Gabriele Miniagio | Tecnoestetica, soggettivazione, produzione capitalistica

L’analisi del concetto di soggettivazione si è svolta attraverso Lacan e Foucault e ha messo in evidenza processi discorsivi di costituzione e resistenza, rispettivamente l’esser-soggettivato e il soggettivarsi. Occorre ora ampliare la ricognizione a dispositivi di costruzione soggettiva che hanno a che fare con l’assetto che il capitalismo ha preso nella produzione digitale. Analizzeremo quindi il concetto di soggettivazione nell’intreccio fra tecnologia digitale e produzione capitalistica.
 
1. Antropogenesi e tecnogenesi
Se si vuole indagare il rapporto fra soggettivazione e produzione digitale occorre una preliminare riflessione sulla tecnica e sul potere che essa ha di complessificare la vita biologica della specie homo sapiens, dando luogo, attraverso la cultura materiale, ad un mondo della vita detto umano.
Fino ad oggi i processi di antropogenesi1 e di tecnogenesi sono stati coincidenti. L’essere umano vive in un mondo di artefatti con cui supplisce alle proprie difficoltà adattative. L’uomo – dice giustamente Marx – produce le condizioni materiali della propria sussistenza. Il lavoro – aveva detto Hegel – è il superamento dialettico dell’appetito animale, con il quale l’autocoscienza trasforma il mondo circostante, realizzando su un piano concreto la sua struttura logica: costituire un riferimento a sé attraverso la negazione dell’alterità oggettuale; poiché questa negazione non è più meramente dissipativa, come nell’animale, ma trasformativa, è possibile non perdersi nell’oggetto e ritrovare l’autoriferimento. Non diversamente, ancora più a ritroso, Platone nel Protagora, attraverso il mito di Prometeo, fa della techne il modo d’essere specificamente umano, imprimendo al pensiero occidentale la direzione fino ad oggi intrapresa, quella appunto della coincidenza fra antropogenesi e tecnogenesi.
Nel Novecento tuttavia si affaccia per la prima volta il sospetto che i due processi si siano dissociati e che una serie di strumenti siano talmente innervati nel corpo umano da produrre una realtà non umana o post-umana. Il dibattito sulla tecnica è sconfinato. Basta ai nostri scopi citare due posizioni paradigmatiche: quella di Heidegger e quella di Adorno. Heidegger ha visto nella tecnica contemporanea non una frattura con l’umanesimo, ma la sua compiuta realizzazione in quanto metafisica del dominio: la tecnica è Gestell, apparato, un dispositivo planetario, una forza che fa irruzione nella storia e che per un verso apre un nuovo mondo, per un altro porta a compimento, nelle sue procedure di calcolo e di manipolazione, l’essenza della metafisica come progetto di assicurazione e stabilizzazione dell’ente, come oblio del carattere celato dell’essere; non resterebbe quindi che l’abbandono e la risonanza con un altro inizio da venire2. Adorno ha invece trattato la tecnica nel suo intreccio con i rapporti sociali e la divisione del lavoro: essa ha a che fare con strutture al tempo stesso emancipative rispetto alla mera naturalità e intrise di dominio sociale, non solo capitalistiche. A questa dialettica fa riferimento la sua lettura del mito di Odisseo3.
La questione si può quindi porre in questi termini: la tecnica, nel suo produrre un mondo umano o nel suo eventuale cancellare l’umano, è autonoma o no dai rapporti sociali? In modo ancora più diretto: la regressione, che eventualmente si potrebbe constatare nell’epoca della produzione digitale, è dovuta alla tecnica in quanto tale o ai rapporti sociali di dominio, ossia, nella nostra epoca, dal capitalismo?
È nella direzione di un’ibridazione fra tecnica e strutture sociali che procede la presente analisi. Senza voler sostenere l’ingenua posizione della neutralità della tecnica, visto il suo innesto sul corpo vivo e la sua capacità di produrre forme di vita soggettiva, l’analisi del suo intreccio con i rapporti sociali e col corpo biologico viene qui svolta in relazione a ciò che vorrei chiamare tecnoestetica4, ossia una retroazione sistemica sul corpo da parte di dispositivi digitali, immagini e video fruibili su schermi, tale da produrre una vera e propria codificazione della vita soggettiva, con una potenza e un grado di pervasività mai conosciuti prima, in un salto qualitativo che ha tutti gli aspetti di un sostanziale regresso.
In particolare si sosterrà la tesi che la tecnoestetica realizza un disciplinamento della vita soggettiva negli aspetti fondamentali della percezione, dell’emotività, dell’elaborazione simbolica del reale e della dimensione intersoggettiva dell’esistenza. Si mostrerà che l’innesto tecnoestetico provoca una perdita di potenza (in senso spinoziano) dello sguardo, una robotizzazione, una meccanizzazione, che iscrive nell’apparato percettivo un elevato grado di standardizzazione, semplificando le attitudini cinestetiche, inibendo la capacità di costruzione attiva delle immagini, facendovi penetrare la logica dell’automazione produttiva e seriale. La tecnoestetica, in altri termini, attraverso un condizionamento permanente della percezione, si iscrive nei meccanismi psicomotori profondi. Essa è dunque produttrice di soggettività. Ma attenzione: di una soggettività perfettamente funzionale alle esigenze della produzione capitalistico digitale. Dunque non la tecnica in quanto tale, come se fosse un’essenza metastorica, ma la tecnica entro certi rapporti sociali.
Il discorso si riferisce soprattutto ai dispositivi informatici, ma è valido anche per i vecchi media, per quel complesso di produzioni che Adorno e Horkheimer chiamavano industria culturale: nel sistema della tecnoestetica essi si possono considerare ormai definitivamente sussunti.
Questo porta di fronte alla domanda cruciale: qual è il rapporto fra la tecnoestetica e la produzione capitalistica? Proprio l’industria culturale fa vedere che essa non è più semplice produzione materiale, ma si configura piuttosto come produzione immaginaria e simbolica, come flusso che transita permanentemente sui corpi e che li modella5. Tecnoestetica e apparato capitalistico si intrecciano nella produzione di soggettività. Allo stesso risultato si arriva se si riflette che l’attuale configurazione del capitale trasferisce conoscenze e competenze (il general intellect del famoso frammento di Marx sulle macchine6) dal capitale al corpo di lavoratrici e lavoratori: ciò richiede inevitabilmente un aumento dell’intervento normativo e disciplinare.
Insomma, tecnoestetica, produzione capitalistica, processi di soggettivazione si intrecciano in un unico corpo biopolitico7. L’immagine di Matrix, esseri umani agganciati a macchine che ne parassitano l’energia e al tempo stesso, attraverso la percezione, ne costituiscono l’identità e la vita, resta valida ancora oggi, metafora esemplare del corpo unico di produzione biopolitica, reticolare e totalizzante, in cui produzione materiale, immaginaria, simbolica e pulsionale, fanno tutt’uno.
È possibile che in questo intreccio si rivelino anche forze emancipatrici? È possibile pensare ad una resistenza e a un rovesciamento non “nonostante”, ma “dentro” l’innervamento della produzione capitalistica e della tecnoestetica nel corpo dei soggetti?
 
