Gabriele Miniagio | Ancora Foucault. Capitalismo digitale, neoliberalismo, processi di soggettivazione

Il capitalismo digitale si è affermato su scala planetaria. Esso è caratterizzato dalla produzione immateriale entro reti interconnesse, dalla circolazione globalizzata di merci e capitali, dall’integrazione, nell’esercizio del potere politico, fra stati e organismi sovranazionali, da un approccio macroeconomico di tipo neoliberale, dall’esposizione sistematica dei soggetti a flussi d’immagini e di informazioni grazie a dispositivi collegati a internet.
Ora, il concetto foucaultiano di soggettivazione è adeguato al capitalismo digitale? Più in generale, le principali categorie del pensiero foucaultiano, soggettivazione, biopotere, dispositivo, sono in grado di descrivere quanto è accaduto negli ultimi trent’anni o restano legate ad una configurazione storica passata, legata allo stato e al capitalismo manifatturiero? Se il nuovo assetto globale dell’economia, della politica, della tecnologia hanno effetti sui soggetti, se a produrre soggettività sono, da una parte, i grandi poteri economici e finanziari attraverso strategie di governo neoliberali, dall’altra, l’iperconnessione digitale, si può ancora parlare di biopolitica, intesa in senso foucaultiano, o dobbiamo forse parlare, oggi, di una psicopolitica1, intesa come codificazione della psiche funzionale a questo sistema?
 
1. Dalla società disciplinare alla società del controllo
A segnare il dibattito sull’adeguatezza del metodo foucaultiano nell’epoca del capitalismo digitale è stato uno degli ultimi scritti Deleuze, «Post-scriptum sur les sociétés de contrôle»2. La tesi fondamentale di questo lavoro deleuziano, breve e lucidissimo, è che nel moderno assetto produttivo si è passato da una società disciplinare ad una società del controllo. La società disciplinare era appunto quella descritta da Foucault: lì la produzione di soggettività avveniva entro luoghi determinati dalla chiusura, caratterizzati dall’opposizione binaria dentro-fuori, ossia normali-devianti: queste fabbriche di soggettività (manicomio, prigioni, caserme, scuole) costituiscono uno spazio striato, discreto. Esse rispondono alla necessità di rendere il comportamento anonimo, automatico, ripetibile ossia governabile.
Scrivono con grande efficacia Negri e Hardt, muovendosi nel solco di Deleuze:
 
Le istituzioni forniscono, prima di ogni altra cosa, dei luoghi discreti (la casa, la chiesa, la classe, il negozio) ove si svolge la produzione di soggettività. In tal senso le istituzioni della società moderna dovrebbero essere considerate come un arcipelago di fabbriche della soggettività. Nel corso della sua vita l’individuo si muove in linea retta attraverso le istituzioni (dalla scuola ai capannoni di fabbrica) da cui viene formato. […] Il luogo chiaramente delimitato nelle istituzioni corrisponde alla stabilità e regolarità della forma delle soggettività che vengono prodotte al loro interno.3
 
Oggi tuttavia abbiamo a che fare con forme di produzione post-industriali, immateriali interconnesse, molto diverse perciò dal capitalismo manifatturiero. Negri e Hardt parlano a questo proposito della necessità di condurre
 
un’indagine delle recenti trasformazioni del lavoro produttivo e della sua tendenza a diventare sempre più immateriale. Il ruolo centrale della forza lavoro della grande fabbrica nella produzione del plusvalore è oggi prevalentemente assunto da una forza lavoro di tipo intellettuale, immateriale, comunicativa. […] Dopo una nuova teoria del valore, quindi occorre formulare una nuova teoria della soggettività che opera prevalentemente sul piano della conoscenza, della comunicazione, del linguaggio.4
 
La rete, insomma, è il (non-)luogo della produzione e gli spazi chiusi della società disciplinare non si adattano alla nuova realtà dell’economia e della società. Il flusso delle informazioni, delle immagini e della produzione digitale attraversa continuamente i soggetti. La fabbrica della soggettività è ovunque. Lo spazio striato e territoriale del capitalismo manifatturiero e dello stato cede il passo allo spazio liscio e deterritorializzato del capitalismo digitale e delle istituzioni sovranazionali.
 
2. Psicopolitica?
È entro questo contesto problematico che, più recentemente, Han ha posto il problema di una revisione complessiva delle categorie politiche di Foucault, in particolare della categoria di biopolitica (o biopotere).
Secondo Han, Foucault non compie il passaggio dalla biopolitica a ciò che lui chiama la psicopolitica.5
 
Foucault riconduce espressamente la biopolitica alla forma disciplinare del capitalismo, che socializza il corpo nella sua forma di produzione. Così la biopolitica è fondamentalmente associata al biopogico e al corporale. È in ultima istanza una politica dei corpi nel senso più ampio. [Capoverso] Come forma di sviluppo ulteriore, anzi come forma di mutazione del capitalismo, il neoliberalismo non si interessa in prima istanza di ciò che è biologico, somatico, corporale: piuttosto esso scopre la psiche come forza produttiva. Questa conversione alla psiche, e di conseguenza alla psicopolitica, dipende anch’essa dalla forma di produzione dell’odierno capitalismo, poiché quest’ultimo è determinato da forme di produzione immateriali e incorporee. Non vengono prodotti oggetti materiali, ma immateriali, come informazioni e programmi. Il corpo come forza produttiva non è più centrale come lo era nella società disciplinare biopolitica: allo scopo di accrescere la produttività non sono solo superate le resistenze corporali, ma vengono ottimizzati i processi psichici o mentali.6
 
