di due l’una: quest’uomo mente oppure è fortemente condizionato dalla sua retriva cultura e crede nelle fantasticherie sue e del suo popolo”. Credere che un uomo, tuttavia, non sappia distinguere una fantasia da un vissuto abituale significa pensarlo davvero molto sciocco, e dunque, di fronte allo sciamano, il nostro vero atteggiamento resta “.. e di due l’una: quest’uomo mente oppure è stupido”. Ora immaginiamo invece l’ingresso di uno scienziato nello stesso contesto, nello stesso salotto dove cinque minuti prima il nostro sciamano decontestualizzato, da salotto, ha spiegato agli astanti come sono fatte e cosa accade nelle diverse dimensioni dell’essere. Il fisico spiega d’aver lavorato ad un acceleratore di particelle e di aver elaborato una teoria matematica che porterà alla dimostrazione che esistono una serie di dimensioni parallele nelle quali la potenza della forza di gravità si disperde, ciò che spiegherebbe l’apparente debolezza della forza di gravità rispetto alle altre tre forze operanti nell’universo. Spiega poi che la scienza è sulla soglia di una nuova rivoluzione copernicana, la scoperta del multiverso. Improvvisamente nel salotto si fa allora un silenzio di tomba: il salotto diventa chiesa. Il fisico si guarda allora attorno, percepisce l’atmosfera e si concede una pausa nel silenzio, pregustando la sacralità delle parole sue a venire, lancia sguardi penetranti e misura i gesti, sente persino per un attimo, chissà perché, il desiderio di parlare in latino, e infine sentenzia: “Nel multiverso la Genesi avviene continuamente in un oceano di Nirvana e queste Bolle escono dal Nirvana che noi chiamiamo Iperspazio a 11 dimensioni”. [12]
Dunque: impotenza del mito tradizionale (inciso: perché il sacerdote non narra più il mito dell’uomo-dio e si attarda invece sulla politica, sulla famiglia e sulle libere decisioni rispetto al corpo? Risposta: perché sente d’essere, come lo sciamano del salotto, impossibilitato ad essere creduto) ma onnipotenza del mito matematico, della parola ipnotizzante e creatrice di mondi e possibilità, onnipotenza dello spirito vitale dell’equazione.
Eppure, proprio a partire dalla nostra credulità scientista – non crediamo perlomeno possibile sulla base della fede nella matematica, ed è già assurdo, che le particelle non esistano ed esistano allo stesso tempo, che un gatto possa insieme esser vivo e morto, che il tempo possa non trascorrere e che certe nostre scelte possano implicare l’esistere contemporaneamente in differenti dimensioni? Quando mai uno sciamano le ha sparate così grosse? – proprio a partire dalla nostra credulità scientista è possibile, possibile e non necessario, che si stiano creando le condizioni, lentamente, per il recupero delle narrazioni dello sciamano e del santo. Ora, oggi, attualmente, non esiste ancora una diretta via d’accesso alla verità, dal punto di vista della collettività, che non sia veicolata dalle scienze. Non è un caso, infatti, che l’unica religiosità in un certo senso ancora vitale, produttrice di azioni e discorsi, sia la già ricordata New Age, frizzante, americana, semplice, pragmatica e soprattutto sempre autogiustificantesi grazie a rocamboleschi richiami alla relatività, alla quantistica e alle vibrazioni delle stringhe.
Se la materia, secondo la fisica stessa, potrebbe non essere materiale, solida, estesa, puntuale, se la materia, secondo la fisica, non è ancora neppure conosciuta se non in minima parte ed è invece largamente oscura, se una particella può assieme comportarsi come un’onda e come un corpuscolo, se, insomma, la materia si svela come intrinsecamente assurda, allora in base a che cosa continuiamo, davanti al santo e allo sciamano, a sorridere come si sorride davanti al bimbo che cerca la luna dietro al palazzo? Ovvero: in base alla visione del mondo di quanti secoli fa giudichiamo qualcosa come impossibile?
E allora, tenendo conto di tutto ciò, sul fondamento questa volta proprio della fede nel nostro ultimo mito, perché ritenere che le parole che seguono non possano essere fatti realmente avvenuti? Tentate, nel leggerle, di non far agire, immediatamente, l’automatismo scientista depositatosi in voi nel corso dei secoli passati, apritevi piuttosto all’autentica e migliore scienza della nostra era, quella che ha veramente riaperto la questione decisiva del che cosa veramente sia ciò che ci costituisce, ragionate un secondo su tutto ciò e sul già detto nell’articolo, poi - perchè no? - tornate a ritroso a leggere le quattro lezioni di filosofia della mitologia che precedono; ecco, ciò fatto sarete ora forse in grado dell’atto massimamente difficile di sospendere il giudizio sulla cosa per lasciarla realmente in sospeso, senza credere e senza non credere, senza giudicare frettolosamente ponendo una x sul vero o sul falso; insomma, finalmente e per non tergiversare ancora, ecco a voi questa testimonianza qui:
«Rol e mia nonna si trovavano in appartamento. Ad un certo punto ha visto Rol alzare un piede come se dovesse scavalcare un piccolo ostacolo.
Invece Rol ha lasciato il piede sospeso nell’aria, a circa 20 centimetri dal suolo.
Ha quindi tirato su l’altro piede, portandolo un po’ più in alto del primo, che era rimasto sospeso là dove si era fermato.
Rol ha iniziato a salire dei gradini invisibili, camminava nell’aria». [13]
 
                                                        Rol
                                                      saliva
                                               gradini invisibili
                                                 camminava
                                                   nell’aria
 
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1. F.W.J. Schelling, Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, Cadmo Editore, Roma 1989, p.231.
2. Abert Einstein, Opere scelte, Bollati Boringhieri 1988, p.503.
3. Ibid., p.503
4. Schroedinger ad esempio afferma, degli elettroni e del nucleo, che «di tali particelle puntiformi isolate nell’interno dell’atomo non si può parlare in nessun caso, e se immaginiamo il nucleo stesso come qualche cosa di simile, questo è un semplice ripiego, cui si ricorre scientemente» (E. Schroedinger, L’immagine della materia, in W.Heisenberg, E. Schroedinger, M. Born, P. Auger, Discussione sulla fisica moderna, Boringhieri 1980, p.50). Concludendo poi da tutto questo - e l’espressione utilizzata dallo scienziato dell’esperimento del gatto vivo/morto è davvero bellissima - che «allora cominciamo a spaventarci», a spaventarci, sì, perché «la singola particella non può più essere considerata come un essere durevole ben delimitato».
5. W.Heisenberg, Problemi filosofici, in W.Heisenberg, E.Schroedinger, M.Born, P.Auger, Discussione sulla fisica moderna, Boringhieri 1980, p.20.
6. W.Heisenberg, Problemi filosofici, in W.Heisenberg, E.Schroedinger, M.Born, P.Auger, Discussione sulla fisica moderna, Boringhieri 1980, p.14.
7. W.Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, 2003, p.87.
8. W.Heisenberg, Problemi filosofici, in W.Heisenberg, E.Schroedinger, M.Born, P.Auger, Discussione sulla fisica moderna, Boringhieri 1980, p.20-21.
9. Si può trovarla comodamente in rete oppure leggerne la trascrizione e traduzione in E.Witten racconta la teoria delle stringhe, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012.
10. Ivi, p.29.
11. Ivi, p.41.
12. Si esprime proprio così, in un’intervista, il fisico teorico Michio Kaku (https://www.youtube.com/watch?v=YL1EoOwRxts).
13. F. Rol, Il simbolismo di Rol, Franco Rol 2012, pp. 56-57.