Gabriele Miniagio | Il problema della soggettivazione in Lacan

  1. La logica della soggettivazione: Lacan e Foucault
 
Il concetto di soggettivazione ricorre oggi in numerosi dibattiti, in cui si intrecciano filosofia, scienze sociali, psicanalisi e gender studies. Ma che cosa si intende precisamente con questo termine? Qual è la sua rilevanza teorica?
Per rispondere dobbiamo gettare un rapido sguardo alla sua storia, con particolare attenzione al momento in cui è stata codificata la sua grammatica logica di base. Artefici di tale codificazione sono stati Lacan e Foucault.
Per soggettivazione essi intendono due processi:
 
1) il processo attraverso cui viene prodotto un soggetto (soggettivazione come essere-soggettivato);
2) il processo attraverso cui il soggetto si costituisce nella propria singolarità (soggettivazione come soggettivarsi).
 
Questa duplicità di significato ricorrerà nei dibattiti successivi, influenzandone le linee di sviluppo teoriche.
Entriamo ora più nel dettaglio. Per quanto riguarda il primo processo, il problema consiste nel comprendere chi o che cosa abbia questo potere di generare il soggetto e a partire da quale base reale. Lacan e Foucault su questo punto sono d’accordo: esso è prodotto dall’azione del discorso sul corpo. Il soggetto, dunque, contrariamente alla tradizione moderna (cartesiana, kantiana, fenomenologica), non è un dato primo, ma un effetto del discorso. Per quanto riguarda il secondo, la soggettivazione consiste nell’acquisizione di una singolarità irriducibile, quella di soggetto corporeo e di soggetto di enunciazione.
Sorge però una serie di interrogativi: questi due significati non sono forse in contraddizione fra loro? Come si conciliano l’eteronomia e l’autonomia, a cui essi sembrano rispettivamente far riferimento? Non è forse il concetto di soggettivazione qualcosa di equivoco, che chiama in causa due processi logicamente e realmente incompatibili fra loro?
Ora Lacan e Foucault concepiscono l’esser-soggettivato e il soggettivarsi secondo una logica non-binaria, non-disgiuntiva[1]. Entrambi, pur su terreni epistemici diversi, sostengono che il soggetto in tanto si soggettiva in quanto è soggettivato e viceversa, secondo una struttura ricorsiva in cui le due operazioni sono perfettamente complementari.
È evidente a questo punto quale sia l’interesse del concetto di soggettivazione all’interno di un percorso teorico che si occupi del rapporto fra soggetto e capitalismo. Nel mio studio precedente[2], infatti, era emerso che il capitalismo si configura come produzione non solo di merci, ma anche di soggetti. Alla luce di ciò si pone una domanda: se i soggetti sono già presi, formattati, codificati entro forme d’esistenza decise in anticipo dai dispositivi dell’economia capitalistica, come è possibile che alcuni di essi vi resistano?
Ecco allora l’utilità teorica di questo concetto: se la struttura non binaria, non disgiuntiva, che tiene insieme esser-soggettivato e soggettivarsi, fosse applicabile al rapporto soggetto-capitale, la resistenza al capitalismo da parte dei soggetti che esso stesso produce non sarebbe un dato contraddittorio e impensabile e farebbe anzi parte della logica interna al suo potere generativo, lasciando aperti in questo modo non trascurabili spazi di opposizione. Si tratterà naturalmente di vedere se e come sia possibile trapiantare questa struttura dal terreno della psicanalisi (Lacan) e della genealogia dei saperi-poteri (Foucault) ad una critica del capitalismo.
In questo studio mi occuperò di indagare il problema della soggettivazione in Lacan e passerò all’indagine su Foucault in uno saggio successivo. In un terzo momento cercherò di mostrare come si possa utilizzare la logica non binaria della soggettivazione in una critica del capitalismo.
Prima di procedere occorre precisare un punto: la logica non-binaria, che tiene insieme esser-soggettivato e soggettivarsi non è di tipo dialettico; il soggetto è un effetto della struttura, ma in quanto singolarità essa sembra non contenerlo più: manca dunque quell’essere interno degli opposti l’uno all’altro che è caratteristico della dialettica. Questa logica a-dialettica del resto è in se stessa il cuore del problema della soggettivazione: per quale meccanismo di dispersione, per quale forma di entropia – se è lecito esprimersi con questi concetti mutuati dalla fisica – i soggetti non sono integralmente sussumibili entro il codice linguistico e sociale che li genera? Perché esso dà luogo a qualcosa come resto, una singolarità irriducibile e inassimilabile?
Vedremo che in Lacan il problema andrà posto su due versanti: da una parte l’enunciazione e l’evento occasionale della Parole (§4), dall’altra la problematica del corpo pulsionale e dell’oggetto a (§5).
 