L’analisi di Han coglie senz’altro un nodo fondamentale. Ci sono tuttavia due punti sui quali occorre soffermarsi. In primo luogo il concetto foucaultiano di biopolitica prende in considerazione la vita come forza produttiva e dunque interviene sul bios per farne una vita socialmente configurata, conforme cioè alla norma. In secondo luogo Han lascia sullo sfondo il fatto che nell’attuale configurazione il capitalismo digitale non agisce soltanto attraverso dispositivi tecnologici, ma anche attraverso strategie di governo neoliberali; Foucault stesso ha analizzato con grande lucidità il neoliberalismo come strategia di governo e dunque come procedura di soggettivazione7. Ciononostante l’obiezione di Han, come vedremo, ha una sua fondatezza nella misura in cui pone l’esigenza di indagare l’azione dei dispositivi soggettivanti su terreni della soggettività altri dal discorso (estesiologico, pulsionale, immaginario).
Analizzeremo le due questioni separatamente.
 
3. Il bios di Foucault
Il termine biopotere designa senz’altro gli aspetti della vita in senso biologico. I fatti della nascita, della riproduzione, della sessualità, vengono politicizzati, nel senso che, nell’epoca moderna, divengono la superficie d’intervento del potere. Al vecchio potere sovrano (dare la morte) si sostituisce, a partire dal XVII secolo, una nuova forma di potere: il potere di gestire, controllare, dirigere la vita8. Il potere si organizza dunque intorno alla gestione della vita piuttosto che alla minaccia della morte.
 
La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita9.
 
Ora, quest’azione sulla vita avviene, come abbiamo visto, entro spazi chiusi ed è finalizzata a produrre soggetti conformi alla norma e perciò governabili:
 
Sviluppo rapido delle varie discipline – scuole, collegi, caserme ateliers; emergenza anche, nel campo delle pratiche politiche e delle osservazioni economiche, dei problemi di natalità, di longevità, di salute pubblica, di habitat, di migrazione; esplosione dunque di tecniche diverse per ottenere la subordinazione dei corpi e della popolazione. Si apre così l’epoca del biopotere.10
 
Il termine bios non deve dunque ingannare: si interviene sugli aspetti della vita biologica per produrre una vita socialmente configurata da una norma, in modo tale da ottenere comportamenti uniformi e governabili11.
Quest’azione sulla soggettività si attua infatti secondo due direttrici; da una parte vi è il corpo individuale:
 
il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini, l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo umano.12
 
La seconda superficie d’intervento è il corpo collettivo, la gestione della vita della popolazione: demografia, politiche di salute, urbanistica.
 
Il secondo che si è formato un po' più tardi, verso la metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata della vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farla variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta una serie di interventi e di controlli regolatori: una biopolitica della popolazione. Le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due poli intorno ai quali si è sviluppata l'organizzazione del potere sulla vita la creazione nel corso dell'epoca classica di questa grande tecnologia a due facce - anatomica e biologica, agente sull’individuo e sulla specie, volta verso le attività del corpo e verso i processi della vita - caratterizza un potere la cui funzione più importante ormai non è forse più di uccidere ma di investire interamente la vita.13
 
Foucault non manca di sottolineare la relazione del biopotere con il capitalismo.
 
Questo biopotere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo. Questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell'inserimento controllato dei corpi nell'apparato di produzione e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici.14
 