2. Tecnica, estetica e tecnoestetica
Apparentemente la rivoluzione digitale ci mette a disposizione strumenti neutri. Cosa c’è di nuovo? Essa non ci fornisce forse semplici mezzi? E lo strumento non è da sempre innervato nel corpo umano?
Che lo strumento tecnico sia innervato nel corpo dell’essere umano, che esso si serva di un corredo di risorse di cui non è biologicamente fornito, che esso consista in un corpo che si prolunga in protesi tecniche è mostrato esemplarmente in Leroi-Gourhan8: l’acquisizione della posizione eretta, la liberazione della mano, la sua capacità di produrre oggetti hanno permesso ai primi ominidi di supplire ad una serie di difetti adattativi, la dentatura e la mano non idonee a uccidere e sbranare, i cambiamenti climatici. Il corpo si prolunga quindi in una serie di strumenti a cui ha delegato funzioni varie e al tempo stesso si libera per funzioni ulteriori: la produzione di altri strumenti, la fonazione, la scrittura. È lecito pensare che anche la capacità percettiva sia stata influenzata dalla produzione di oggetti tecnici: il coordinamento cinestetico, l’orientamento nello spazio fino alla capacità di produrre immagini o alla fabbricazione di strumenti per potenziare vista e udito.
Cosa c’è allora di nuovo nella immersione in strumenti tecnici informatici e nelle immagini che essi supportano? L’uomo del paleolitico, che nelle grotte di Lascaux contemplava dipinti di animali, e quello che guarda le immagini su un telefonino in che senso sono diversi?
Proviamo, non senza un alto grado di semplificazione, a vedere quali caratteristiche culturali, quali modalità di fruizione, quali modelli sottogiacenti di interpretazione troviamo nelle immagini precedenti alla rivoluzione informatica.
Innanzitutto – sembra persino banale dirlo – l’immagine ha una funzione rappresentativa: il cavallo dipinto in una grotta, una scena di caccia o di sepoltura rappresentano un certo tipo di realtà. Ma l’immagine ha solo una funzione rappresentativa? Essa è in effetti anche un fatto sociale ed è vissuta dall’attore del sistema come provvista di una serie di significati ulteriori. Essa inoltre è descritta dallo studioso di quel sistema, che adotta un punto di vista esterno, come correlata ad una serie di funzioni necessarie alla sua riproduzione.
Se si osservano immagini religiose, disegni su ritrovati archeologici d’uso comune, affreschi si può dire che esse possono contenere contenuti magico sacrali, rituali, pedagogici, di supporto alla memoria di un evento passato; in un ritratto del Rinascimento possiamo trovare l’esaltazione della gloria e del potere e persino la costruzione di un oggetto dotato di valore commerciale. Ma perché queste funzioni si appoggiano proprio all’immagine? Perché i sistemi sociali sono così sensibili alle immagini? Cosa si mette in gioco attraverso esse?
Seguendo Aristotele esisterebbe nell’essere umano un puro gusto per le sensazioni, uno stupore di fronte alle differenze di cui è intessuto il mondo sensibile, un desiderio di inseguirle, ritenerle e riprodurle: è qui che il filosofo radica quell’impulso conoscitivo che caratterizza tutti gli esseri umani. Un gusto dunque per la produzione di immagini, dovuto proprio alle differenze.
Tutti gli uomini tendono per natura al sapere; testimonianza ne è l’amore che essi provano per le sensazioni indipendentemente dall’utilità; di tutte la più amata è la vista perché meglio permette di scorgere le differenze9. Le parole di Aristotele nel primo libro della Metafisica, un vero e proprio inno al mondo sensibile, ci mettono di fronte ad un’esperienza virtualmente infinita. Potrebbe essere che la produzione di immagini vada incontro proprio a questo gusto per un’esplorazione interminabile del mondo. Se questo è vero, nella produzione di immagini da parte dei sistemi sociali, gli ulteriori significati e le ulteriori funzioni farebbero leva su tale caratteristica dell’aisthesis umana per dispiegare la propria operatività. Viceversa nella tecnoestetica il rapporto sarebbe rovesciato: le immagini realizzerebbero una inibizione del carattere insaturo della percezione e, anziché produrre la tendenza ad un’esplorazione del mondo, indurrebbero ad una chiusura e ad una standardizzazione esperienziale, sulla quale potrebbero agire le funzioni dell’apparato capitalistico di produzione.
Prima di arrivare a questa conclusione dobbiamo analizzarne la premessa, cioè che la caratteristica dell’esperienza sia di essere un orizzonte inesauribile, in cui c’è sempre un plus ultra da scoprire. A questo proposito può venirci incontro la fenomenologia di Husserl. Come emerge in Esperienza e giudizio10, prima che l’attenzione dell’io si volga, il campo percettivo è già strutturato secondo regolarità associative, Gestalten di contrasto e ripetizione degli elementi; è proprio questo campo passivo, se occorrono certe condizioni, a ridestare e propagare l’attenzione. Da questo ha inizio l’atto percettivo vero e proprio, inteso come un obbedire dell’io allo stimolo: con l’attenzione ridestata siamo quindi di fronte ad una ricettività che integra la mera passività con una prima forma di attività11.
A questo punto la ricettività compie due operazioni: prensione ed esplicazione. La prima si attua come un tenere sotto presa, un fare attenzione al contenuto passivamente formatosi, che ha la forma di un percetto localizzato che dura12. Dopodiché l’unico raggio attenzionale della prensione si complica in quello plurale dell’esplicazione: l’attenzione si fissa sul carattere complesso di ciò che appare, che si configura come un’unità discreta13; il contenuto percettivo si rivela un sostrato che ospita una serie di proprietà, le quali vengono scoperte a mano a mano che l’esplicazione decorre.
Ora, l’esplorazione esplicativa si svolge come sintesi di riempimento: ciò che appare si presenta come un sistema di pieni e di vuoti; quello che attualmente vedo ha un lato in ombra rispetto al quale, in virtù delle esperienze pregresse, ho delle aspettative, che vado a verificare. Questa verifica è compiuta dai movimenti corporei (occhi, testa, corpo nello spazio), che vanno a esplorare ciò che appare. Perciò l’esplicazione percettiva è strutturalmente cinestetica14. Per quanto il termine non appaia in questo contesto e in generale sia poco usato in Esperienza e giudizio, la sintesi esplicativa costituisce il noema, ossia il senso della percezione, il suo apparire come dotato di proprietà. L’oggetto si configura perciò come una X intorno alla quale la coscienza corporea costituisce vari noemi, in modo virtualmente infinito.
A questo punto si pone un problema. Perché continuare l’esplorazione? Perché contemplare ed esplorare lo spettacolo? C’è qualcosa che dispone all’apertura rispetto a questa costitutiva ulteriorità dell’esperienza? Che cos’è che innesca quell’appetito di immagini e di esperienza in generale descritto da Aristotele? Perché insomma l’esperienza non si rattrappisce ad una serie di sensi noematici sedimentati?
A ben vedere si tratta dell’aporia di fondo del pensiero estetico di Nietzsche: il soggetto inventa la realtà, attraverso una rete di finzioni e di metafore che eguagliano il non-eguale15, ma questa rete finisce per sclerotizzarsi in un sistema di usi codificato e funzionale alla conservazione della società, attraverso la creazione di una sorta di “parlante medio”. In fondo si potrebbe pensare che l’amore per le sensazioni di cui parla Aristotele non sia altro che un desiderio di eguagliarle, di semplificare e di ridurre il tasso di squilibrio che le differenze apportano all’apparato percettivo, una voglia di far ordine, una tendenza a riportare ad un equilibrio sensoriale anteriore già dato, dunque una sorta di coazione a ripetere e di pulsione di morte in senso freudiano. Ebbene c’è un contromovimento rispetto alla sclerosi percettiva, qualcosa che mostri l’amore aristotelico per le percezioni come un amore per le differenze e non per una loro egualizzazione anestetizzante?
Qui ci viene incontro Kant16. Nel Settecento, rispetto all’interpretazione delle immagini, soprattutto quelle artistiche, avviene una svolta: si afferma l’autonomia dell’esperienza del bello, del valore estetico dalle altre funzioni correlate; la stessa parola estetica acquisisce il significato che grosso modo ancor oggi le diamo. La Critica della facoltà di giudizio è emblematica di questo approccio e al tempo stesso apre una nuova prospettiva.
Kant mostra infatti che nell’esperienza del bello si produce un sentimento di piacere per il disporsi dei fenomeni sensibili entro figure e forme che, nella loro regolarità, richiamano l’unità; ora la funzione del dare unità è propria dell’intelletto, la facoltà dei concetti. L’immagine bella tuttavia non è l’esibizione, l’esempio, di un concetto determinato, ma esemplifica, schematizza quell’indeterminato essere-uno che, in rapporto ai fenomeni, caratterizza il concetto in quanto tale. Si produce insomma un libero gioco delle facoltà, libero proprio perché non innescato da un concetto già dato, ma dalla sua caratteristica generale di essere unità per la molteplicità. Perciò, mentre nel rapporto conoscitivo l’immagine sensibile esibisce, esemplifica un concetto determinato, nell’esperienza del bello essa è in grado di esemplificare l’esser-uno del concetto in generale. Immaginazione e intelletto si dispongono così in un libero gioco in cui la prima soddisfa le esigenze generali di unità del secondo. Ora questo libero gioco delle facoltà, per paradossale che possa sembrare, nell’esperienza estetica, in modo indeterminato, si fa sentire. Siamo quindi di fronte a un piacere molto diverso da quello meramente sensoriale, che è individuale e corrisponde alla disposizione fisiologica del soggetto in questione: dato il suo statuto trascendentale, il suo essere innescato da facoltà e non da stimoli sensoriali determinati, il piacere che deriva dal bello si articola in un giudizio di gusto che legittimamente avanza pretesa di universalità e necessità, in modo però del tutto aconcettuale17.
Questo libero schematismo, che non sussume i fenomeni sotto un’unità concettuale, ma che avverte la loro unificabilità, che non esemplifica un concetto, ma sente l’unità nella molteplicità fenomenica, rende l’incontro con essi piacevole e dispone all’esperienza, senza saturarla in una forma determinata. In esso Kant sembra affrancato dall’aporia, che abbiamo sopra sottolineato e che affligge il pensiero estetico nietzschiano: percezione e il linguaggio sono funzioni che ricreano la realtà, ma tendono necessariamente, per gli scopi della vita ordinaria, a far dimenticare la propria origine, il proprio statuto di atti creativi. Ebbene secondo Kant nell’esperienza del bello il rapporto tra le facoltà non è sussuntivo, ma appunto un libero gioco in cui si schematizza non un concetto determinato, ma l’esigenza stessa dell’unificazione. L’immagine, non dobbiamo dimenticarlo, è rispetto agli stimoli sensoriali una semplificazione, una messa in forma, una Gestalt; ora l’immagine bella, fa vedere questo stesso processo senza chiuderlo: la sua configurazione non è d’ostacolo perché rappresenta non un’unità concettuale determinata, ma l’indeterminatezza formale e generale della funzione unificante, un uno che è e resta al di là dell’essere (epekeina tes ousias). In questo senso un’esperienza determinata è esemplare delle condizioni d’esperienza in generale.
Peraltro il presupposto che accompagna il decorso dell’esperienza scientifica, ossia che la legge a posteriori appena scoperta vada a integrarsi in quelle già scoperte e che tutte formino un quadro coerente e unitario18, non sarebbe possibile se i fenomeni non fossero stati già lavorati, per così dire, dall’esperienza estetica, che sente in anticipo la loro unificabilità, con il paradosso di un fatto empirico – il sentire unificante del libero gioco – che diventa trascendentale e dell’esperienza del bello che precede e rende possibile quella scientifica. Prima del darsi dei fenomeni l’esperienza del bello incontra una disposizione positiva a fare esperienza, una sorta di abitabilità del mondo sensibile che provoca positivamente alla conoscenza e all’unificazione determinata delle leggi. Se le sensazioni sono in generale unificabili, l’esperienza è di per sé desiderabile19. Ed è proprio qui che Kant si raccorda ad Aristotele, a quell’amore per le sensazioni che si prolunga nella scienza.
Il discorso kantiano prosegue poi con le idee estetiche20: si tratta di rappresentazioni dell’immaginazione che danno all’intelletto molto da pensare; quando l’immaginazione produttiva – dice Kant – si rivela particolarmente potente nel creare un’altra natura, questo dà all’intelletto molto da pensare, senza che questa elaborazione possa esaurirsi. L’immagine artistica non solo è esemplare di un libero schematismo che dispone ad una espansione dell’esperienza in generale, ma innesca anche l’attività della riflessione, essa stessa virtualmente infinita.
Ecco che allora il libero gioco kantiano e il noema husserliano possono fornirci i termini di contrasto per capire che cosa sta accadendo con la tecnoestica e il suo innervamento sul corpo vivo.
 