  1. Il problema della soggettivazione e l’evoluzione del pensiero lacaniano
 
La soggettivazione è investigata da Lacan in tre momenti diversi della sua riflessione:
 
1) la dialettica intersoggettiva del desiderio (momento umanistico, hegelo-kojeviano);
2) il grafo del desiderio (momento cosiddetto “strutturalista”[3]; Seminari V e VI);
3) l’irruzione del tema del godimento (Seminari VII, X e XI).
 
Il primo momento risale agli scritti degli anni Quaranta ed è segnato dal confronto con Hegel e Kojève: il soggetto è qui generato dal desiderio dell’Altro, inteso come Altro in carne e ossa.
Nel secondo (anni Cinquanta) l’Altro si disantropomorfizza, per divenire il sistema della lingua e della cultura: la posta in gioco è la presa di questo sistema anonimo sul corpo e la risposta che ne viene in termini di effetto-soggetto.
Nel terzo s’impone la tematica del reale e del godimento; il centro teorico si sposta progressivamente intorno alla questione dell’oggetto a.
Questi tre momenti non sono semplici fasi del pensiero lacaniano, poiché ciascuno è assorbito e rimodellato dal seguente. Per comodità, tuttavia, articolerò la mia analisi in tre tappe distinte[4].
 
  1. Il primo momento: soggettivazione, desiderio, riconoscimento.
 
In questo primo momento la parola soggettivazione non è esplicitamente usata. Sono tuttavia presenti i meccanismi di generazione del soggetto e di costituzione di quest’ultimo nella sua singolarità, meccanismi che nelle due fasi successive saranno esplicitamente chiamati con questo termine.
Ora, in questa fase la soggettivazione si svolge quasi integralmente entro i registri dell’immaginario e del simbolico. L’immaginario è investigato nel celebre stadio dello specchio, in cui si vede la capacità che ha l’immagine del corpo di dare una prima strutturazione. Il simbolico invece, con riferimento a Hegel e Kojève, è concepito come lo spazio intersoggettivo della parola rivolta ad un Altro in carne e ossa, dal cui riconoscimento l’esserci del soggetto dipende.
 
3.1. L’immaginario
 
Cominciamo con l’analisi del problema alla luce dell’immaginario. In esso, come si è accennato, si attua una dinamica di identificazione del corpo in un’immagine. Ora l’immagine prima e fondamentale è quella che ad un certo momento il bambino o la bambina vedono allo specchio: a fronte della loro impotenza motoria, a fronte di un corpo che è letteralmente in frantumi[5] – il movimento delle singole parti non è ancora sotto controllo perché non si è costituito lo schema corporeo –  l’immagine allo specchio dà una prima forma di unità[6]. È per questo che, quando il bambino o la bambina la vedono, giubilano, visibilmente soddisfatti[7].
Questa prima immagine viene quindi libidicamente investita; al tempo stesso il soggetto vi si identifica. L’io non ha dunque nessun primato; esso non è altro che il prodotto di un’identificazione a un’immagine, che ha così un vero e proprio potere costituente[8].Tale identificazione, tuttavia, non è stabile: l’immagine non posso vederla se non esteriorizzata[9], non posso coincidervi in tutto e per tutto; essa è qualcosa di sfuggente, qualche cosa che si dà da sempre come già sottratta[10]. Perciò se il soggetto si aliena nell’immagine del proprio corpo, questa alienazione è fragile: da essa lo separerà sempre uno scarto.
Ciò innesca una dinamica che lo porterà a cercare tutta una serie di nuove identificazioni, anch’esse votate allo scacco, in una sorta di io fatto a cipolla, al cui centro non vi è propriamente niente[11]. Fra queste immagini vi sono quelle di cui l’altro è portatore e di cui il soggetto vorrebbe vanamente impossessarsi al fine di coincidervi: l’aggressività nasce proprio da questa immagine, che si detesta proprio per l’impossibilità di farla propria[12].
 