Dunque, contrariamente a quanto attribuisce Han a Foucault, la biopolitica non è confinata all’ambito meramente biologico: essa interviene sul bios nella misura in cui ne vuole fare una vita socialmente adattata a una norma. Si tratta di implementare – termine del gergo informatico estraneo a Foucault, ma quanto mai efficace in questo contesto – tale norma nei soggetti, al fine di rendere i comportamenti uniformi, funzionali, produttivi.
Ma vi è un secondo aspetto che indebolisce la critica di Han. Questo intervento disciplinare sui corpi sarebbe impossibile senza un’azione su ciò che Han chiama “la psiche”; ora però tale intervento è già compreso nel discorso foucaultiano. Se riprendiamo il concetto di soggettivazione, tutto questo sarà evidente. Si è visto15 che Foucault lo considera articolato su tre livelli:
1. l’istituzione del soggetto nel discorso;
2. il disciplinamento della vita soggettiva da parte di apparati di sapere-potere;
3. le tecnologie del sé che portano il soggetto ad assumere un certo “io sono”16.
Egli dice per esempio di aver investigato la follia: 1) come creazione del discorso; 2) come strategia normativa che agisce sui soggetti (recludere i folli, dirigere i normali); 3) come forma attraverso cui un soggetto è portato a designare sé stesso (“io sono normale e non folle”)17.
I tre aspetti sono strettamente connessi. Il disciplinamento della vita soggettiva, infatti, è compito di dispositivi (2) che sorgono da discorsi istitutivi di norme; essi, grazie ad apparati istituzionali, agiscono sui corpi per recluderli (il sapere potere psichiatrico), sorvegliarli (quello criminologico), dirigerli (la governamentalità). Ora tali dispositivi non sarebbero stati possibili se non fosse stata preeliminarmente istituito nel discorso un certo modo di essere per la soggettività (1). Analogamente la loro capacità di dirigere le condotte è indissociabile da una interiorizzazione della norma da parte dei soggetti (3). Rispetto al rapporto fra 1 e 2 possiamo dire che la soggettivazione ha effetti di potere: rispetto a 1 e 3 che essa è creazione di vita soggettiva; rispetto a 2 e 3 che dispiega i suoi effetti su un piano d’immanenza: il potere si esercita sui soggetti che esso stesso crea.
In questo contesto è il terzo aspetto della soggettivazione quello che qui è in gioco: l’azione del dispositivo non agisce in modo comportamentista, per stimolo-risposta. Essa deve produrre un certo discorso della soggettività su sé stessa. In altri termini affinché i soggetti divengano governabili la norma deve essere interiorizzata.
È senz’altro utile che Han utilizzi il concetto di psicopolitica, soprattutto quando sottolinea gli aspetti di un condizionamento inconscio della psiche attraverso la tecnologia digitale, ma a condizione di considerare che gli elementi che egli designa con tale termine sono già tendenzialmente compresi nella biopolitica foucaultiana, soprattutto nella terza dimensione della soggettivazione. A Foucault dunque non si può rimproverare di aver ridotto la biopolitica a prestazione del corpo biologico, quasi fosse un comportamentista.
Dunque, per riassumere: la biopolitica non si oppone in modo binario alla psicopolitica per due ragioni; innanzitutto perché essa agisce sì sugli aspetti biologici, ma per ottenere una vita socialmente configurata; in secondo luogo perché essa comporta una interiorizzazione della norma, cioè un discorso della soggettività su sé stessa e comprende perciò – per usare il termine di Han – una qualche psicoprogrammazione.
E tuttavia, nonostante la biopolitica non rimanga confinata al biologico-somatico e non manchi di uno psicoprogramma18, l’obiezione di Han ha una sua fondatezza per una ragione, se si vuole, più radicale, che ha a che fare col metodo stesso, col “pensiero del fuori”: a Foucault manca ciò che possiamo ancora chiamare in senso lato un’estetica trascendentale, il riferimento teorico a ogni dimensione della soggettività altra dal discorso; perciò il concetto foucaultiano di soggettivazione, tanto sul terreno dei dispositivi disciplinari (2), quanto sul terreno delle tecnologie del sé (3), non prende in considerazione tutti quegli elementi della vita soggettiva, estesiologica, pulsionale, immaginaria, che permetterebbero di comprendere meglio l’azione del capitalismo digitale sulla cognizione, sulla comunicazione, sull’immaginazione e sulla sfera emotiva, ossia sugli aspetti della vita soggettiva che esso mette a profitto.
 
4. Processi di soggettivazione e governamentalità neoliberale
Veniamo ora alla seconda questione. L’azione dei dispositivi digitali – e qui la polisemia del termine dispositivo è felice, ma anche rischiosa – sui soggetti non può essere colta senza un’analisi di quel sapere-potere soggettivante che è la governamentalità neoliberale. Foucault, confrontandosi con l’ordoliberalismo tedesco e con la scuola di Chicago, ha analizzato il neoliberalismo19 in una serie di lezioni, che delineavano un percorso teorico preciso, purtroppo interrottosi a causa della sua morte precoce.
Nel primo egli ravvisa un progetto, mirante a creare un’intera società sul modello dell’impresa20; nel secondo un disegno generale di governo costruito sulla base dell’homo oeconomicus21. Non si tratta dunque semplicemente di liberalizzazioni o di politiche market friendly, ma di una strategia d’intervento sulla società e sul singolo. Insomma di un processo di soggettivazione.
Foucault parte dal neoliberalismo tedesco. In esso, come si è accennato, rinviene il progetto di plasmare la società sul modello dell’impresa privata, di fare del libero mercato il principio che la organizza in tutti i suoi strati.
 
Si tratta di fare del mercato, della concorrenza e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società.22
 
