Marco Ciccarella e Gabriele Miniagio | Deterritorializzazioni. Un dialogo

MC — Dramma in due atti e un epilogo. Autopoiesi soggettiva di una capitolazione sistemica. Capitale e soggetto, struttura e metamorfosi, genesi e fine di una vanità cosale dell’Io: mondo-delle-cose e proiezione di un Sé. Inganno e superbia, keine Macht für Niemand, ancora interni, ancora intorni. Produzione di identità, tra resti e tracce, ombre e ritorni, perdita e Sé, il Capitale che non si arresta. Di subordinazione in conclusione, macchine, Λόγοι, sopravvivenza e simboli. La scena si apre, Atto I. Origine o destino, genesi o struttura, atto o azione? Il Capitale. La produzione di identità. Fermare la produzione, disarticolare macchine, rigenerare soggettività, compito e dramma. Nomadismo identitario, contro il Capitale!
 
GM — Certo, il soggetto è prodotto, non preesiste all’azione di un codice linguistico e sociale. Dal soggetto alla soggettivazione, dunque. Ma quali sono i campi genetici, i vettori, le forze reali che lo producono? Innanzitutto il nesso tra discorso e funzione enunciativa: i regimi discorsivi sono matrici che generano una combinatoria di molteplici enunciati logicamente possibili, a ciascuno dei quali corrisponde un soggetto di enunciazione; ciò che è detto e chi parla non sono che attualizzazioni reali di questa combinatoria. In secondo luogo gli effetti di potere del discorso: i regimi discorsivi si fanno dispositivi, si esercitano sui corpi al fine di disciplinarne le performances. Ma, per uno strano meccanismo di dispersione, per un’evenienza entropica, il soggetto prodotto non è un automaton di queste due matrici. Da una parte il luogo dell’enunciazione rimane insaturo, si differisce in un continuo ancora da dire. Dall’altra il corpo pulsionale, nel godimento della propria singolarità, resiste alla presa delle norme che lo hanno prodotto. La struttura, se c’è, è qualcosa che si detotalizza. Il soggetto, se c’è, è un resto adialettico, un effetto che quella non riassorbe. Soggettivazione: produzione di soggetti, disciplinamento di corpi e al tempo stesso evento di singolarità eccedenti. E il Capitale?
 
MC — Altro dall’Altro e Altro dell’Altro, struttura e sottrazione. Ogni matrice contamina inintenzionale e sovrana la sovrapproduzione soggettiva di senso. È un gorgo rappreso il differenziale identitario tra Io e mondo-delle-cose, è un oltre sempre presente e sempre sottrattivo. Sottrazione del Sé tra corpi, pulsioni, volontà di potenza e inetta raffigurazione di un intorno che già da subito si staglia comunitario. Ancora interno e già intorno di un segno che ha già in altro la propria eteropoiesi identitaria, come uno sguardo irriconosciuto di un proprio mai stato. Pre-egologia vettoriale e Capitale. Prodotto o produttore, soglia o varco, comunque linguistico, comunque produzione simbolica del segno che si fa carne, di un Io che è, perché continuamente Altro. Produzione di identità, resti, scarti, tracce, di segni e di oltre, di maschere e di incubi. Il Capitale come l’immensa produzione di refusi identitari, venduti e spacciati, il banco di pegni di un Io ancora mai stato. Nomadismo identitario. E il Soggetto?
 
GM — Genesi del soggetto e non dal soggetto: questo è lo scarto rispetto alla fenomenologia. Fintantoché ci si applichi su atti e correlati di un polo io già dato, si tradisce la radicalità della nozione di genesi, che dovrebbe torcersi prima di tutto contro ciò che ci ostiniamo a chiamare soggetto.  Ma il processo di soggettivazione accade a partire da una struttura che non assimila il soggetto che pure produce, che non gli riserva un posto predeterminato. Il soggetto si configura così come un residuo e la soggettivazione come una strana macchina, la cui funzione è non funzionare, ossia produrre resti. Questo vale tanto per il nesso fra discorso e funzione enunciativa, quanto per il nesso fra discorso e corpo. E l’intorno?
 