3. Tecnoestetica e percezione
Intendo per tecnoestetica il complesso di immagini e di video digitali fruiti da computer e circolanti attraverso internet. L’ipotesi è che essa produca una sclerosi dell’attività percettiva, una inibizione di quella vitalità della percezione, di quella tendenza, messa in luce da Kant e da Husserl, a darsi all’ulteriorità che l’esperienza del bello e l’esperienza in generale mettono in gioco.
Veniamo allora ad una breve fenomenologia della tecnoestetica. Ciò che subito si mostra dell’immagine digitale è la grande eccitazione sensoriale che essa produce. Essa, proprio da un punto di vista tecnico, è costruita con un elevato grado di luminosità, che provoca un quantum di stimolazione incomparabilmente superiore rispetto a ciò che avviene nell’esperienza ordinaria. Questa ipereccitazione riguarda spesso anche i contenuti: sensazionalismo, tempi e stimoli studiati ad arte per catturare l’attenzione. Non occorre ritornare alle Lezioni sulla sintesi passiva di Husserl, dedicate al ridestamento affettivo o al propagarsi dell’attenzione, per capire di che cosa stiamo parlando: un’immagine impressionante, quanto a struttura e contenuti, provoca uno shock e un’attenzione intensa anche se irriflessa.
Ora l’immagine tecnoestetica, proprio per la sua saturazione sensoriale, inibisce l’esplorazione percettiva; essa non porge all’osservatore sfondi e adombramenti da esplicare, non fa cenno ad un qualcosa di più da scoprire. Infatti, se nell’esperienza ordinaria il campo percettivo è costituito da una serie di scorci e di vedute dello stesso oggetto che si innestano riempiendo l’una ciò che manca all’altra, qui la sovreccitazione sensoriale inchioda il soggetto ad un’immagine già data, senza chiamare lo spettatore ad esplorare il di più: l’esperienza è immediata, incapace di elaborazione attiva (in modo analogo si può pensare ad una ferita che, invadendo di dolore la coscienza, impedisce l’esperienza tattile). In altri termini lo strato passivo e i suoi tracciati, carichi di forza impressionale, prendono il sopravvento sulle operazioni attive dell’esplicazione, imprimono un’unica direzione noematica alla loro capacità di produrre molteplici noemi percettivi intorno alla x infinitamente determinabile dell’oggetto. L’immagine è costruita con un contenuto già dato, a cui la percezione aderisce, calamitata ad essa dalla forza del contenuto sensoriale, che inibisce ogni ulteriore andare a guardare e ricomporla. Insomma, lo stimolo è talmente intenso che la capacità percettiva viene inchiodata all’immagine data e perde la sua attitudine esplorativa.
Per contro di fronte all’oggetto dato nell’esperienza ordinaria – e a maggior ragione di fronte all’oggetto artistico in quanto kantianamente esemplare delle condizioni d’esperienza – lo spettatore indaga, guarda, combina e ricombina: la Gestalt proposta da un ipotetico punto d’osservazione è infinitamente modulabile. L’oggetto richiede strutturalmente la coscienza incarnata, corporea, l’esplorazione cinestetica (movimenti degli occhi, della testa, del corpo, con variazione correlata dello spettacolo che così si arricchisce di determinazioni). Lo spettatore fa questo o per lo meno il suo corpo ha la memoria psicomotoria di poterlo fare. Ha, spinozianamente e nietzschianamente, questa sensazione di potenza. Per contro l’immagine della tecnoestetica è totalmente satura di affezione e di forza impressionale da calamitare l’attenzione, senza lasciare spazio e tempo per l’esplorazione cinestetica. Le modalità di percezione dallo schermo sono un ulteriore elemento che preme in questa direzione.
Ora, se postuliamo un’analogia fra elaborazione percettiva ed elaborazione linguistica21, nel senso che all’aumentare dell’una è richiesto l’aumentare dell’altra, vediamo che quanto più lo spettacolo si riempie di dettagli, tanto più è richiesto alla parola; viceversa quanto più un discorso è ricco, tanto più è richiesto all’immaginazione in termini di raffigurazione. Perciò l’inelaborazione percettiva si traduce in una inelaborazione simbolica: la passività della percezione, la sua velocità, il sovraccarico sensoriale, l’inibizione delle operazioni esplicative non permettono quella distanza e quel tempo in cui può sorgere una domanda; non vi sono le condizioni per far passare un’esperienza siffatta attraverso il linguaggio, attraverso una ricodificazione entro la complessità che la rete di opposizioni del sistema linguistico esibisce. La ripetuta esposizione a questo tipo di fruizione, che ha i connotati di una immersione costante, crea insomma un habitus mentale connotato dalla tendenziale semplificazione simbolica. Siamo dunque di fronte ad un regresso aisthetico22 che comporta un regresso della capacità simbolica.
C’è poi un ulteriore elemento. L’immaginazione, nell’aspetto che Kant chiamerebbe riproduttivo, studiato magistralmente da Hume, costruisce reti associative sulla base dell’esperienza pregressa, secondo un vero e proprio automatismo: poiché ho visto sempre associati insieme A, B, C, al presentarsi di A la mia facoltà immaginativa, come una molla, scatta ed associa B e C. Ora, è lecito pensare che la sovraesposizione alle immagini tecnoestetiche, dovuta all’innesto dei dispositivi digitali sul corpo, penetri nell’intimo dei soggetti e costruisca un meccanismo di questo tipo. Tutto ciò rende l’immaginazione eterodiretta, standardizzata e la addomestica in modo funzionale a certe forme di vita soggettiva, con una vera e propria colonizzazione dell’immaginario. Insomma se dentro i soggetti opera la macchina dell’immaginazione associativa, la tecnoestetica programma questa macchina. Già le prime analisi dell’industria culturale mostravano la tendenziale trasformazione del soggetto in automaton. Ora però, con l’immersione permanente nel digitale, si è fatto un decisivo passo in avanti.
Ma c’è di più. Oltre all’immaginazione associativa esiste un’immaginazione spontanea, che Kant chiamerebbe pura o trascendentale: essa opera da una parte come capacità di tradurre un concetto in immagini (schematismo), dall’altra, secondo quanto si è visto, come capacità di costruire immagini belle, ossia immagini che unificano figurativamente il molteplice in modo da richiamare l’unità senza un concetto determinato di supporto, innescando così un puro piacere estetico. Più in generale, esiste negli umani un’immaginazione spontanea, creativa, non spiegabile con l’automatismo del meccanismo associativo, oltre che un particolare piacere ad essa correlato. Ora, è lecito supporre che proprio la sovraesposizione alle immagini tecnoestetiche e della vecchia industria culturale inaridisca la capacità di costruzione attiva delle immagini e rinforzi l’immaginazione riproduttiva a danno di quella pura, rendendola sempre più automatizzata e macchinica.
Il discorso sull’immaginazione poi non potrebbe essere completo senza un ulteriore elemento, che attingiamo dalla psicanalisi lacaniana23. Sappiamo che in Lacan il desiderio è possibile grazie alla costruzione immaginaria di uno scenario di fondo, il fantasma. Esso è il punto di stabilizzazione del desiderio stesso ($ <> a), che da una parte innesca nel soggetto meccanismi di ripetizione, dall’altra è la cifra della sua singolarità, dell’impossibilità di sussumerlo sotto un ordine nomologico, naturale o sociale che sia: ciò che il mio inconscio nel suo intimo desidera non è il prodotto automatico né della biologia né del sistema sociale. Questa è la ragione per cui il desiderio è strutturalmente qualcosa di sovversivo e ingovernabile. Ora, la permanente esposizione alle immagini tecnoestetiche inevitabilmente tende a standardizzare i fantasmi del desiderio attraverso un repertorio immaginario attinto dall’esterno. Così il mio desiderio è addomesticato proprio perché è desiderio di chiunque: la singolarità viene meno a vantaggio di una costruzione desiderante indotta, eterodiretta, spersonalizzata, seriale, anonima, segnata dall’intercambiabilità.
Il fantasma immaginario, peraltro, come abbiamo visto24, ha una funzione di sutura, ossia offrire un supporto simulacrale d’identità ad un soggetto strutturalmente deficitario nel proprio autoriferimento. Il linguaggio infatti non permette al soggetto di designare sé stesso attraverso un contenuto concettuale stabile e permanente: “io” non è un semantema, che si riferisca ad un oggetto attraverso un significato (“cane” si riferisce alla classe dei cani attraverso un certo contenuto concettuale), ma un indexicale, cioè un termine il cui referente dipende dalla situazione; si tratta perciò di una sorta di freccia che punta su chi parla al momento del parlare; perciò il soggetto non è una sostanza già data prima di parlare e designata dal linguaggio attraverso il suo repertorio concettuale, ma qualcosa che accade nell’atto di parola e che dopo sparisce, differendosi in atti locutori da venire. Questa de-essenzializzazione del soggetto, questa temporalizzazione nella contingenza dell’atto di parola, come si è mostrato, scatena nel soggetto un’angoscia di sparizione (aphanisis), a cui pone rimedio proprio col fantasma immaginario del desiderio: è lì, in quello scenario che l’inconscio ripete, che il soggetto si cerca, dopo l’esperienza di quel buco nella struttura del linguaggio. Perciò il fantasma di desiderio è un (fragile e talvolta perverso) nodo identitario. Ora però, se nel fantasma penetrano dall’esterno elementi immaginari seriali e anonimi, se il desiderio è eterodiretto dalla permanente esposizione alle immagini digitali, secondo la dinamica che sopra abbiamo analizzato, è la stessa identità del soggetto a farsi seriale e anonima: insomma la standardizzazione dei fantasmi di desiderio, che la tecnoestetica realizza, comporta la standardizzazione delle identità.