A differenza del liberalismo classico, che teorizzava un intervento minimo nella sfera sociale, pur con un maximum di intervento nella sfera giuridica, per governare col diritto penale gli effetti dei conflitti sociali, esso teorizza e pratica un intervento in entrambe. Vi è infatti una diversa concezione delle leggi del mercato (domanda e offerta, allocazione ottimale delle risorse, concorrenza). Se per il liberalismo classico esse sono dati di natura e rispondono ad una sorta di fisiologia della buona società, per il neoliberalismo sono invece norme da realizzare, all’interno di una società che può essere refrattaria; se vogliamo usare una terminologia kantiana, esse non si iscrivono nell’ordine dei fenomeni naturali, di ciò che vi è, ma nell’ordine del dover essere, di ciò che, sotto il postulato della libertà e in opposizione alla sensibilità, per la sua intrinseca razionalità si impone come un comandamento da realizzare. Il mercato non ha dunque lo statuto del dato di natura, ma della norma razionale che deve essere realizzata, non si trova nell’ordine del sein ma del sollen23.
Ecco allora il punto: lo spazio del libero mercato non c’è già, ma va creato attraverso un massiccio intervento giuridico e politico; esso non agisce sul mercato – e qui sta la grande differenza col keynesismo – ma sul quadro e sulle precondizioni strutturali che lo istituiscono24. La concorrenza non è un dato di natura, è una struttura ottimale dotata di proprietà formali25. Il liberalismo “positivo”, teorizzato per esempio da W. Lippmann, è un liberalismo che interviene26.
Quanto più l’intervento dovrà essere discreto a livello dei processi economici, tanto più dovrà essere massiccio quando si tratta di un insieme di elementi tecnici, giuridici, scientifici, demografici, che diventano così strategie di governo27; si agisce insomma sulla popolazione affinché la società di mercato divenga possibile. In questo senso il neoliberalismo è biopotere.
È bene chiarire che l’obiettivo polemico del neoliberalismo, nel contesto storico analizzato da Foucault, ossia quello degli anni Cinquanta e Sessanta, era il keynesismo prim’ancora che il marxismo. La ricostruzione storica del nazismo da parte degli ordoliberali è emblematica: esso consiste prima di tutto nell’accrescimento del potere dello stato sul mercato28. Il nazismo per gli ordoliberali è in ultima analisi pianificazione e protezionismo, il mercato che non svolge il proprio ruolo.
Occorre perciò, a differenza del keynesismo, mettere non il mercato sotto la sorveglianza dello stato, ma lo stato sotto la sorveglianza del mercato29. L’obiettivo è dunque l’organizzazione della società a partire dall’economia di mercato30.
Conformemente allo statuto di dover-essere dell’economia così configurata, si tratta qui non di lasciar libero il mercato, ma di intervenire affinché questa libertà sia possibile31: «La libertà del mercato necessita di una politica attiva estremamente vigile»32. È in questo quadro che il neoliberalismo prevede interventi giuridici, normativi e di governo volti a realizzare la società di mercato.
Non si tratta come in Keynes di politiche perequative volte a far accedere tutti ai beni di consumo; non si tratta di garantire agli individui una copertura sociale dei rischi (povertà, malattia, incidenti), ma di accordare a ciascuno uno spazio economico all’interno del quale possa assumere e affrontare i rischi; si tratta quindi di assicurare uno spazio di mercato perché ognuno – per usare gli stilemi neoliberali – possa giocare la propria partita33. Per il neoliberalismo infatti la crescita economica è di per sé politica sociale, non il sostegno diretto dei redditi dei lavoratori. Perciò il governo neoliberale non deve correggere gli effetti distruttori del mercato sulla società, ma deve intervenire nella società perché il mercato sia possibile34.
Ora se, come emerso più volte, il mercato, la concorrenza e l’impresa sono ciò che, attraverso la codificazione normativa, dà forma alla società35, il giuridico non appartiene alla sovrastruttura. Il giuridico dà forma all’economico36; rende possibile nella realtà quella struttura formale «mercato» dalla quale trae legittimità. Perciò ad un minimo di interventismo economico corrisponde un massimo di interventismo giuridico37.
Foucault nel descrivere tali politiche d’intervento del neoliberalismo distingue tra politiche regolatrici e ordinatrici. Fra le prime vi è senz’altro una politica monetaria restrittiva al fine di garantire la stabilità dei prezzi e il controllo dell’inflazione. In questo contesto, per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, non si deve intervenire a ridurlo: il pieno impiego non è un principio da salvaguardare a tutti i costi; anzi per Röpke, citato da Foucault, la disoccupazione non è un handicap; è evidente la ragione: produrre un grado di concorrenza ottimale nel mercato del lavoro rispetto ai salari38.
Le azioni ordinatrici sono invece quelle di cui prima si è parlato: in esse si interviene non sugli effetti del mercato (come nelle politiche sociali di Keynes a favore dei ceti svantaggiati), ma sulle condizioni di esistenza del mercato stesso: il quadro. Si tratta di produrre, come si è visto, le condizioni strutturali, perché il mercato, che non è un dato di natura, sia possibile; si tratta insomma di sistematici interventi sulla popolazione.
Un primo esempio di questo interventismo, che Foucault cita, è quello dell’agricoltura: la pianificazione della diminuzione della popolazione agricola39. Altro esempio, di straordinaria attualità: la privatizzazione dei meccanismi di assicurazione sanitaria attraverso una fuoriuscita dello stato dalla sanità pubblica e l’incentivo a sottoscrivere polizze private; Foucault parla a questo proposito, molto efficacemente, di politica sociale privatizzata40: l’individuo è indotto così ad un autosfruttamento per guadagnare quelle risorse che gli permettono di acquistare la merce salute. Terzo esempio, che viene fatto oltre: aumento della domanda giudiziaria (law and order) in relazione all’aumento dei conflitti sociali.
Ma vi sono altri fenomeni, che Foucault non cita e che possiamo trarre dalla contemporaneità: la scuola e il mercato del lavoro. Sul versante della scuola si chiederà sempre di più di implementare competenze, ossia capacità operative in situazione – la non-innocenza della didattica delle competenze, la sua funzionalità al progetto di una strutturazione della società sotto forma d’impresa, la sua opera, lenta, inesorabile e nefasta, di trasformazione della scuola in modo che essa diventi la palestra di addestramento alle skills del capitalismo cognitivo meriterebbero un discorso a parte. È proprio in questo contesto che va inquadrata l’insistenza sull’innovazione tecnologica, al fine di disciplinare ai new jobs.
L’intervento più massiccio tuttavia resta quello sul mercato del lavoro, in cui si stabiliscono normative di estrema flessibilità: contratti di collaborazione o a tempo determinato reiterabili, affitto lavoro, esternalizzazioni, forme di lavoro sulla carta autonomo, ma di fatto dipendente, precario e ricattabile. Gli ultimi vent’anni in Europa sono in effetti contrassegnati da un massiccio intervento giuridico sul mercato del lavoro, che con la collaborazione attiva dei sedicenti partiti di sinistra, probabilmente indispensabile per garantire la pace sociale, hanno prodotto una estrema e diffusa precarizzazione in tutto il cosiddetto mondo occidentale.
È proprio per queste ragioni che il discorso di Han sulla psicopolitica neoliberale, per quanto colga un punto importante, sembra piuttosto parziale: la presa del neoliberalismo sui soggetti non è semplicemente l’effetto dei dispositivi digitali, ma anche il prodotto dell’interventismo giuridico, teorizzato dal neoliberalismo stesso, da parte di stati e organismi sovranazionali, a favore della società di mercato.
Ma il neoliberalismo, come mostra Foucault, va anche oltre il discorso di una presunta funzionalità delle sue strategie di mercato: il mercato è un dover-essere, una norma razionale, da cui deriva anche la legittimità delle istituzioni politiche. Uno stato che non garantisca il libero mercato non sarebbe legittimo; il mercato è il fondamento di legittimità dello stato stesso. In questo senso il mercato risulta sopraordinato allo stesso consenso della comunità politica. In altri termini è lo spazio economico che rende legittimi il diritto e lo stato. L’economia neoliberale produce legittimità per lo stato, è creatrice di diritto pubblico, deve presiedere alla genesi stessa dello stato41. Se guardiamo alla globalizzazione degli ultimi trent’anni, non possiamo non riconoscere a Foucault, già nel 1979, la lucidità di aver colto un aspetto essenziale del neoliberalismo, un aspetto sul quale si è strutturato il mondo contemporaneo.
Scrive prima ancora della nascita della Repubblica Federale Tedesca il futuro cancelliere Erhard:
 