3.2. La soggettivazione nel simbolico.
 
A fronte delle vicissitudini costituite dalle identificazioni immaginarie, esiste un secondo terreno su cui la soggettivazione è possibile; si tratta del simbolico.
Il campo del simbolico è quello della parola indirizzata all’Altro e dall’Altro ricevuta. L’essere del soggetto è qui un prodotto dell’atto di riconoscimento compiuto dall’Altro per il fatto stesso di rivolgergli la parola[13]. Ora questa dinamica ha come innesco il desiderio.
Il desiderio, come lo concepisce Lacan, non ha niente a che fare con l’oggetto del bisogno, che è incapace di suscitarlo e di soddisfarlo. Esso, infatti, è sempre desiderio dell’Altro[14]: ciò che desidero è il suo stesso desiderio; da lui desidero essere desiderato, ossia essere riconosciuto come soggetto, in modo tale da poter essere in modo diverso da quello della cosa.
Lacan riprende qui l’interpretazione che della Fenomenologia dello spirito di Hegel aveva dato Kojève: il soggetto è il movimento del distinguersi da un essere oggettivo, il movimento che lo nega, lo consuma e lo assimila. Esso, tuttavia, ad un certo punto incontra una x che non riesce a negare come cosa, perché questa x presenta il medesimo movimento negativo; si tratta evidentemente dell’Altro, del Tu. Il soggetto vi riconosce sé. Dopodiché desidera che anch’esso lo faccia, che lo riconosca come soggetto, come movimento negativo, come non-cosa. Ma per far ciò l’Altro deve a sua volta desiderarlo: se riconoscere significa vedere in un tu le caratteristiche del proprio sé e viceversa, per riconoscere il primo soggetto, che lo desidera, l’Altro deve determinarsi anch’esso come desiderante. Esser riconosciuto dall’altro significa dunque esser desiderato; desiderare di esser riconosciuto significa desiderare di esser desiderato.
La progressione dialettica è quindi questa: la negazione si fa riconoscimento, che si fa desiderio di riconoscimento, che si fa desiderio di desiderio; tutto ciò immette il soggetto in un piano intersoggettivo, l’unico in cui la sua negatività di partenza possa trovare una qualche consistenza, l’unica barriera che sia posta al suo potere di dissolvere: desidero esser desiderato, in modo da potermi distinguere dalla cosa e da poter nello stesso tempo, in qualche modo, “essere”. Ma questo “essere” non è niente di presenziale, è intessuto di quella negatività da cui si origina e nel cui cieco movimento ricadrebbe senza l’Altro. Il prezzo da pagare per sfuggire al rango di cosa e per non precipitare nella negazione infinita è di consegnarsi integralmente a questo statuto intersoggettivo del desiderio: il soggetto c’è come soggetto fintantoché sia riconosciuto dall’Altro e viceversa; allo stesso modo in cui due semiarchi si reggono nelle spinte reciproche, solo nell’intersoggettività dei desideri soggetto e Altro sono.
Io non ci sono in quanto soggetto umano fino a quando la parola dell’altro non si sia indirizzata a me e viceversa. Non ci sono fino a che non sia entrato nello spazio dello scambio simbolico. Il soggetto dell’inconscio è dunque soggetto di desiderio. La soggettivazione è l’entrata nello spazio simbolico della parola. La parola piena è quella che si sostiene nel desiderio dell’Altro, la parola vuota è quella che si appoggia ad un altro immaginario e narcisisticamente costruito, secondo le dinamiche che sono emerse nel paragrafo precedente.
È in questa prospettiva che nello schema L[15] il registro del simbolico e quello dell’immaginario si contrappongono. La cura psicoanalitica non ha quindi il compito di restaurare un io trionfante[16], ma di riattivare il simbolico contro le illusioni delle identificazioni immaginarie. Essa produce una de-identificazione e ristabilisce un soggetto esposto all’Altro e alla dialettica del desiderio, un soggetto che riscopre così la fragilità di ogni identificazione immaginaria e un’attitudine infinita all’interpretazione.
Insomma, si può dire che il simbolico produce una disalienazione[17] rispetto all’alienazione immaginaria e dinamizza un processo di soggettivazione che quest’ultimo tende a fissare; esso reintroduce il divenire, la differenza là dove c’era l’essere e l’identità.
 