Non bisogna inoltre dimenticare lo stato di sovreccitazione continua a cui la tecnoestetica dispone. La stimolazione sensoriale infatti è talmente forte che può slegarsi dall’immagine che inizialmente la veicola e restare in circolo nel corpo, anche quando essa è assente, mirando proprio a ritrovarla; si innesca così una coazione a ripetere entro schemi psicomotori indotti (mano-dispositivo, occhio-dispositivo, orecchio-dispositivo, etc.). Gli stati esperienziali di vuoto o di noia, a cui si potrebbe rispondere con un atto creativo o con uno stato di solitudine e di raccoglimento in sé stessi, vengono tendenzialmente cancellati, nella ricerca continua di ciò a cui l’eccitazione sensoriale tende (l’immagine digitale sul dispositivo). Anche qui è necessario un riferimento alla teoria lacaniana della soggettivazione; si è visto infatti 25 che il corpo pulsionale si costituisce a partire da un oggetto ceduto (l’oggetto a), intorno al quale la pulsione svolge il suo circuito, mobilitando così un quantum di energia libidica. Ora negli automatismi psicomotori che si instaurano fra il corpo percettivo e i dispositivi digitali non si può non vedere una dinamica simile: il corpo ricerca nel dispositivo la sua propaggine esterna, senza la quale la sovreccitazione sensoriale rimasta non troverebbe la propria meta; in questo modo si costituisce fra soggetto e dispositivo un circuito di scorrimento energetico impermeabile al mondo esterno, chiuso alla contingenza dell’incontro con Altro.
Emerge dunque in modo chiaro il rapporto fra tecnoestetica, desiderio, godimento, immaginario, simbolico e corpo pulsionale; tale è la complessità dell’argomento che sarà necessario dedicare a ciò un ulteriore studio26.
Occorre sottolineare inoltre che le immagini tecnoestetiche, sono il materiale di costruzione di contenuti artistici, d’intrattenimento, informativi e pubblicitari che fanno parte di un unico flusso, che uniformando le modalità d’esperienza, rende tali contenuti tendenzialmente indistinguibili
L’iperconnettività garantita dagli smartphone, peraltro, produce un’invasione continua del tempo d’esistenza personale. La questione è cruciale: da un lato il tempo è troppo breve per l’elaborazione (video in genere durano poco e talvolta sono troppo veloci; non vi è un montaggio in cui lo spettatore venga chiamato a interpretare e, anche quando è di buona fattura, mira spesso alla suggestione immediata piuttosto che alla fruizione elaborata); dall’altro l’invasione è costante e particolarmente densa di effetti nei soggetti più fragili e meno educati ad un distanziamento critico – si pensi a bambini di strati sociali disagiati. Si acquisisce così una serie di gesti condizionati, di posture fisse, di dipendenze, tali per cui la mano senza telefono portatile, l’occhio senza schermo non possono più stare: una vera e propria in-sofferenza del vuoto.
Altra caratteristica che alcune immagini hanno, si pensi ai contenuti condivisi sui social, è la totale assenza di un una chiamata dell’altro alla costruzione del senso. Il soggetto sembra non uscire da sé stesso, rimanere entro una forma d’esperienza narcisistica, non trascendere la propria singolarità: in questo tipo di contenuti, l’altro è chiamato in causa tutt’al più come spettatore di un’esperienza privata, testimone plaudente (I like) di un soggetto che soggiorna di fronte ad un’immagine di sé. Insomma qui, a differenza dell’esperienza estetica, che secondo Kant chiama strutturalmente in causa la comunità dei giudicanti nella sua pluralità, l’esperienza viene meno all’intersoggettività, al senso comune, rimane strutturalmente privata: il rapporto con le dinamiche politiche di chiusura dello spazio comune sono evidenti. Il luogo stesso della fruizione dell’immagine (il telefonino, ma anche il computer o il televisore) è privato.
Altro aspetto da non trascurare: l’immagine è pervasiva. Si pensi ai videogiochi: si crea un ambiente irreale o per meglio dire de-realizzato che ingloba il soggetto percipiente, lo separa dagli altri e dal mondo. Certo, un qualche grado di derealizzazione – la creazione di altri mondi – è tipica dell’esperienza artistica; mentre questa tuttavia raffina le attitudini esperienziali in generale, mettendo in gioco immaginazione produttiva, libera variazione cinestetica, capacità interpretativa, l’immagine pervasiva produce solo canalizzazione della percezione verso quell’unico e identico evento, assorbimento esclusivo, affaticamento, stordimento e ciononostante coazione a ripetere; in essa non ci sono mondi altri, perché non c’è affatto mondo, ma solo sovreccitazione sensoriale; tanto meno si dà una narrazione in cui il fruitore venga chiamato ad una operazione interpretativa. Gli effetti di questa immagine pervasiva, derealizzante e iperstimolante, sono moltiplicati dall’elemento dell’immersione continua, sopra analizzato: il videogioco non richiede più uno specifico supporto (la playstation) o uno specifico tempo (il computer fisso), ma è sempre lì sul telefonino, a portata di mano e di occhio, ormai innervato nel corpo.
Altro aspetto notevole è la derealizzazione che la tecnoestetica produce, non solo nei videogiochi, dove essa è creata intenzionalmente, ma nell’abitudine in generale a percepire il mondo attraverso gli ologrammi di uno schermo. Questa derealizzazione ha peraltro un elevato grado di serialità: si assorbono immagini virtuali delle realtà circostante, non costruite in un’esperienza vissuta in prima persona, standardizzate, slegate dalla memoria individuale, anonime e generali, deposte in una sorta di cloud i cui fruitori sono intercambiabili.
Di questa virtualizzazione risente anche il piano relazionale: il corpo acquisisce la tendenza ad interagire con ologrammi e la possibilità di una distruzione dei meccanismi empatici, di una dissociazione dell’emotività dalla relazione con l’altro è molto concreto. I social media spingono nella stessa direzione: è vero che essi si fondano sullo scambio, ma tale scambio avviene a distanza, senza il corpo, la voce, il volto, in un parlare che è fondamentalmente a sé stessi. In questo circuito autoriferito della soggettività le immagini, come si è visto, svolgono un ruolo fondamentale. L’alto grado di aggressività che nei social media circola non è quindi un caso: da una parte il soggetto è in una posizione narcisistica, dall’altra i vettori del corpo vivo coinvolti nella relazione intersoggettiva sono fuori circuito.
L’emotività sembra quindi affetta da queste dinamiche derealizzanti, che disabituano all’interazione con l’altro, e, di nuovo, dall’ipereccitazione sensoriale, che copre e tendenzialmente cancella vissuti a grana più fine.
Il sistema della tecnoestetica agisce però non solo attraverso queste specifiche modalità di costituzione dell’immagine, ma anche attraverso le caratteristiche dei dispositivi. Il telefono portatile è una protesi fissa del corpo e solo per ciò genera una serie di schemi motori e di automatismi; ma questa protesi, come si è visto, lavora sull’apparato percettivo, grazie all’elevato grado di stimolazione sensoriale che è capace di suscitare: il condizionamento psicomotorio è per questo più pervasivo e profondo e lega all’automatismo della mano e dell’occhio rispetto allo schermo la percezione e la cognizione in generale. Non è quindi solo l’immagine ad agire sul corpo, ma tutto il dispositivo.
Spostando il discorso sulle caratteristiche tecniche dei dispositivi dall’hardware al software emergono aspetti ancora più inquietanti, come per esempio la capillare capacità di profilazione degli utenti a fini commerciali: i dati di navigazione rimangono nella memoria e sono usati per inviare pubblicità mirata in modo invasivo. Lo scandalo Cambridge Analytics mostra gli effetti di tutto questo sulla comunicazione politica e sulla costruzione del consenso: attraverso tali strumenti chi fosse in possesso di idonei mezzi finanziari avrebbe la possibilità di influenzare in modo decisivo l’opinione pubblica, con un uso mirato di messaggi e video in grado di intercettare e stornare a proprio vantaggio gli umori del momento. Si vede qui un inquinamento strutturale della comunicazione politica, una trasformazione del linguaggio da potenziale mezzo pubblico di deliberazione razionale in strumento di persuasione in grado di generare e parassitare emotività irriflessa.
La profilazione ha aspetti ancora più preoccupanti se si pensa alla geolocalizzazione che avviene attraverso i telefonini: a essere rilevati non sono qui solo i dati di navigazione, ma i luoghi reali, le abitudini concrete di vita insomma. La localizzazione è un vero e proprio balzo in avanti che chiama in causa la tecnologia satellitare. Si fa fatica a non vedere in ciò un sistema di controllo globale.
Ricapitolando quanto è emerso si può dire che tendenzialmente nella tecnoestetica si produce un’atrofizzazione dello sguardo, un’inibizione della sua capacità di comporre immagini nella libera variazione cinestetica, un adombramento degli adombramenti percettivi e dell’infinità esperienziale che essi comportano. Insomma la standardizzazione riguarda non solo i contenuti ma investe anche la forma dell’esperienza e penetra direttamente nell’apparato percettivo, che viene deprivato e impoverito della sua carne, robotizzato.
Commercializzazione, privatezza, pervasività, regresso nell’emozione e nella relazione, sono tutti elementi che fanno parte dell’intervento della tecnoestetica sul corpo vivo, ma la trasformazione dell’occhio in sensore è sicuramente la conseguenza più inquietante di questo processo: l’immagine tecnoestetica si innerva nel corpo vivo, governa l’apparato percettivo; tuttavia la direzione di questo disciplinamento sensoriale non è la vita, ma la replicazione del dispositivo tecnico nel corpo che se ne serve, la strutturazione monodirezionale dello sguardo, appunto la robotizzazione dell’occhio.
Possiamo a questo punto radicalizzare il discorso: Freud definisce la pulsione di morte come la tendenza all’autoannientamento insita nella prima cellula, lo strutturale conato insito nell’organico al ristabilimento di un equilibrio precedente, il quale ha come asintoto proprio l’inorganico, l’equilibrio e il “prima” per eccellenza27. La robotizzazione dell’apparato percettivo dovuta alla tecnoestetica, la regressione dell’occhio a sensore monodirezionato, appare dunque come una sorta di induzione della pulsione di morte nell’apparato percettivo. Tuttavia questo risultato è raggiunto paradossalmente proprio attraverso la sovreccitazione sensoriale: è proprio il primato di questa sulla capacità di comporre immagini (phantasìa, Einbildugskraft) a produrre lo sguardo monodirezionato. Ne risulta un materiale umano con spiccate caratteristiche di automazione, sul quale possono intervenire i dispositivi dell’economia capitalistica.
Possiamo a questo punto elencare gli elementi regressivi della tecnoestetica finora emersi.
  1. Trasformazione dell’occhio in sensore monodirezionato.