Solo uno stato capace di stabilire la libertà e la responsabilità dei cittadini [= libertà del mercato dai vincoli statali] può legittimamente rappresentare il popolo.42
 
Perciò uno stato che non garantisse libertà economica, perderebbe di rappresentatività. L’economia (concepita al modo dei neoliberali) produce legittimità per lo stato, che ne è garante; essa è creatrice di diritto pubblico43. Lo stato ritrova il suo fondamento nell’esistenza e nella pratica della libertà economica44.
E qui sorge una questione di grande importanza: se l’economia di mercato (svincolata dalle questioni di giustizia sociale) è un sistema formale ottimale che deve essere implementato, se questo sistema (chiuso come ogni sistema formale) deve tradursi in un progetto di società, se stato e diritto non hanno altra legittimità al di fuori di esso (sono anzi gli strumenti per implementarlo nel reale), c’è ancora spazio per la politica? La politica non si riduce così ad un algoritmo operativo che una ristretta cerchia di tecnici riesce a comprendere e a far funzionare?
Non è un caso che negli ultimi anni vi siano stati governi dei tecnici, rivolti a realizzare riforme (leggi: politiche di precarizzazione del mercato del lavoro), o sotto la forma diretta di gabinetti di governo, come in Italia o sotto forma di troike che dettano, per conto di organismi sovranazionali, le ricette economiche da seguire. Ne viene una vera e propria eclissi della politica come luogo della pluralità, chiamata ad una deliberazione comune.
Se l’interventismo del dispositivo di governo neoliberale sulla società è tratteggiato da Foucault analizzando, nelle prime lezioni del corso, le teorie della scuola di Friburgo, particolare attenzione egli presta, nelle lezioni successive, all’analisi delle teorie della la scuola di Chicago, in particolare rispetto alla questione chiave dell’homo oeconomicus45.
Si tratta dell’uomo che la teoria descrive come imprenditore di sé stesso, che agisce in termini di costi-benefici calcolabili, che mira ad una massimizzazione del profitto; così configurato, rispetto agli eccessi e alle dismisure di altre forme di vita soggettiva, esso risulta la forma di vita per eccellenza prevedibile nelle proprie azioni, dunque per eccellenza governabile46. Solo con questa concezione il progetto del neoliberalismo di una società che abbia la forma dell’impresa acquisisce la sua compiutezza.
Nel neoliberalismo americano Foucault rinviene tre momenti particolarmente significativi: la critica al New Deal e alla prospettiva keynesiana (anni 30); la critica al piano Beveridge e ai progetti di interventismo economico durante la Seconda Guerra Mondiale (anni Quaranta-Cinquanta); la critica ai programmi su povertà, segregazione, razziale (anni Sessanta)47. Centrale è – come si è detto – il tema dell’homo oeconomicus; lo schema argomentativo con il quale lo si introduce è molto chiaro: si lavora per avere un reddito; un reddito è il rendimento di un capitale; dunque, se ciò che produce un reddito è capitale, il lavoro è capitale48.
Qui c’è una significativa inversione rispetto a Marx. Se infatti per lui il capitale è lavoro (lavoro morto, accumulato e alienato), per il neoliberalismo il lavoro è capitale, ossia un quantum che ha un certo margine di profitto49 grazie alle skills che sono incorporate nel lavoratore. Così concepito il capitale umano consiste in elementi genetici (patrimoni genetici buoni e non buoni rispetto a malattie, rischi etc.) ed elementi acquisiti (competenze) da far fruttare, ossia nell’insieme di tutti i fattori fisici e psicologici che rendono qualcuno capace di guadagnare un certo salario piuttosto che un altro50. Il salario dunque non è altro che il reddito del capitale umano51. La competenza del lavoratore non è che una macchina che produce flussi di redditi; tale macchina fa tutt’uno col lavoratore: ha chiaramente la sua durata, il suo periodo di utilizzabilità e il suo invecchiamento52.
Ma il discorso del neoliberalismo americano va ancora oltre: il modello investimento-costo-profitto, il modello della domanda e dell’offerta, diventa lo schema generale dei rapporti sociali e dell’esistenza: il rapporto dell’individuo con sé stesso, con il tempo, con il suo ambiente, con il suo futuro, con gli altri: l’impresa e il comportamento economico diventa il modello sociale universale53: viene perciò condotta un’analisi economicista del non-economico54 e perseguito il progetto di decifrare in termini economici comportamenti sociali tradizionalmente non economici55.
Particolarmente rilevante è l’applicazione dello schema domanda-offerta applicato alla criminalità: una legge è un interdetto che va rafforzato rispetto alla sua violazione. Come? Vengono condotte azioni (penali) sul mercato del crimine in grado di opporre all’offerta di crimine una domanda negativa56: il diritto non è altro che un intervento per limitare l’offerta di crimine57.
Vi è dietro questo modello un’idea molto precisa di comportamento razionale: esso è identificato non nell’azione intenzionale e deliberata, ma in generale con una condotta che risponda in modo non aleatorio alle modificazioni dell’ambiente. L’economia è perciò la scienza della sistematicità delle risposte alle variabili dell’ambiente, secondo il modello del comportamentismo di Skinner: in esso il comportamento umano si spiega secondo lo schema stimolo-risposta e rinforzi58.
L’homo oeconomicus è dunque l’uomo razionale per eccellenza, di cui è prevedibile la risposta perché agito dalla “razionalità” economica,59 razionalità che in realtà non è altro che un sistema di riflessi per stimolo-risposta; tale sistema consiste, come si è visto, in un comportamento generale improntato al calcolo costi benefici e, più in particolare, alla massimizzazione del margine di profitto del proprio capitale di competenze.
 