3.3. Il fallo come oggetto non-presenziale.
 
Ciò detto, il discorso sul simbolico e la soggettivazione non potrebbe essere completo senza fare riferimento alla funzione paterna. In effetti la barriera che impedisce l’accesso al desiderio non si trova soltanto nell’immaginario, ma anche nel reale, ossia nel godimento del corpo della madre. L’interdetto dell’incesto, che la funzione paterna impone, ha l’effetto di separare il corpo del bambino o della bambina da quello della madre (“Tu non giacerai con tua madre”, “tu non riassorbirai il tuo frutto”)[18] e di aprire così l’orizzonte dei molteplici legami sociali attraverso una maturazione del desiderio[19]. Lacan riprende qui il tema di Levi-Strauss del tabù dell’incesto come limite fra natura e cultura: l’accesso al mondo umano, quello della parola e dello scambio sociale, è pagato al prezzo di rinunciare al godimento del corpo della madre. La Legge del padre è dunque la condizione di possibilità del desiderio in quanto desiderio dell’Altro, dell’attivazione della capacità simbolica, dunque della soggettivazione.
È questo lo spazio della castrazione: la funzione paterna distrugge l’illusione del bambino o della bambina di fare corpo unico con la madre, distrugge la costruzione immaginaria che egli/ella possa esserne il fallo.
Il fallo svolge qui un ruolo fondamentale: esso è ciò di cui il soggetto, in rapporto al corpo della madre, non è provvisto; in questo senso, puramente simbolico e funzionale, il soggetto è castrato, al di là del pene come organo o delle narrazioni immaginarie (la presunta minaccia di evirazione per il bambino, la presunta invidia del pene per la bambina). Questa funzione, allontanando il soggetto dal corpo della madre, permette l’accesso alle molteplici relazioni sociali e al campo del desiderio in quanto tale.
A reggere tutto il sistema sociale è dunque il fallo, funzione che opera sul soggetto in quanto ad esso sottratta: l’immagine che adotta Lacan è quella dell’affresco di Pompei, in cui esso è velato.
Il fallo è dunque l’oggetto non-presenziale per eccellenza; il paradosso è che è proprio questa non-presenza a innescare il processo di soggettivazione. Questo paradosso sarà ripensato e approfondito da Lacan nell’oggetto a[20].
Un’ultima considerazione: in questa dinamica l’altro in carne ed ossa protagonista del processo di soggettivazione non è tanto il padre reale, ma la madre, nella sua alternanza di presenza-assenza, nel suo fort-da; l’accesso al simbolico è garantito dal fatto che essa non è tutta-madre.
Possiamo ora trarre le fila del discorso. In questa prima fase del pensiero lacaniano il processo che poi sarà chiamato soggettivazione già presenta la duplicità e l’ibridazione reciproca fra esser-soggettivato e soggettivarsi. Il soggetto infatti non sussiste prima di entrare nello spazio simbolico: è il riconoscimento dell’appello, che la sua parola rivolge alla parola dell’altro, a costituirlo in quanto soggetto. Il desiderio di essere riconosciuto non è concepibile al di fuori della rete intersoggettiva del discorso: in questo senso esso è soggettivato. Ma è in questa rete che il soggetto si costituisce nella sua singolarità, nel suo essere il tu del riconoscimento: in questo senso esso si soggettiva.
Pur su un terreno ancora umanistico e dialettico vediamo in atto entrambe le dimensioni della soggettivazione e la loro relazione reciproca. Non vediamo ancora, però, quella logica del resto, che maturerà con il secondo ed il terzo momento.
 
