Marco Ciccarella | Appunti per una Metafisica della sovversione

Esclusione-negazione-sottrazione.
Il rovesciamento dialettico come Presenza
Esclusione-negazione-sottrazione non comportano l’irriducibile presenza dell’escluso-negato-sottratto? Non sarà che l’assenza di quella presenza sia la condizione di possibilità dell’esclusione-negazione-sottrazione e dunque la condizione della soggettivazione, rovesciando la dinamica agente-agito, recuperando una soggettività costituente che è appunto presenza, che ha Spazio di libertà, che eccede la sua condizione di assoggettato, che è condizione del condizionamento? Si può negare senza affermare? Si può sottrarre senza sommare? Si può escludere senza che l’Escluso sia presenza, un irriducibile proprio attraverso quella esclusione e attraverso quell’escludente? E allora, così fosse, non ci sarebbe, quindi, lo spazio per una sovversione del modello escludente, per una dislocazione del Sé, per una riappropriazione della dis-appropriazione identitaria, che non sarebbe un tornare indietro, bensì dialetticamente una nuova condizione alle condizioni, una nuova identità disincarnata e liberata? Non sarà che l’esclusione, la negazione, la sottrazione, finiscano per implicare, quindi, affermare, proprio la Presenza dell’escluso-negato-sottratto, come una irriducibilità dell’Altro, che è, proprio in quanto messo da parte? E non sarà che quella Presenza implicata, irriducibile, sia proprio il varco, la crepa, lo spazio e lo specchio attraverso cui possa avvenire il rovesciamento dialettico tra agenti e agiti, la sovversione di quello Spazio, la liberazione da e in esso? Quella Presenza negata, quindi presente, sarebbe la condizione di possibilità stessa dell’esclusione-negazione-sottrazione e, a sua volta, esclusione-negazione-sottrazione sarebbero la condizione di possibilità di una resistenza, di una esistenza dell’agente-agito-negato. E allora, fosse sensato quanto scritto, l’esclusione non imporrebbe paradossalmente la Presenza dell’escluso, rendendolo eccedenza irreversibile, irriducibile e costituente, capace quindi di liberarsi, dislocarsi, sovvertire proprio il modello di esclusione-negazione-sottrazione? Esclusione-negazione-sottrazione non sarebbero, quindi, inintenzionali cause proprio di quello Spazio dell’essere e dell’agire del Soggetto escluso-negato-sottratto, di quell’esser Presenza nell’Assenza, di una torsione virtuosa, di quella ricorrenza indelebile quanto più lo si vorrebbe negare? In altri termini, quella sovrapposizione tra indifferenza ed esclusione non torna, non è universalizzante, benché tenti ossessivamente di appiattire-omologare-amalgamare-generalizzare l’Escluso. Indifferenza ed Esclusione rappresentano un’alleanza complementare destinata al fallimento. Ciò perché l’Esclusione vive attraverso gli esclusi e le escluse che, piaccia o non piaccia all’Escludente, abitano quell’Esclusione, abitano quel Linguaggio da cui non possono essere cacciati-cacciate.
Una Uscita collettiva, o un Ri-ingresso collettivo (del femminile, nel caso che vedremo tra poco con Irigaray), avviene proprio perché quell’appiattire-omologare-amalgamare-generalizzare non funziona come vorrebbe, quella apparente inviolabilità del significante-significato è più permeabile di quanto sembrerebbe. Quell’uso comune può essere torto a uso d’eccezione e, di eccezione in eccezione, rovesciare, proprio attraverso una sovversione, ineluttabilmente dialettica, quell’appiattire-omologare-amalgamare-generalizzare. Qui si insinua, tuttavia, proprio quello Spazio a cui mi riferisco, non come il negativo (l’Escluso) del positivo (l’Escludente), ma come incancellabilità di quell’Escluso, che ha condizione di auto-e-etero-costituirsi proprio all’interno di quella Esclusione. Perché per quanto l’Altro venga escluso da quel linguaggio, da un escludente-che-si-fa-Identità e che costituisce l’Altro costituito, come Altro-di-Sé, in cui l’Altro non sarebbe, l’Altro come Soggetto non è riducibile. È. È-Altro-da-quell’Altro-costituito. È, irreversibilmente. Il modello di Irigaray, tornando al Linguaggio, relativo a Esclusione e Alterità nelle sue premesse, applicato alla questione di genere e all’esclusione del femminile dal linguaggio, mi pare inattaccabile, ma solo come necessaria premessa, poiché l’Escludente costituisce l’Escluso-Esclusa come altro-da-Sé-dell’escludente, riducendo l’Altro-Altra sempre a una proiezione introversa di quel potere costituente di chi esclude. Se il maschile si arroga il ruolo di costituire il linguaggio, questo significa che esso costituisce anche l’Altro (e quindi, qui, l’Altra)? Tuttavia, la negazione non può essere mai cancellazione, forclusione, ma una rimozione che riemerge. E allora, quella rimozione, rimosso-rimossa, contrariamente a quanto sostiene Irigaray, ha la condizione sovversiva per un rovesciamento dialettico. Come sarebbe possibile che da un linguaggio monodimensionale “Costituente – Rappresentazione-del-costituito” possa