  2. Inelaborazione simbolica.

  3. Standardizzazione dell’immaginazione.

  4. Inaridimento della capacità di crazione attiva delle immagini.

  5. Standardizzazione dei fantasmi di desiderio.

  6. Standardizzazione dell’identità soggettiva.

  7. Circuito sensoriale chiuso corpo-dispositivo digitale.

  8. Uniformazione delle modalità di esperienza.

  9. Invasione del tempo d’esistenza personale.

  10. Destrutturazione della relazione.

  11. Destrutturazione dell’emotività.

  12. Profilazione e controllo.

 4. Tecnoestetica e produzione capitalistica.
Con questo siamo arrivati ad un punto cruciale. Gli effetti regressivi che si sono sottolineati, sono dovuti alla tecnoestetica in sé stessa o al suo innesto con certi rapporti sociali? Entro altri rapporti la presa della tecnoestetica sul corpo avrebbe effetti diversi?
Per rispondere occorre partire da un presupposto metodologico: le forze produttive (tanto il lavoro vivo, quanto l’apparato tecnico) non esistono di per sé, atomisticamente, ma sono plasmate dai rapporti di produzione28. Ciò non vuol dire che esse non abbiano un grado di sviluppo autonomo dal sistema che le ha generate e che le vincola a sé – anzi è proprio sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione che Marx vede la condizione di possibilità per la rivoluzione: quando le forze produttive raggiungono un certo grado di sviluppo, tale per cui i rapporti di produzione diventano d’ostacolo, le prime si pongono antagonisticamente rispetto ai secondi e li rovesciano, come mostra l’esempio della borghesia rispetto ai rapporti feudali.
La questione va quindi posta in questo modo: la tecnologia digitale nel suo complesso, di cui la tecnoestetica fa parte, come si comporta rispetto ai rapporti capitalistici di produzione? Essa svolge la stessa funzione dialettica delle forze vive oppure si comporta in modo antidialettico? O forse sono presenti entrambe le tendenze?
Prima di abbozzare un tentativo di risposta, ci sono alcune precisazioni da fare, che forse possono metterci sulla strada giusta. Innanzitutto occorre dire che il concetto di produzione è cambiato rispetto all’epoca di Marx: come hanno mostrato Adorno e Horkheimer la produzione è oggi immaginaria e simbolica oltre che reale. Anticipando l’analisi può dire infatti quanto segue:
  1. L’immaginario è merce.

  2. L’immaginario rappresenta le merci.

  3. L’immaginario è strumento delle merci.

  4. La merce è immaginario.

Seconda precisazione; la fisionomia del capitalismo oggi cambia anche per via della rivoluzione digitale. Anche qui possiamo anticipare l’analisi:
  1. La tecnologia è il prodotto.

  2. La tecnologia è medium dello scambio.

  3. La tecnologia è nella forza lavoro.

Esamineremo i due aspetti separatamente, per poi analizzare il complesso di forze conservative e trasformative che agiscono nella sovrapposizione fra tecnoestetica e produzione capitalistica.
 
4.1. La produzione capitalistica come produzione simbolica e immaginaria
Si è accennato al fatto che la produzione capitalistica è produzione simbolica e immaginaria. Aver chiarito questo punto è stato il grande merito della categoria di industria culturale creata da Adorno e Horkheimer: si tratta di un sistema complesso caratterizzato dall’intreccio fra consumo, arte intrattenimento e media di massa. Con una certa dose di schematicità e di semplificazione possiamo vedervi le seguenti caratteristiche.
  1. L’immaginario è merce. L’industria culturale costruisce nuove forme d’arte e di intrattenimento che sono vendute su larga scala. Il disco o il film sono merci vendute e consumate. L’opera d’arte risulta qualcosa di tecnicamente ripetibile, perde la sua aura. Questo pone molti problemi all’analisi filosofica: da una parte si aprono inedite possibilità emancipative e di democratizzazione (Benjamin), dall’altra si afferma un appiattimento della fruizione, un regresso a mero intrattenimento, un addomesticamento al consumo (Adorno).

  2. L’immaginario rappresenta le merci. I prodotti dell’industria culturale (film, musica) rappresentano stili di vita perfettamente uniformi al consumo e li veicolano su larga scala. Essi integrano al sistema non solo per il fatto di essere acquistati, ma anche per i contenuti che li caratterizzano.