  1. Il secondo momento: il grafo del desiderio e la soggettivazione nella contingenza della Parole.
4.1. Il buco nel simbolico
 
La seconda fase del pensiero lacaniano ci confronta con una rottura epistemologica, dovuta al confronto con lo strutturalismo linguistico (Jakobson) e antropologico (Levi-Strauss): l’Altro non è più il polo del riconoscimento intersoggettivo, il Tu singolare, ma un campo a-soggettivo di leggi che regolano la combinatoria dei significanti e il mondo della cultura. Ciononostante è proprio il suo impatto sul corpo vivente a produrre qualcosa come un soggetto.
Il celebre e controverso grafo nei Seminari V e VI mostra questo processo di soggettivazione come innescato dalla struttura e al tempo stesso come capace di dar vita ad una singolarità non assimilabile ad essa. Esso ripropone dunque, su un terreno diverso, la complementarità fra esser-soggettivato e soggettivarsi; ma già matura quella logica del resto a cui si era fatto cenno.
Ecco qui di seguito il grafo in questione[21]. 
 
 
                                 
 
Questo grafo sovrappone tre momenti logici. Nel primo[22] il corpo del bambino e della bambina entrano in quanto soggetti di bisogni (e dunque non ancora in quanto soggetti). Ora nell’essere umano, il bisogno fin da subito viene in qualche modo detto, sia pure sotto forma di grido: un messaggio viene indirizzato all’altro materno e una catena significante cattura così il soggetto in via di costituzione.
Ecco qui di seguito il primo livello: il soggetto, per immettere un messaggio, S(A), nella catena significante, deve passare attraverso il codice, A.
 
                         
 
Si realizza così un’alienazione dal piano animale[23], una denaturalizzazione dell’essere umano per il fatto stesso di parlare. Il soggetto non ha più accesso ai propri bisogni e alla possibilità di soddisfarli se non dicendoli: passando attraverso la domanda e la sua struttura significante, il bisogno viene rimodellato dalle leggi della cultura e del linguaggio[24], secondo meccanismi non più semplicemente biologici. Questo ha una conseguenza immediata: l’esperienza delle cose non si dà più in modo  pre-linguistico, ma avviene sempre attraverso il filtro cognitivo dei significanti: ciò è reso in modo efficace dalla frase di Hegel, che Lacan riprende, secondo cui il simbolo è l’uccisione della cosa[25].
Ma non è tutto. Dovendo far passare il che-cosa del bisogno attraverso il chi a cui la domanda si rivolge, il soggetto deve necessariamente fare i conti con l’altro. Con questo passaggio siamo al secondo livello del grafo[26], in cui l’attenzione si sposta dall’enunciato al fatto stesso dell’enunciazione. Questo altro è in un primo momento incarnato da colei che fa venire la parola, da colei che risponde ai (proto)significanti del soggetto; si tratta evidentemente della madre: è lei il termine correlativo di quell’articolazione linguistica in cui il soggetto è ormai irreversibilmente entrato[27].
Ora, la madre, come insegna Freud in Al-di-là del principio di piacere, si rivolge al soggetto in un’altalena di presenza e assenza, in un continuo fort-da. Questo dà modo al soggetto di maturare il suo desiderio per lei, che è desiderio che lei ci sia (da), che gli rivolga la parola, è insomma desiderio del suo desiderio.
Ma il desiderio della madre, proprio in virtù di quell’assenza (fort) che ha innescato nel soggetto il desiderio per lei, è qualcosa di enigmatico. Il soggetto in via di costituzione le rivolge così una implicita domanda: “Che vuoi?”.
 