emergere un Soggetto eccedente e costituente, proprio il rimosso, da quel linguaggio, che torce quello stesso linguaggio e lo surcodifica in una forma identitaria nuova e dislocante? E allora, come si apre una crepa all’interno di un modello di Esclusione apparentemente così impermeabile, un circolo chiuso di significante e significato, una economia di significazione chiusa? Qui, a mio avviso, il ruolo dell’agente-agito è determinante, perché si dischiude una eccedenza libera, che chiaramente farà i conti anche con la permeabilità dell’intorno, certo, capace, però, di spezzare proprio il dominio Identità-Altro, perché per quanto questo dominio si sforzi di essere impenetrabile, ha già al suo interno i soggetti capaci di sovvertirlo e ri-significarlo. Questa eccedenza, questa emersione non è arrestabile, non è eliminabile, abita proprio quello spazio dell’Esclusione ed è in grado di rovesciare quello stesso spazio, di abitarlo, riscrivendone codici e grammatica. L’Esclusione, dunque, sarebbe inintenzionale motrice del suo rovesciamento, dialetticamente inteso? Sì, nonostante, e non grazie a, quell’Esclusione, si sradica indifferenza per affermare Presenza, si spezza una circolarità viziosa per alimentarne una virtuosa, l’emersione sovversiva di Soggetti che, abitando quell’Esclusione, Sono, e, essendo, sono costitutivamente Soggetti e Io appunto co-costituenti e sovversivi. Una domanda chiave è, quindi: la vera Esclusione può davvero produrre indifferenza? Se i costituenti costituiscono un meccanismo di sopraffazione linguistico-politico-giuridico-sociale-economica costante, senza apparenti punti deboli, non vi si può individuare un(’)ineliminabile fine che ha ben presente i soggetti da escludere? E allora, non sarà che ciò che si determina non è Indifferenza, ma appunto Esclusione, e che indifferenza ed esclusione non siano realmente allineabili? Ecco perché assistiamo all’emersione di quella eccedenza, dell’eccezione, dell’irriducibile da quello Spazio, tutto dalla parte dell’escludente, che tutto dalla parte dell’escludente non è, non può esserlo, perché c’è l’Altro-Altra, soggetti irriducibili, ognuno con un grado di sovversione legato al proprio grado di coscienza costituente.
L’Esclusione, dunque, necessita di un Escluso che necessariamente abiti il luogo dell’Esclusione, e, abitando quel luogo, è espressione di una soggettività che non può essere cancellata, ma solo rimossa da una “rappresentazione collettiva”. Eppure, Rimossi-e-Rimosse sono lì, sempre Presenti nell’Assenza, condizioni del loro Essere, condizioni del loro Spazio di rimozione e non-cancellazione. In altri termini, i Soggetti Sono, e questo non c’è Esclusione che possa cambiarlo. Si può torturare-reprimere-disciplinare, ma quei Soggetti torturati-repressi-disciplinati sono nella condizione dialettica di riappropriazione e di autocostituzione del Sé. Riappropriazione, surcodificazione, dislocazione, liberazione. Ciò vuol dire che dialetticamente si pone la condizione di autoaffermazione dell’Eccedenza del Soggetto escluso, perché irriducibile, sempre, e dunque si porranno le condizioni di una riscrittura di quel linguaggio, di quello spazio, di quell’Essere-Soggetto. Qual è la differenza di quanto detto rispetto al rovesciamento dialettico servo-padrone di Hegel? Qui la questione è teoreticamente più rarefatta, e proprio per questo affascinante, se mi è possibile denotarla così, perché se nella dialettica del riconoscimento oppressore e oppresso sono in un rapporto di esplicita dipendenza costitutiva e dialettica (il padrone viene riconosciuto nella sua indipendenza dal servo, il quale si nega per il padrone al fine di sopravvivere, istituendo, tuttavia, le note premesse per il rovesciamento che avviene attraverso il lavoro formante), nel movimento Escludente-Escluso, quest’ultimo rischia la cancellazione, l’irrappresentabilità, una Assenza irrecuperabile. Questo sarebbe il fine dell’Esclusione, appunto la Cancellazione. Il servo è Presenza indispensabile e auspicata per il signore, l’escluso è Assenza costituita, è, nelle ambizioni dell’escludente, cancellazione, non rimozione. La natura dialettica, dunque, del movimento servo-padrone è esplicita, nel movimento escluso-escludente decisamente no. Ritengo, tuttavia, che anche qui sia rintracciabile una struttura dialettica e non un modello binario, poiché l’escludente che cancella l’escluso non compie fino in fondo il proprio compito, non può, e quella condizione residuale dell’Escluso, la sua irriducibilità, la sua condizione detritica, diviene la negazione che si fa sintesi, palingenesi di un rovesciamento in cui, non il lavoro che forma e l’oggetto lavorato, bensì l’escluso stesso, in quanto forma e formato, in quanto resistenza, è la condizione di possibilità di essere forma di Sé, proprio in quanto escluso. La sua Forma è la sua de-formità, e quindi, è uno spazio che non può essere sottratto. È uno Spazio che resta abitato, occupato, incancellabile.