  3. L’immaginario è strumento delle merci. L’industria pubblicitaria fa leva sull’immaginario per indurre al consumo; essa si serve anche di prodotti artistici (la musica come jingle, spezzoni di film) e di celebrità del mondo dello spettacolo.

  4. La merce è immaginario. Per poter essere vendute le merci devono avere aspetti di appetibilità estetica grazie a cui il soggetto possa credere di realizzare un’identificazione ideale. Il design è importante quanto il valore d’uso. Produrre merci significa anche produrre desideri.

Ciò che si è detto dell’immaginario vale anche per il simbolico: non è in gioco solo la desiderabilità del mondo delle merci, ma anche la sua capacità di costituirsi come orizzonte di senso complessivo. Perciò, se l’apparato capitalistico è produzione d’immaginario e di simbolico, esso è anche produzione di soggetti.
Ora in questo sistema produttivo la televisione compie un passo ulteriore: essa costituisce un flusso unico di informazioni e immagini, in cui sono presenti indifferentemente contenuti pubblicitari, artistici, d’intrattenimento e d’informazione. I differenti modi di produzione si standardizzano e tendenzialmente si polarizzano intorno al consumo.
Se la televisione ha avuto un ruolo importante, la produzione digitale entro reti interconnesse costituisce tuttavia un vero e proprio salto qualitativo: questo flusso non è più soltanto uno spazio di percezione, ma uno spazio di vita, in cui transitano interazioni affettive, economiche etc. L’offerta della produzione immaginaria e simbolica si moltiplica esponenzialmente e con essa il tempo di assorbimento del soggetto. Il telefonino costituisce un secondo salto: il flusso viaggia direttamente con noi, è innervato sul nostro corpo. È qui che ritroviamo tutte le caratteristiche regressive emerse nel paragrafo precedente.
Difficile sottovalutare il mutamento che il flusso ha introdotto: l’ibridazione fra merce e immaginario penetra nei modi d’esperienza del soggetto, che vengono così uniformati, appiattiti. Se il CD può essere fruito a parte rispetto alla pubblicità e il suo contenuto essere goduto come prodotto artistico, ora questa esperienza autonoma scompare. L’opera d’arte, oltre alla sua aura, perde la sua stessa materialità e con essa il suo tempo autonomo di fruizione e così dicasi per gli altri contenuti. Che ci siano siti a pagamento, senza pubblicità, su cui per esempio fruire musica liquida o film, non cancella questo aspetto per cui esperienza artistica, informazione, intrattenimento e pubblicità, essendo fruiti nello stesso modo, finiscono per non essere più distinguibili. Ciò che viene meno insomma è la capacità di fare esperienze qualitativamente diverse, in cui il soggetto sia chiamato in causa in modi eterogenei: l’unico flusso sensoriale cancella tutto questo. Il meccanismo di indifferenziazione delle esperienze penetra nel profondo della soggettività, poiché vengono uniformati i loro schemi psicomotori. Ogni esperienza non è che la variante dell’utilizzazione della rete e il soggetto si fa punto di snodo di una corrente che lo rigenera di continuo.
 
4.2. Produzione capitalistica e rivoluzione digitale
La produzione capitalistica cambia non soltanto rispetto al simbolico e all’immaginario, ma anche in relazione alla posizione della tecnologia. Il discorso meriterebbe un lungo approfondimento; qui ci limitiamo a schizzare in generale la configurazione generale che emerge.
 
  1. La tecnologia è il prodotto. Vengono prodotte merci cognitive, ossia una serie di “oggetti” (hardware, software, siti) che, attraverso la tecnologia dell’informazione, compiono operazioni a servizio del consumatore. Su questi inediti prodotti sono implementate capacità computazionali di cui questo si serve e che talvolta lo sostituiscono o ne perfezionano i processi cognitivi. La tecnologia dunque non è più un semplice strumento di produzione, ma è ciò stesso che viene prodotto.

  2. La tecnologia è medium dello scambio. Internet è un insieme di flussi comunicativi in cui le informazioni vengono scambiate; o che questo scambio sia immediatamente remunerativo o che non lo sia o che lo sia indirettamente non si può più concepire la tecnologia al di fuori dello scambio.

  3. La tecnologia è nella forza lavoro. L’elevato grado di complessità degli oggetti prodotti richiede produttori competenti. Il general intellect, di cui parlava Marx nel frammento sulle macchine, ossia di l’insieme di conoscenze, repertorio comune dell’umanità, che sono oggettivate nelle macchine, passa da queste alla forza lavoro. Il progettista di siti, il programmatore di software e l’ingegnere informatico sono le figure emblematiche di questa radicale mutazione.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante. In generale il fatto che le conoscenze tecniche si spostino dal capitale al lavoratore, anzi facciano tutt’uno col suo corpo, segna certamente un suo punto di crisi, che apre scenari inediti e attualmente non prevedibili. Il capitale si trova in una situazione paradossale: da un lato ha bisogno della forza lavoro cognitiva, dall’altro vede l’elemento cognitivo (il general intellect) necessario alla produzione incarnato nella mente e nel corpo del lavoratore e della lavoratrice. Tale elemento è esattamente ciò che deve essere espropriato: per questo si verifica un aumento del controllo biopolitico, intendendo con ciò la capacità di alcuni dispositivi di potere di generare e disciplinare la vita soggettiva. Affronteremo l’argomento in un prossimo saggio che torna sul concetto foucaultiano di soggettivazione; quello a cui per ora possiamo accennare è la penetrazione del capitale nei luoghi tradizionali del welfare per contrastare il possibile porsi per sé del lavoro cognitivo: formazione, sanità, politiche del reddito.
 
4.3. Tecnoestetica e produzione capitalistica tra emancipazione e assoggettamento: dialettica e adialettica delle forze produttive
Si sono visti gli aspetti regressivi della tecnoestetica (§2). Successivamente il discorso si è ampliato alla produzione capitalistica e anche qui si sono osservati significativi effetti regressivi: il fatto che essa sia produzione simbolica e immaginaria comporta un elevato grado di standardizzazione della vita soggettiva (§3.1); analogamente le mutazioni nella produzione indotte dalla rivoluzione digitale comportano un aumento del controllo biopolitico (§3.2). Entrambi gli aspetti sembrano chiudere la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione e stabilizzare quelle in funzione di questi: il desiderio canalizzato su merci simbolicamente cariche, la fruizione del flusso d’informazioni che transitano sulla rete da una parte integrano nel sistema, dall’altra consentono ad esso di perpetuare le proprie dinamiche di produzione soggettiva.
Tale è il grado di pervasività del sistema che si fa fatica oggi a individuare forze antagoniste, in grado di riaprire quella dialettica. Cercheremo tuttavia di rinvenire qualche elemento che va in questa direzione. Il discorso che si condurrà sarà inevitabilmente incompiuto, inelaborato, provvisorio e per certi aspetti anche contraddittorio.
Il primo elemento che salta agli occhi è, al di là degli aspetti regressivi, legati alla qualità dell’esperienza tecnoestetica, l’immenso potenziale cognitivo che la rete comunque ha messo a disposizione, l’enorme capacità di circolazione e di scambio del sapere, dunque di democratizzazione, che non ha pari nella storia umana. È difficile decidere oggi in che direzione si risolverà l’antagonismo fra l’aspetto qualitativo (sostanzialmente regressivo) e l’aspetto quantitativo (sostanzialmente emancipativo).
Per ciò che concerne l’aspetto qualitativo poi, è comunque vero che della tecnoestetica si può fare un uso straniante in certe forme d’arte: qui il contenuto (video o immagine) non perde certamente le proprie caratteristiche regressive, sopra emerse, ma esse sono costruite, montate, in maniera tale da innescare nel soggetto un’elaborazione percettiva e simbolica e da essere esemplari della tecnoestetica stessa. Qui c’è qualcosa di paradossale: mentre è vissuto, lo shock percettivo, proprio in quanto manca il termine esperienziale contrastivo, non è tematizzabile; ora la costruzione artistica, grazie ad una serie di elementi stranianti, permette agli aspetti fenomenologici dell’immagine tecnostetica di essere avvertibili ed elaborabili dal soggetto; essa diventa quindi esemplare della tecnoestetica in quanto tale: un’esperienza, che di per sé, per le caratteristiche tecniche del dispositivo, sarebbe povera e passiva, può, in quelle stesse caratteristiche e per quelle stesse caratteristiche, diventare ricca e attiva.
Le moderne forme di arte digitale, pur presenti in spazi marginali (musei, spazi occupati), pur attingendo talvolta dall’industria culturale ed essendone parassitate, permettono comunque una possibile decostruzione del contenuto tecnoestetico nella fruizione delle sue stesse caratteristiche. In quest’uso straniante della tecnoestetica fa irruzione, negli stessi profondi meccanismi percettivi che essa condiziona e impoverisce, qualcosa di nuovo, un senso altro, in grado di dislocare altrove rispetto ad un’esperienza monodirezionata e inelaborata. La decostruzione degli automatismi percettivi, che nella tecnoestetica legano il simbolico e l’immaginario alla produzione digitale, peraltro, è sempre in linea di principio possibile ed occorrerebbe che essa venisse praticata al di fuori degli spazi marginali in cui essa attualmente si trova; bisognerebbe insomma che essa potesse affettare lo spazio della città, che è oggi miseramente uno spazio di produzione e consumo.
Ad ogni modo, su un piano più generale e da un punto di vista teorico, se è vero che l’innesto della tecnologia dell’informazione sul corpo plasma l’uomo, è altrettanto vero che proprio questo innesto può riplasmarla e portare in essa tutte le caratteristiche di creatività e d’invenzione che possiamo scorgere nell’esperienza umana.
L’altro aspetto su cui riflettere è che, come hanno lucidamente sottolineato Negri e Hardt29, con la produzione digitale, che mette a profitto le facoltà vitali del soggetto (conoscenza, immaginazione, comunicazione, affetti) le tecniche che servono a produrre non sono più incorporate solamente nelle macchine, ma anche direttamente alla forza lavoro. Il capitale corre insomma il rischio di perdere definitivamente il controllo sulla tecnica. Questo apre un campo estremamente instabile, in cui da una parte si creano le condizioni di possibilità di una diversa configurazione, reticolare, cooperativa, post-capitalistica, dall’altra cresce l’esigenza di un disciplinamento dei soggetti a modi di vita uniformi.
Si tratta tuttavia di linee che appena si intravvedono all’orizzonte, essendo oggi la capacità, che ha il sistema capitalistico, di produrre vita soggettiva altamente pervasivo.
 