                                
 
Possiamo vedere come in questo secondo livello la domanda si sia essa stessa trasfigurata, denaturalizzata, ruotando non più intorno al che-cosa, ma al chi. L’incapacità dell’oggetto del bisogno di colmare in tutto e per tutto la domanda ha come resto il desiderio. Il corpo naturale, passando attraverso la domanda e l’articolazione linguistica, diviene così soggetto di desiderio.
Per indicare questo risultato Lacan, nella Significazione del fallo, usa una formula più ellittica: egli dice che il desiderio è ciò che risulta dalla sottrazione del bisogno alla domanda[28]. La domanda infatti ha due direttrici, una verso il che-cosa dell’oggetto del bisogno e l’altra verso il chi dell’articolazione significante, attraverso cui essa si rivolge all’altro;  essa è dunque una struttura complessa e insatura, per via dell’impossibilità della prima di soddisfare la seconda; il desiderio è esattamente questo scarto, questa differenza che resta attiva e operante.
Ma torniamo all’enigma del desiderio della madre. Esso è tale per una ragione che riguarda la struttura di fondo della civiltà, ossia l’interdizione dell’incesto: il godimento del corpo della madre è vietato, con la conseguenza che il soggetto dovrà rivolgere altrove il proprio desiderio, entrando così in un sistema sociale complesso.
Per queste ragioni l’incontro col chi, con la direttrice del desiderio, il proprio e quello della madre, è per il soggetto un vero e proprio trauma; esso subisce infatti due scacchi. Il primo, che abbiamo già visto, consiste in questo: il soggetto non comprende il desiderio della madre, non c’è una cosa capace di darglielo; neanche lui/lei è in grado di esserne pienamente oggetto, neanche lui/lei può esserne il fallo. Poiché il soggetto vive come precario ed enigmatico il desiderio della madre nei suoi confronti e poiché il suo statuto di soggetto è mantenuto dal desiderio altrui, esso si sente non essere, si sente sparire in quanto soggetto: se il soggetto non è desiderato, si può dire che sul piano simbolico non è.
Ma c’è un ulteriore elemento, che occorre aggiungere ora, e con questo veniamo al secondo scacco: per il fatto stesso di parlare, il soggetto fa esperienza del fatto che il simbolico in quanto tale (l’Altro) non contiene il significante che gli permetta l’autodesignazione. In altri termini il soggetto fa esperienza che è il simbolico stesso a farlo sparire, a provocare la sua aphanisis: nella Langue, intesa come sistema sincronico, non vi è alcun significante che gli permetta di designare se stesso in modo stabile e permanente; il significante del soggetto non è in alcun dizionario. Ciò radicalizza l’angoscia di sparizione perché la mette in relazione non più all’altro materno, ma all’Altro in quanto tale.
Ma perché nel simbolico non c’è il significante che designa il soggetto? In generale un significante può significare qualcosa grazie al posto che esso occupa nel sistema della lingua, nella rete delle sue opposizioni (ciò che Saussure chiama la Langue).  Ora, il soggetto non è semplicemente qualcosa che possa venir enunciato, ma la funzione che operanell’enunciazione; in altri termini esso non è ciò di cui si parla, ma ciò che parla nell’atto stesso del parlare. Tale funzione viene implicitamente indicata nel messaggio attraverso uno shifter, l’“io”; questa freccia cambia di volta in volta a seconda di chi pronuncia quel messaggio e nel susseguirsi degli atti di enunciazione; si comporta dunque come un qualsiasi deittico (qui, lì, questo, quello) ed è legata alle circostanze occasionali del parlare.
Siamo dunque di fronte non ad un significante, con un senso, un contenuto informativo predeterminato, ma ad un puro indice; abbiamo a che fare con una referenza senza significazione[29]. Ecco che allora il soggetto, che non troviamo nella Langue come sistema, nella rete sincronica delle sue opposizioni, possiamo trovarlo nell’atto locutorio, nella Parole[30].
In questo insistere del soggetto sul lato della Parole bisogna subito dissipare un equivoco: non si può avere in modo proposizionale, attraverso un enunciato, ciò che non si è avuto in modo nominale, attraverso un significante, ossia un’essenza del soggetto stabile, presenziale e autoidentica; questo, ancora una volta, a causa del fatto che “io” è un deittico, legato al carattere mobile, temporale e occasionale del parlare. L’enunciato rinvia dunque all’evento dell’enunciazione: l’autodesignazione del soggetto avviene nella Parole in quanto fatto contingente, che rivela colui/colei che parla, nel momento in cui il messaggio è pronunciato, ogni volta che esso è detto. Non c’è un senso (Sinn) da comprendere, ma un indice mobile che mira verso il luogo occasionale dell’enunciazione.
L’ “essere del soggetto”, dunque, non è dato dal contenuto dell’enunciato, ma dal suo indicare lo spazio del parlare; il soggetto vi è posizionato e vi si posiziona ogni volta di nuovo; questo lo differisce in un costante ancora-da-dire, che non può essere in alcun modo saturato. L’ “essere del soggetto” non è quindi una cosa, una presenza, ma un evento contingente che si dà nella temporalità dell’enunciazione linguistica.
Ma oltre a questo carattere, vi è un’altra coordinata della Parole da considerare: la temporalità non riguarda solo gli atti di enunciazione, ma anche i significanti dell’enunciato che la indica. Il messaggio avviene come una catena che si dà nel tempo, in cui un significante sparisce all’arrivo del seguente. L’indice verso il non-luogo dell’enunciazione è mobile non solo nella sequela degli enunciati, ma all’interno di ognuno di essi. Il soggetto si designa allora nella catena significante e ripercorre la pulsazione di apparizione-sparizione che ha luogo in essa.
Ecco allora il trauma della sparizione, dell’aphanisis del soggetto: se la sua designazione ha luogo come indice che rinvia al posto continuamente differito dell’enunciazione e nel modo di una rincorsa dei significanti nella catena dell’enunciato, non vi è un essere stabile del soggetto in quanto parlante. Per questo Lacan dice che esso è la metonimia della mancanza a essere. Se ha un “essere”,  questo non è niente di presenziale ed è piuttosto qualcosa che ha luogo grazie al tempo e all’Altro, le due determinazioni che Parmenide aveva escluso dall’essere in quanto tale.
La soggettivazione è dunque la costituzione di un soggetto nel simbolico, un’apparizione nel luogo dell’Altro che è al tempo stesso la sparizione di un essere di pura presenza e autoidentità. Questa mancanza a essere, questo dis-essere (desêtre) nel differimento dell’enunciazione, nell’apparizione-sparizione di ogni significante nella catena dell’enunciato, è l’effetto letale del linguaggio. È per questo che Lacan scrive il soggetto come barrato ($).
 