Il neoliberalismo appare come il ritorno all'homo oeconomicus, anche se c'è uno spostamento rilevante rispetto alla concezione classica. Che cos'è infatti l'homo oeconomicus secondo tale concezione? È l'uomo dello scambio, il partner, è uno dei due partner nel processo dello scambio. […] Anche nel neo liberalismo - che non lo nasconde anzi lo proclama - si ritrova una teoria dell'homo oeconomicus, che però non è affatto inteso come partner dello scambio. L'homo oeconomicus è piuttosto un imprenditore, è l'imprenditore di sé stesso. Questo aspetto è talmente vero che praticamente tutte le analisi fatte dai neo liberali avranno come posta in gioco la sostituzione in ogni istante dell'homo economicus, inteso come partner dello scambio, con l'uomo economicus concepito come imprenditore di sé stesso, che in quanto tale è il proprio capitale, il produttore di sé e la fonte dei propri redditi.60
 
È esattamente per questa ragione che l’homo oeconomicus è colui che risulta eminentemente governabile61. Foucault riprende la definizione di homo oeconomicus data da Becker. Vale la pena riportare integralmente questo passo molto noto.
 
Ma ecco che ora, nella definizione di Becker così come ve l'ho riportata l'homo oeconomicus - vale a dire colui che accetta la realtà o che risponde sistematicamente alle modificazioni delle variabili dell'ambiente - appare invece come colui che è possibile maneggiare e che risponderà sistematicamente alle modificazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente nell'ambiente. L'homo oeconomicus insomma è colui che risulta eminentemente governabile. Da partner intangibile del laissez-faire l'homo oeconomicus appare ora come il correlato di una governamentalità che agisce sull'ambiente e modifica sistematicamente le variabili dell'ambiente.62
 
Ora Foucault riconosce che il liberalismo americano non è una tecnica messa in atto dai governanti sui governati, ma un vero e proprio modo di essere e di pensare63, verrebbe da dire quasi un ethos civile. Tanto è vero che Hayek parlava della necessità per i pensatori liberali di fabbricare utopie, di conquistare l’immaginazione come fece a suo tempo il socialismo; il liberalismo si configura così come uno stile generale di pensiero, di analisi, di immaginazione64.
È un peccato che Foucault non abbia seguito questa efficace intuizione: qui il liberalismo appare non solo come una tecnica di governo, che ricalca il secondo asse della soggettivazione, ma anche come una tecnologia del sé, una forma discorsiva che permette al soggetto di assumere un certo “io sono”.
È proprio su questo doppio binario, l’azione dei governi per costruire la società di mercato e contemporaneamente l’ideologia onnipervasiva dell’uomo imprenditore di sé stesso, che agisce oggi il dispositivo dell’economia neoliberale.
Oggi però, nell’epoca del capitalismo digitale al primo aspetto dobbiamo aggiungere che questa azione è condotta, oltre che dagli stati, da organizzazioni sovranazionali, secondo un modello di integrazione descritta vent’anni fa, in un’analisi che, nonostante la necessità di alcuni aggiustamenti, resta ancor valida, da Negri e Hardt in termini di Impero.
Al secondo aspetto, che chiama in causa la colonizzazione dell’immaginario dei soggetti, va invece aggiunto l’innervamento dei dispositivi nei loro corpi che li immette direttamente nel flusso della produzione digitale e li rende ad essa funzionali, secondo una configurazione che ho chiamato tecnoestetica65.
Non deve sfuggire il carattere sistemico della connessione fra tecniche di governo e azione tecnoestetica. Nell’epoca del digitale la produzione capitalistica avviene con caratteri inediti: essa è produzione immaginaria e simbolica ed esige la messa a profitto delle facoltà vitali dei soggetti: cognizione, comunicazione, immaginazione, emozione. Questa forma di produzione immateriale, cominciata nell’industria culturale, avviene oggi – come si è visto – nella fruizione di contenuti digitali; con essa si crea una soggettività disciplinata alla percezione digitale e dunque permanentemente addestrata alla produzione-consumo nelle reti, tendenzialmente incapace di trascendere l’esistente.
L’uno e l’altro asse della soggettivazione neoliberale, le azioni governamentali e le tecnologie del sé, con le dovute integrazioni, rimangono indispensabili per capire come agisca il capitalismo digitale: l’una e l’altra conseguono il risultato di ottenere un materiale umano adattato alle sue reti produttive.
 