5. Soggettivazione discorsiva e non discorsiva
Produzione capitalistica e tecnoestetica, nella loro sovrapposizione, costituiscono una macchina che produce vita soggettiva. È lecito considerare questo apparato unitario come un processo di soggettivazione? Se la soggettivazione, come emerge dalle analisi del pensiero di Lacan e Foucault precedentemente condotte, è una procedura di produzione di vita soggettiva che ha a che fare col discorso, può la tecnoestetica, che procede non in modo discorsivo, ma sensoriale, essere trattata come tale?
Forse i termini in opposizione vanno un po’ dialettizzati, nel senso della capacità di vedere qualcosa dell’uno nell’altro. Partiamo dalla soggettivazione. In effetti già nel concetto foucaultiano di dispositivo troviamo l’intersezione fra elementi discorsivi e non discorsivi. Foucault è chiarissimo nel darne la definizione: dispositivo di soggettivazione è «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi elementi»30.
Sempre rimanendo sul versante della soggettivazione anche in Lacan vi è un aspetto non discorsivo del processo: l’entrata del soggetto in via di costituzione nel grande Altro del linguaggio e della cultura comporta la separazione dall’oggetto a piccolo, un resto interamente fuori significante intorno a cui il corpo pulsionale, tagliato nelle sue zone erogene, compie il suo circuito acefalo31. Anche qui dunque la soggettivazione mette in campo fattori discorsivi e non discorsivi.
Veniamo ora sul versante della tecnoestetica digitale. Qui emergono due elementi. Innanzitutto essa è intrisa integralmente di rapporti sociali di dominio capaci di creare vita soggettiva funzionale alla produzione capitalistica digitale. In secondo luogo si può riscontrare anche in essa la stessa duplicità fra esser-soggettivato e soggettivarsi, come si è visto nel paragrafo precedente dall’uso distorcente e straniante della tecnoestetica.
Rimangono tuttavia alcune questioni da affrontare, a cui dedicheremo i prossimi studi.
  1. Analizzare il rapporto fra i dispositivi tecnoestetici di soggettivazione operanti nella produzione capitalistica digitale e i dispositivi di governo neoliberale. Si dovrà quindi tornare su Foucault.

  2. Analizzare il rapporto fra dispositivi tecnoestetici e corpo pulsionale. Si dovrà quindi tornare su Lacan.

  3. Analizzare i dispositivi tecnoestetici e il loro potere soggettivante non più solo sul piano fenomenologico, ma anche alla luce delle metamorfosi sociali introdotte dalla produzione capitalistica digitale.

6. Il corpo tecno-bio-politico e le sue linee di frattura
Per quanto il discorso condotto si sia concentrato inizialmente sulle caratteristiche delle immagini tecnoestetiche, i nessi concettuali hanno inevitabilmente portato alla rete. È forse utile soffermarsi, sia pur sommariamente, sulla storia di questa straordinaria innovazione, che ha letteralmente cambiato la vita degli esseri umani. Tra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta l’informatizzazione procedeva in modo graduale: privati e pubbliche amministrazioni si dotavano di computer. A metà degli anni novanta la possibilità di connetterli in rete, da esperimento su piccola scala, diventa realtà concreta: sorge internet, con i primi modem che occupavano la linea telefonica. Subito apparvero le potenzialità emancipative del sistema: a differenza della televisione l’utente è attivo – si diceva – è possibile fare controinformazione e così via. Contemporaneamente apparvero i progressi della telefonia e la diffusione capillare dei portatili. A conferma di questi discorsi, che vedevano la portata emancipativa di queste innovazioni, sorsero movimenti altermondialisti, per i quali internet fu fondamentale; anche la nascita della letteratura cyber punk e della mitologia anarchica intorno alla figura dello hacker andavano in questa direzione. Successivamente una serie velocissima di innovazioni, sia sul versante degli hardware sia su quello dei software: il perfezionamento dei motori di ricerca, la connessione indipendente dal telefono fisso, il wifi, i social network e infine l’intreccio fra telefonia, tecnologia satellitare e informatica: sono apparsi così gli smartphone. Assistiamo ora allo scambio ininterrotto di informazioni a velocità quasi istantanea fra utenti di ogni parte del mondo, flussi commerciali e finanziari che attraversano il globo, un sistema tecnologico che arriva fino allo spazio: tutto questo ha ormai carattere di sistema. Ciò vuol dire che siamo di fronte ad una realtà emergente32, ossia ad un’organizzazione che non solo non si ritrova a livello dei singoli elementi, ma che li modifica strutturalmente vincolandoli a sé, privandoli di certe proprietà e dotandoli di nuove.
Ogni sistema tuttavia presenta un elevato grado di instabilità: è permeato da forze trasformative e da forze elastiche che tendono a controbilanciarle. Se il sistema agisce sugli elementi producendo capacità operative che essi non avevano o inibendo capacità che essi avevano, è proprio questa azione la forza coesiva del sistema. La tecnoestetica è una di queste azioni, probabilmente la più importante. La sua capacità di modificare i corpi è notevole: richiesta di iperstimolazione sensoriale, abitudine ad una percezione monodirezionale, robotizzazione dello sguardo, atrofia della sintesi cinestetica, inibizione della capacità di esplorazione, inaridimento simbolico, costruzione di fantasmi di desiderio standardizzati, omologazione delle identità soggettive, circuiti sensoriali chiusi fra corpo e dispositivo, bisogno continuo di intrattenimento, incapacità di assumere il vuoto e il silenzio, influenza sulla memoria psicomotoria del corpo, posture condizionate della mano e dell’occhio, acquisizione di immagini spersonalizzate, atomizzazione, virtualizzazione del piano intersoggettivo, dissociazione dell’emotività dalla relazione.
Questi effetti sono strutturalmente connessi alla produzione capitalistica e ai processi di soggettivazione. I tre elementi fanno sistema. La produzione capitalistica è produzione immaginaria e simbolica e con ciò di soggetti. Questa produzione, cominciata nell’industria culturale, avviene oggi nella fruizione tecnoestetica di contenuti digitali; con essa si crea una soggettività impoverita nella percezione, addestrata alla povertà esperienziale, perfettamente fungibile nel consumo e tendenzialmente incapace di trascendere l’esistente. L’innesto fra produzione capitalistica e tecnoestetica si realizza anche rispetto ai processi strutturali di soggettivazione: il desiderio viene funzionalizzato al consumo tramite la produzione di un fantasma serializzato; vengono prodotte identificazioni standardizzate per supplire alla crisi di presenza del soggetto barrato; si costruisce un circuito chiuso biotecnologico che parassita energia pulsionale. Al tempo stesso la produzione capitalistica fa sistema con i dispositivi storici di soggettivazione ossia con la governamentalità neoliberale che interviene giuridicamente per creare una società che abbia la forma d’impresa attraverso l’homo economicus, calcolabile e prevedibile nelle sue azioni. Questi dispositivi a loro volta trovano materiale umano già addomesticato dalla tecnoestetica.
Come si vede tecnoestetica, produzione capitalistica, soggettivazione sono realtà fluide che trapassano e si metamorfizzano l’una nell’altra; ciò rivela l’esistenza di un corpo unico biopolitico33, una macchina globale tecno-bio-sociale, di cui i soggetti sono al tempo stesso i prodotti e gli ingranaggi, ciò che essa produce e ciò da cui è prodotta. Di questa macchina la rete non è una metafora. Essere in rete significa che produzione materiale, simbolica, immaginaria e pulsionale fanno parte di un unico flusso, che questo flusso genera soggettività e ne è generato. Sono sufficientemente potenti oggi le forze trasformative? Sono possibili altri assemblaggi della biomacchina?
Se si analizza la tecnica con categorie heideggeriane, come un orizzonte epocale che si radica nella storia dell’essere a partire dall’inizio della metafisica, come un’essenza che nel tempo presente si rivela, decidendo il destino dell’esserci umano, la domanda risulta priva di senso: all’esserci è dato solo un abbandono e una risonanza con un altro inizio da venire.
Ma la tecnica non è un’essenza isolabile, una forza storica dotata di un’autonoma capacità di direzionamento, per di più originata dall’inizio metastorico della storia. Come si è detto, la tecnica è indissociabile da un complesso di rapporti sociali; è vero che di essi non è un semplice strumento, che su di essi retroagisce, ma è altrettanto vero che con essi fa sistema. Come scrive lucidamente Adorno «fatale non è la tecnica, ma il suo intreccio con i rapporti sociali di cui è prigioniera»34.
Si sono intravviste in effetti, in questo studio e nei precedenti, dedicati a Lacan e a Foucault, alcune linee di possibile frattura del sistema: potenziale cognitivo della rete, uso straniante dei contenuti digitali, determinazione uomo macchina oltre che macchina uomo, strutturale resistenza dei soggetti al dispositivo, eccedenza di un desiderio, di un fantasma e di una pulsione di per sé non assimilabili in un ordine nomologico (sociale o naturale); ma soprattutto incorporazione delle tecniche produttive nella forza lavoro. Questo sistema tecno-bio-politico potrebbe essere molto più instabile ed entropico di quanto si creda.
Ancora Adorno ci insegna che la totalità sociale è un oggetto intrinsecamente dialettico, segnato dalla contraddizione fra il suo aspetto oggettivo di sistema organizzato, retto da leggi impersonali, e il suo aspetto di orizzonte di intenzionalità soggettiva, entro cui opera la capacità di trasformazione consapevole della realtà. Perciò la totalità sociale al tempo stesso è non-totalità sociale. Diseguaglianze, conflitti, devastazione ambientale generano oggi domande di giustizia. Quando sull’instabile corpo tecno-bio-politico le domande di giustizia incontreranno le sue strutturali linee di crisi, le forze trasformative sopravanzeranno quelle elastiche ed avranno finalmente il potere di distruggerlo.