4.2. Il fantasma
 
Questa seconda teoria della soggettivazione produce una nuova messa in questione del ruolo dell’immaginario. In effetti manca ancora da analizzare il terzo livello del grafo[31], che ruota tutto intorno al rapporto fra soggetto barrato e fantasma. La presa del corpo nel simbolico, infatti, si scarica in una produzione dell’immaginario: il soggetto, per affrontare il buco nel suo essere, si fabbrica un tappo molto particolare, il fantasma fondamentale.
Lacan spiega così il suo sorgere: il soggetto, per fronteggiare l’angoscia della sua sparizione[32] per coprire il suo desêtre, si autorappresenta nell’immaginario come se avesse subito una violenza dall’altro (minuscolo). Questo fantasma è il masochismo originario, di cui già Freud aveva parlato e di cui il soggetto gode, perché esso gli permette di coprire il carattere strutturale di quel vuoto che il simbolico scava nel suo corpo, un vuoto per lui insopportabile. Il soggetto si serve di uno scenario immaginario per tappare il buco strutturale del suo essere non-presenziale[33]. Il godimento è qui tutto nella ripetizione di questo scenario masochista[34].
Questo fantasma Lacan lo scrive con a. Si tratta evidentemente dell’antecedente logico dell’oggetto a, il quale, tuttavia, sarà collocato – lo vedremo nel § 5 – nel registro del reale[35]. Ad ogni modo Lacan scrive così il rapporto fra il soggetto e il fantasma:
 
                            $ a 
 
Nella misura in cui gode di questo fantasma persecutorio, esso si rende difficile l’accesso a se stesso come soggetto desiderante, come soggetto barrato dal simbolico. Ora, benché questo godimento sia ancora nel registro dell’immaginario, si può già notare che l’opposizione fra desiderio e godimento prende forma. Se il desiderio è dell’ordine del due, di una faglia strutturale nella costituzione del soggetto, di un essere non presenziale, il godimento è dell’ordine dell’uno, di una pienezza d’essere da realizzare attraverso il fantasma masochista, incaricato di suturare quello strappo ontologico. La clinica lacaniana si configura così come traversata del fantasma, riattivazione della funzione simbolica che esso copre.
 