MC — È sequenza vettoriale, dismissione continua di Sé, preda che si fa predatore identitario, che svuota il proprio per farne Altro, sistemico e funzione di profitto, ancora Capitale, già Capitale di una linea temporale ininterrotta di simboli, con un prima che era fin da subito il dopo. Questa è l’autopoiesi di un Io sedotto e rapito, circondato da un mondo-delle-cose che ne governa continuità ed eteropoiesi, caduto nel sogno di unicità e differenza, rimasto indifferenza e ripetizione di un simulacro mai proprio. Fine e confine. Specchio e regresso. È il non essere più quel che mai è stato, possibile teleologia entropica del divenire da profitto. Interno e intorno. Da subito, mai altro. L’intorno è interno emorragico, un abisso centrifugo verso maschere e matrici. E allora le tracce sono sequenze egologiche di possibili Sé, venduti e stirati a nuovo, ripetuti e consunti a morte. Il Capitale celebra e produce, fine in altro, consumo e dismissione. E l’interno?
 
GM — All’interno la traccia dell’intorno è forse il tempo. Ma si può parlare di tempo al di fuori dell’attività costitutiva della coscienza ? Si può dare un passato senza l’operazione soggettiva del ricordo? E un futuro senza l’operazione soggettiva dell’attesa? L’essere, in sé considerato, non è forse tutto qui, presente, e il tempo non è forse un prodotto soggettivo, un’autoaffezione innescata dalle sue operazioni di percezione, ritenzione e protensione? Interroghiamo il movimento. È evidente che senza tempo non ci sarebbe  traiettoria, il terminus a quo e il terminus ad quem coinciderebbero; non avremmo un oggetto che si muove ma un oggetto deformato, esteso fra l’uno e l’altro. Ciò detto il problema è: questo tempo, ossia il tempo del movimento, è esclusivamente soggettivo? È il prodotto della ritenzione e della rimemorazione? O c’è dell’altro? La ritenzione trattiene nell’adesso un’impressione appena percepita; essa fa avanzare il punto ora passato nel presente. Ma nel caso del movimento la situazione è differente, poiché questo durare del passato nel presente è proprio ciò che non deve aver luogo: se l’ora passato (che coincide con un lì) durasse nell’ora presente (che coincide con un qui) l’oggetto non si muoverebbe, ma si allungherebbe, ossia sarebbe qui e lì, esattamente come se il tempo non ci fosse. Nel movimento, insomma, il passato deve avere il carattere del non-più, il che è l’esatto contrario dell’ancora ritenzionale: perché movimento sia percepibile, questo ancora ritenzionale deve essere fuori gioco. Non è dunque la coscienza ritenzionale a generare il tempo del movimento, poiché essa non produce il non-più, ma anzi lo contrasta. Veniamo alla rimemorazione. Essa riproduce un’impressione passata nel presente pur senza la continuità con la nuova impressione, tipica della ritenzione: anche in questo caso è un’operazione memorativa, ossia della coscienza, a far avanzare il punto ora passato nel presente. Ma, ancora una volta, ciò non coglie il movimento: la rimemorazione è discontinua, mentre il movimento è continuo: la rimemorazione non è in gioco nella percezione del corpo che si sta muovendo. Ma non potrebbe darsi che il tempo del movimento sia il prodotto combinato di ritenzione e rimemorazione? Che la prima produca ciò che manca alla seconda? La rimemorazione produrrebbe quel non-più-lì che manca al presente vivente della ritenzione e la ritenzione produrrebbe quell’ancora che manca alla linea discontinua della rimemorazione: mi ricordo che l’oggetto è partito da lì e lo sto ancora vedendo nel suo muoversi e nel suo abbandonare il qui e ora. Questa obiezione non considera un dato elementare: la sintesi della coscienza costitutiva di tempo non potrebbe ritenere il punto ora senza che questo sia passato; e lo stesso si dica della rimemorazione; ma esse sono impotenti a far scivolare il punto ora nel passato, anzi contrastano questo scivolamento. Il nodo è sempre lì: il passato che passa non è opera della coscienza che trattiene. Siamo dunque confrontati a questo carattere di consumazione del tempo di cui la coscienza, che trattiene o ricorda, non è l’origine. Certo, si potrebbe controbiettare che il nuovo punto ora è il prodotto della protensione soggettiva e che dunque il tempo resta un’autoaffezione del soggetto. Ma ancora una volta questo non risolve il problema: fintantoché lo aspetto, il nuovo punto ora non viene al posto di quello presente, così come non è il mio trattenerlo nella rimemorazione che lo fa andar via. Ecco quindi il dato: il nuovo punto ora viene al posto del vecchio che se n’è andato, ma questo venire e andar via non sono un prodotto della coscienza. È in effetti una bizzarria tutta moderna pensare il tempo a partire dalla memoria e dall’attesa anziché il contrario. Memoria e attesa non si darebbero senza una serie di punti ora che si consumano e si rinnovano. Il soggetto è così detotalizzato dal suo altro, il tempo. L’interno si apre all’intorno. Sta nel tempo il segno della trascendenza, ma questo ha un prezzo chiamato finitezza. Shiva, Dioniso, potenza di ciò che consuma e rinnova. E l’immagine?
 