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1 Il concetto di antropogenesi, coniato da Kojève nella sua lettura di Hegel, fa riferimento alla nascita della vita umana (simbolica e sociale) dalla base biologica. Il concetto di soggettivazione fa riferimento non al sorgere della vita umana in generale ma ad una certa forma di vita all’interno dei dispositivi che la codificano. Ora se la condizione dell’antropogenesi è la tecnica e se quest’ultima è intrisa di rapporti sociali di dominio, il discorso scivola inesorabilmente verso la soggettivazione.

2 M. Heidegger “L’epoca dell’immagine del mondo”, in Id. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968 e Id., “La questione della tecnica”, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia 1976.

3 Adorno-Horkheimer , Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 1966.

4 Il termine trae spunto dalla categoria di bioestetica, elaborata da P. Montani (Bioestetica, Carocci, Roma 2007), di cui riprendo alcune analisi, in particolare la tesi di fondo di un’influenza delle nuove tecnologie sull’apparato percettivo in termini di iperestetizzazione e anestetizzazione. Ritengo tuttavia che la loro connotazione in termini di biopotere o di soggettivazione richieda da una parte l’elaborazione di un corpo unico biopolitico, dall’altra una nuova teoria del plusvalore (v. conclusioni).

5 Sintetizzeremo questo assetto con quattro tesi. L’immaginario è merce. L’immaginario rappresenta le merci. L’immaginario è strumento delle merci. La merce è immaginario.

6 K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Dietz Verlag, Berlin 1953, pp. 583-594; trad. it., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1969, vol. 2, pagg. 387-411,

7 M. Hardt – A. Negri, Impero, RCS, Milano 2001; pp. 42-48 e 51-54

8 A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole ; trad. it., Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977.

9 Aristotele, Metafisica, I.1.

10 E. Husserl, Erfahrung und Urteil, a cura di Ludwig Landgrebe, Claassen Verlag, Hamburg 1948; trad. it. Esperienza e giudizio, a cura di F. Costa e L. Samonà, Bompiani, Milano 1995

11 Ivi, trad. it. p. 72

12 Ivi, trad. it. p. 96

13 Ivi, trad. it. p. 102

14 Ivi, trad. it. p. 94

15 F. Nietzsche, “Su verità e menzogna in senso extramorale”, in Opere I, Newton Compton, Roma 1993.

16 Di nuovo da Montani (op. cit. ) riprendo l’esigenza di utilizzare l’estetica kantiana come punto di riferimento contrastivo.

17 Cfr. Tutta l’analitica del bello in I Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999.

18 Cfr, Critica della facoltà di giudizio, cit, Introduzione, §§ 5 e 6.

19 I lavori di Garroni mostrano in modo perspicuo l’intreccio fra estetica ed epistemologia e più in generale fra estetica questione del senso. Cfr. E. Garroni, Estetica ed epistemologia, Bulzoni, Roma (n. ed. Unicopli Milano 1998) e Id., Estetica. Uno sguardo attraverso, Garzanti, Milano 1992.

20 Cfr. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., §49.

21 Cfr. Montani, cit., pp. 95-102.

22 B. Stiegler, De la misère symbolique, vol. 1, Galilée, Paris 2004 e Id, De la misère symbolique, vol. 1, Galilée, Paris 2005.

23 Cfr. G. Miniagio, “Il problema della soggettivazione in Lacan”, in AAVV, Capitale e soggetto, SDF Edizioni, pp. 181-227; anche in http://spazidifilosofia.altervista.org/17-soggetto-e-capitale-doc/29-il-problema-della-soggettivazione-in-lacan, § 4.2 e Id., “Ancora Lacan. La ridefinizione del desiderio come desiderio d’altra-cosa”, §6; in Spazi di filosofia

https://spazidifilosofia.altervista.org/joomla/sezioni/soggetto-e-capitale/59-gabriele-miniagio-ancora-lacan-la-ridefinizione-del-desiderio-come-desiderio-d-altra-cosa

24 G. Miniagio, “Il problema della soggettivazione in Lacan”, cit., §4.1.

25 Ivi, §§ 5.2 e 5.3

26 Come accenniamo nel §5 del presente saggio, i prossimi studi sulla soggettivazione dovranno:

  1. Analizzare il rapporto fra i dispositivi tecnoestetici di soggettivazione operanti nella produzione capitalistica digitale e i dispositivi di governo neoliberale. Si dovrà quindi tornare su Foucault.

  2. Analizzare il rapporto fra dispositivi tecnoestetici e corpo pulsionale. Si dovrà quindi tornare su Lacan.

  3. Analizzare i dispositivi tecnoestetici e il loro potere soggettivante non più solo sul piano fenomenologico, ma anche alla luce delle metamorfosi sociali introdotte dalla produzione capitalistica digitale.

27 S. Freud, Al di là del principio di piacere, Newton Compton, Roma 1993.

28 Scrive Raniero Panzieri: «Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come un involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere semplicemente perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale». Il discorso è valido tanto per la forza lavoro, quanto per le macchine e le tecniche. In altri termini non esiste una neutralità dello strumento, poiché esso è stato plasmato dai rapporti di produzione»; in R. Panzieri, “Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale” in Id., Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi” 1959-1964. Scritti scelti, a cura di S. Merli, Pisa, BFS 199; pp. 54-55. 

29 Cfr. Antonio Negri - Carlo Vercellone. Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo. Posse, 2007, Ottobre, pp.46-56. ffhalshs-00264147f.

30 M. Foucault, Dits et Ecrits 1954-1988, tomo III (1976-1979) Parigi, Gallimard, 2004, testo n° 206 (2001) pp. 298-329.

31 Cfr. G. Miniagio, “Il problema della soggettivazione in Lacan”, in AAVV, Capitale e soggetto, SDF Edizioni, pp. 181-227; anche in http://spazidifilosofia.altervista.org/17-soggetto-e-capitale-doc/29-il-problema-della-soggettivazione-in-lacan, §5.2

32 Cfr. E. Morin, La Méthode. 1. La nature de la nature, Seuil, 1977; trad. it. Il metodo. 1. La natura della natura, Cortina, Milano 2001, in particolare pp. 119-139.

33 M. Hardt – A. Negri, op. cit., p. 42-48 e 51-54.

34 T. W. Adorno, “Tardocapitalismo o società industriale?”, in Scritti sociologici, Einaudi, Torni 1976, pp. 314-330; 322.