Conclusioni
Siamo partiti dalla questione se le categorie politiche di Foucault, biopotere, soggettivazione, dispositivo, siano adeguate a descrivere il capitalismo digitale. Come risposta a tale questione sono emersi questi risultati.
  1. La biopolitica foucaultiana non si oppone in modo binario alla psicopolitica del capitalismo digitale: essa agisce, sì, sugli aspetti biologici, ma per ottenere una vita socialmente configurata in modo tale da ottenere comportamenti conformi e governabili.

  2. Il concetto di biopolitica comporta già di per sé una sorta di psicoprogrammazione: seguendo il terzo asse del concetto foucaultiano di soggettivazione, ossia la strategia che conduce un soggetto ad un discorso su sé stesso, essa consiste in una interiorizzazione della norma, cioè un discorso della soggettività su sé stessa, senza il quale l’addestramento disciplinare (secondo asse) sarebbe inefficace.

  3. Ciononostante, poiché il capitalismo digitale mette a profitto una serie di facoltà soggettive (cognizione, comunicazione, immaginazione, emozione), è necessario estendere il discorso foucaultiano sulla soggettivazione al di là di un orizzonte esclusivamente discorsivo ed aprirlo ad altri aspetti della vita soggettiva (estesiologici, pulsionali, immaginativi).

  4. Non è possibile considerare l’azione dei dispositivi del capitalismo digitale sui soggetti senza un’analisi della governamentalità neoliberale intesa come strategia globale di soggettivazione messa in atto oggi da una serie di poteri statali e sovranazionali, analisi che Foucault conduce con grande lucidità già nel 1979.

  5. Ciononostante l’azione di questa strategia di governo va letta nell’integrazione sempre più forte fra istituzioni statali e organismi sovranazionali.

  6. Occorre poi considerare l’azione di condizionamento percettivo dei dispositivi sui soggetti, che ha come effetto quello di renderli funzionali alle reti produttive del capitalismo digitale.

Se il primo, il secondo e il quarto punto mostrano ancora la sostanziale adeguatezza dell’impianto teorico foucaultiano, il terzo, il quinto e il sesto indicano la necessità di una revisione e di un’integrazione del suo metodo con altri approcci, in particolare il neomarxismo, la psicoanalisi lacaniana e la fenomenologia.
Sembra quindi necessario, con Foucault e oltre Foucault, una ridefinizione del concetto di soggettivazione che, partendo dalla centralità delle reti produttive del capitalismo digitale, non trascuri, verso l’alto, l’azione governamentale e, verso il basso, l’azione dei dispositivi tecnoestetici.
Per comprendere come avvengano i processi di soggettivazione nell’epoca del capitalismo digitale occorrerà dunque una triplice scala di analisi.
  1. Ad un livello macro si collocano le azioni governamentali di stati e istituzioni sovranazionali miranti a produrre una società a forma d’impresa. A sua volta questo livello si suddivide in una sfera d’azione geopolitica globale e in una sfera d’azione politico giuridica interna; da una parte, sul piano internazionale, si mira ad eliminare gli ostacoli politico-statuali al capitalismo digitale nella sua forma neoliberale; dall’altra, sul piano interno, gli ostacoli giuridici e normativi ad un diritto che codifica ogni aspetto della vita sociale sulla base dell’economia di mercato.

  2. Ad un livello meso si collocano le reti produttive del capitalismo digitale, che parassitano le facoltà cognitive, comunicative, immaginative ed emotive dei soggetti.

  3. A livello micro si colloca l’azione tecnoestetica dei dispositivi digitali, che produce soggetti funzionali a quelle reti attraverso un adattamento delle facoltà.

A questo triplice livello di analisi si lavorerà nel corso dei prossimi studi.
 
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1 Cfr. B. Han, Psicopolitica, Nottetempo 2016.

2 G. Deleuze, «Post-scriptum sur les sociétés de contrôle» in Id., Pourparlers 1972-1990, Éditions de Minuit, Paris 1990

3 A. Negri – M. Hardt, Impero, 2000 ; p. 185.

4 Ivi, 44

5 B. Han, Psicopolitica, cit.; p. 32

6 Ivi, p. 33-34

7 M. Foucault, Lezioni sulla biopolitica, Feltrinelli 2005. Per un’analisi della lettura del neoliberalismo da parte di Foucault v. più avanti, §4.