MC — È l’immagine del Sé che riverbera nelle cose, ognuna status, proiezione, altro e raccordo. Tra Sé e Sé, tra altro e altro, trasmigrazione della dimenticanza. Dimentichi di una origine dall’oltre, oltre e intorno, Sé e interno. E allora l’autocostituzione dell’Io si scarnifica nel proprio mondo-delle-cose, da specchio a varco senza ritorno e senza sosta, in una mancata corrispondenza tra immagine di un voluto e rappresentazione di un negato. Il mondo-delle-cose nega ciò che promette, vìola la proprietà identitaria, riluce di altro, annega di Sé. È perdita e sottomissione, negligenza costitutiva, è un Sé passato da altro, passato ad altro. L’Intorno sfigura l’Interno, si fa occasione, si fa struttura, accoglie interni e li dissolve. Il mondo-delle-cose è il passato che non era, è il futuro che non sarà, è la promessa mancata di un’identità plenaria, di una volontà di potenza che raccoglie i suoi pezzi e arretra, è promessa e dannazione, è negazione e raccolta, è disgregazione in luogo di identità. Sé e insaturazione, non-luogo a procedere, a scavare detriti e maschere di Sé, di ritenzioni di un voler-essere-ancora, di un voler-essere-altro. E la negazione?
 
GM — La negazione è un falso piano che viene da un falso pieno, corpo-uno mai avuto se non nel fantasma. La negazione è l’ombra che l’accompagna, come il nano con Zarathustra. Ma se il registro della negazione è immaginario, la domanda investe da sempre la differenza. Primo, la differenza di cui il corpo è latore, differenza tra vortice localizzatore dell’aisthesis e oggetto del mondo. Vedere ed esser visto, cacciatore e preda, Diana e Atteone, Dioniso e Penteo. Sono già fuori nel mondo, il mondo è già dentro. Secondo, le differenze interne ai campi di variazione (tutti gli animali nella combinatoria delle anatomie possibili) e fra un campo di variazione e un altro (gli animali, i fonemi, i sistemi di parentela, i rapporti di produzione). Differenza che soggiace al continuo. Differenza come differenziale. Terzo, la differenza come differimento. Il significante si differisce nelle sue occorrenze, il soggetto nelle sue enunciazioni, l’istante nel doppio gorgo della consumazione e del rinnovo. Quarto, la differenza come taglio del corpo, rapina di godimento, iscrizione di un vuoto che non è negativo ma causativo, dinamico: pulsione e oggetto a. Differenza come esposizione all’Altro. E l’oggetto?
 
MC — Si simula, si riempie, si struttura ad Altro costituente. È il pieno di un vuoto, l’Io. È maschera e detrito, varco e fuga. È deriva autopoietica di un soggetto centrifugo, svuotato da un Intorno a cui non ha saputo far fronte, a cui non può far fronte, Gegenstand. Lo star-contro come estensione proiettiva di un interno in dissolvenza, partenza e arrivo, fine e con-fine. L’oggetto è differenza e continuità, simulacro psicotico di un Io tutto fuori, mondo-delle-cose come regno di una alienazione strutturale e continua, come uscita, come bipolarità riassorbita tra Interno e Intorno. Consumazione e rinnovo segnano il codice autopoietico, tratto de-formante di identità differenziale, come Sé, come Altro, come oltre tra pieno e vuoto. È corpo proiettato, estensione di un voler-essere raggiunto, confine di Sé irriconosciuto e sostituibile, una corona di cose, spine identitarie sempre estroflesse. Andata e ritorno, perdita. L’ombra si eleva a struttura, la negazione si raccoglie nell’identità, la maschera è il confine che si vuol-essere, il riflesso di una distopia creduta mondo, tra scarti e raccolta, codici e superamento, nascite e tragedia. E la maschera?
 