8 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, 1976; p.122

9 Ivi, p. 123.

10 Ivi, p. 123; corsivo mio.

11 Biopotere è innanzitutto intervento e regolazione di alcuni aspetti della vita biologica (1); in secondo luogo, contro il dispositivo di sovranità, che era potere di dare la morte, il biopotere, tipico della governamentalità dal settecento in poi, è definito come potere di mantenere in vita (2); in terzo luogo biopotere è disciplinamento dei corpi ad un certo modello di vita (3); cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, cit.; cap. V in part. p. 124. C’è un’unità interna del concetto di biopotere? Si può pensare che un dispositivo di potere, il cui fine è il mantenere in vita (2), debba necessariamente intervenire sugli aspetti biologici (1) e che questo produca una normazione e un disciplinamento dei comportamenti (3). Correlativamente un potere che voglia regolare le condotte dei soggetti (3) deve agire innanzitutto sulla vita in senso biologico (2), la quale, essendo il campo della sua operatività, va mantenuta e custodita come una sorta di tesoro o di capitale da far fruttare (1). Nonostante le evidenti intersezioni, l’ambiguità resta, perché il potere di mantenere in vita (2) e di intervenire sulla vita biologica (1) non è concettualmente identico al potere di normare la soggettività (3) e può essere sviluppato autonomamente. Questa direzione di ricerca è stata intrapresa con notevoli risultati teorici da Agamben e da Esposito (cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995 e R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004). Del resto l’intervento legislativo su inizio e fine vita richiesto dalla potenza delle biotecnologie, l’ossessione per questi aspetti dei movimenti ultraconservatori lo mostra chiaramente.

12 M. Foucault, La volontà di sapere, cit.; p.123.

13 M. Foucault, La volontà di sapere, cit.; p.123.

14 M. Foucault, La volontà di sapere, cit.; p.124.

15 Per un’analisi del concetto di soggettivazione in Foucault secondo questi tre assi rimando a G. Miniagio, “Il problema della soggettivazione in Foucault”, in AAVV, Capitale e soggetto, SDF Edizioni, pp. 229-259; anche in Spazi di filosofia, n. 4 – 2018, Dialoghi su Capitale, soggetto, nomadismo e mito

spazidifilosofia.altervista.org/joomla/sezioni/soggetto-e-capitale/19-gabriele-miniagio-il-problema-della-soggettivazione-in-foucault

16 Cfr. Michel Foucault, Le sujet et le pouvoir, in: Dits et écrits, Tome IV. 1980-1988, Gallimard, 1994, texte n. 306 e Id., Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, EHESS, Gallimard, Seuil, 2008.

17  Le gouvernement, cit., p. 5

18 Han, cit.; p. 31.

19 M. Foucault, Lezioni sulla biopolitica, Feltrinelli 2005.

20 Ivi, Lezione del 7 febbraio 1979, in part. p. 109.

21 Ivi, Lezioni del 14 e del 28 marzo 1979, pp. 129-132; 133-141.

22 Ivi, p. 131.

23 Ivi, Lezione del 7 febbraio 1979; pp. 109-112.

24 Ivi, Lezioni del 14 e del 21 febbraio 1979; 116-132: 141-152.

25 Ivi, p. 115.

26 Ivi, p. 116.

27 Ivi, p. 124.

28 Ivi, p. 103.

29 Ivi, p. 108.

30 Ivi, p. 109.

31 Ivi, p. 109.

32 Ivi, p. 116.

33 Ivi, p. 127.

34 Ivi, p. 128-129.

35 Ivi, p. 131.

36 Ivi, p. 136.

37 Ivi, p. 141.

38 Ivi, p. 125-126

39 Ivi, p. 123.

40 Ivi, p. 128.

41 Ivi, pp. 77-85

42 Ivi, p. 68 69.

43 Ivi, p. 80-81.

44 Ivi, p. 83.

45 Ivi, Lezioni del 14 e del 28 marzo 1979 e del 4 aprile 1979.

46 Ivi, p. 220.

47 Ivi, p. 178.

48 Ivi, p. 184.

49 Sarebbe in effetti interessante per una critica teorica del neoliberalismo considerare gli argomenti di Sraffa e della sua scuola nei confronti della teoria marginalista del valore, ma in questa sede occorre focalizzarsi sulla questione della soggettivazione: il lavoro è capitale.

50 Ivi, p. 184.

51 Ivi, p. 187.

52 Ivi, p. 185.

53 Ivi, p. 196.

54 Ivi, p. 198.

55 Ivi, p. 201.

56 Ivi, p. 209.

57 Ivi, p. 211.

58 Ivi, p. 219.

59 Ivi, p. 219.

60 Ivi, p. 186.

61 Ivi, p. 220.

62 Ivi, p. 220.

63 Ivi, p. 179.

64 Ivi, p. 179-80.

65 Gabriele Miniagio, “Tecnoestetica, soggettivazione, produzione capitalistica”, in Spazi di filosofia, n.7 – 2021, Riflessi di alterità, https://spazidifilosofia.altervista.org/joomla/rivista/n-7-2021-riflessi-di-alterita/73-gabriele-miniagio-tecnoestetica-soggettivazione-produzione-capitalistica-2