GM – Se l’essere nella metafisica moderna si dà come rappresentazione a un soggetto, dominio tecnico sul mondo, la maschera ne è il fatale contraccolpo. Il pensiero calcolante, operazionale, protocollare, concepito per la manipolazione del reale attraverso la manipolazione di simboli, finisce per fare del soggetto un feticcio, ultimo patetico vaniloquio dell’umanesimo antiscientista. Il soggetto, atto del distinguere sé da un essere oggettivo, movimento che lo nega e lo trasforma, non c’è più. Al suo posto il simulacro della mente naturalizzata, sostrato di competenze operative, macchina da performances cognitive del neocapitalismo. Che il capitalismo produca merci oltre che soggetti, è ormai è chiaro. Tutto sta a comprendere attraverso quali strumenti esso funzioni. Tre tipologie di strumento: meccanismi di controllo, strategie non discorsive di soggettivazione, dispositivi discorsivi. Tre epoche: il protocapitalismo industriale, la società dei consumi, il capitalismo cognitivo. Il protocapitalismo industriale, quello esaminato da Marx e da Lenin, funziona prevalentemente con la prima tipologia: coazione al lavoro, apparati polizieschi a servizio del capitale, repressione. Il capitalismo della società dei consumi funziona prevalentemente con la seconda: usare il desiderio in funzione di un sistema sociale di bisogni, servirsi del consenso in luogo della repressione. A margine dell’una e dell’altra epoca, dell’una e dell’altra strategia, il grande disciplinamento dei dispositivi discorsivi, dei saperi-poteri che preparano il terreno a entrambe, producendo soggetti conformi alla norma. Ma col capitalismo cognitivo i dispositivi discorsivi si fanno istituzione, programmi di governo, realizzati dai sistemi d’istruzione, ai quali la produzione dei soggetti è affidata (alla faccia della scomparsa dello stato!) In questo modo il pedagogismo delle competenze realizza, implementa quel modello di mente macchinica e operazionale che esso enuncia teoricamente. L’ultima maschera è insomma la macchina. La menzogna sta qui non nella maschera, ma nel far credere che essa sia l’ultima. E l’ultima non in ordine di tempo, ma ontologicamente, quasi che con la naturalizzazione del mentale a competenze operative si sia giunti finalmente al volto, che la scienza cognitiva abbia finalmente disvelato il che cos’è del soggetto. Ma la verità di questi asserti scientifici è l’uso che se ne fa. E qui siamo di fronte non alla conoscenza disinteressata del fenomeno “mente”, ma ad una costruzione teorica in vista di precise strategie di controllo. Strappare l’ultima maschera è allora rilanciare il gioco infinito delle maschere, disidentificarsi dal feticcio della mente naturalizzata per divenire sempre altro, positivizzare l’incompiutezza dell’autodesignazione, differirsi infinitamente nel non luogo della funzione enunciativa, godere di un corpo non assimilato integralmente dalle norme sociali che lo hanno marcato. E l’eterno ritorno?
 
MC — È il mimetico ripetersi identitario. È il conflitto binario tra un interno entropico e un intorno ipostatizzato. L’elezione normativa dell’es-proprio autopoietico, una sequenza di produzione identitaria di massa, il suo riempimento a sistema, la codificazione di una disarticolante messa in mora dell’identità. Produzione, registrazione, vendita. Io come maschera ultima dello scacco conflittuale, la macchina di ripristino del Capitale, disposizione di consumo, posizione di potere alienante, è l’esser-altro continuo, la sua realizzabilità, la nemesi soggettiva. Identità e differenza, registrazione e consumo. La produzione di identità del Capitale dispone struttura, pianifica soggettivazione, raccoglie intorni e maschere di regime. Contro il Capitale, contro la maschera di regime, contro l’eterno ritorno di un intorno mimetico e normativo! Maschere in violazione dell’identico ripetersi del consumo, tracce in disarticolazione della produzione identitaria eteronoma, detriti che sabotino la Macchina, codici che rigenerino inappartenenze, Altro, sempre altro. Ogni maschera che soffochi la precedente, ogni volto che disveli il successivo. Nomadismo identitario. (E la fine?)