4.3. Riepilogo sulla soggettivazione nel grafo del desiderio.
 
Possiamo riassumere tutto questo processo. Il soggetto fa esperienza del carattere enigmatico del desiderio dell’altro in carne e ossa (l’altro materno), ma anche di un buco nell’Altro in quanto tale: ciò che manca è il significante che permetterebbe la sua autodesignazione. Perciò esso è rimesso all’evento contingente della parola, che pone il suo essere come un desêtre: l’enigma del “Che vuoi?” implica l’enigma “Chi sono io?”. L’Altro, la lingua come sistema significante, non dà risposta. Per darsi allora un supporto nel momento in cui esso vacilla come soggetto, per dare un supplente al significante che manca, il soggetto risponde con un fantasma, un elemento preso dal registro dell’immaginario. Il fantasma colma questo buco, interpretando un ruolo che nel Seminario X sarà preso dall’oggetto a.
Di tutto questo processo di soggettivazione Lacan dà uno schema molto più facile da leggere rispetto al grafo[36] :

A

D

Sr

D/

A/

S

a

$

A',A'', A'''

 

 
Al primo livello, sul lato sinistro, vi è l’Altro (A) in quanto sistema della lingua e della cultura; sul lato sinistro la domanda (D). La domanda è la posizione primordiale di chi sarà il soggetto in rapporto all’Altro. Essa è prima di tutto domanda di un oggetto di bisogno.
Si passa poi al secondo livello: colei alla quale questa domanda è indirizzata è un soggetto reale (Sr), l’altro materno. Ma su questa via il soggetto incontra l’enigma del desiderio di lei; la domanda diviene domanda d’amore, dunque domanda barrata (D). È il fallo, in quanto portatore di un interdetto, di una funzione che al soggetto non è lecito esercitare in rapporto al corpo della madre, ciò che introduce questo enigma. Non essendo oggetto esclusivo del desiderio della madre e soprattutto non trovando nell’Altro in quanto tale il significante che lo designa, il soggetto si sente sparire. L’altro contiene strutturalmente un buco (A); con ciò siamo già al terzo livello.
Questo buco nell’Altro fa sorgere il soggetto barrato (S), il soggetto che deve cercare il suo essere (che è piuttosto un desêtre) nell’atto contingente della parola. Ma l’angoscia di fronte alla propria sparizione lo spinge a cercare nell’immaginario il supplente del significante che manca, attraverso il fantasma masochista (a).
 
4.4. La logica non binaria della soggettivazione nel grafo del desiderio.
 
Abbiamo ora tutti gli elementi per vedere all’opera, in questa fase del pensiero lacaniano, la logica non binaria della soggettivazione, quella per cui il soggetto si soggettiva in quanto è soggettivato. Il soggetto, infatti, avviene a partire dalla presa del suo corpo nel simbolico: in questo senso esso è soggettivato; ma, di fronte all’inesistenza del significante che permetta l’autodesignazione, esso si costituisce nell’atto contingente della Parole; in questo senso si soggettiva, ossia mette in gioco la propria singolarità attraverso l’evento occasionale e diacronicamente strutturato dell’enunciazione.
Ecco quindi il risultato che emerge: se la forza soggettivante è la struttura, essa non riserva alcun significante predeterminato a colui o a colei che occupa il luogo nell’enunciazione. È vero dunque che il soggetto non esiste prima della presa del corpo nell’Altro, ma di fronte ad un buco costitutivo di questo Altro, esso avviene nell’atto occasionale della parola e nel continuo differimento che vi ha luogo.
La forma non binaria della soggettivazione è ora pienamente visibile: il soggetto è soggettivato solo in quanto esso si soggettiva. Esso è un prodotto del linguaggio, ma in maniera da dover di dire ogni volta di nuovo la sua singolarità.
Svilupperemo queste considerazioni nel §6, in rapporto alla logica del resto.
 
  1. Il terzo momento: il reale del godimento e la soggettivazione nel corpo pulsionale.
 
Con i Seminari VII, X e XI una nuova svolta epistemologica s’impone nella teoria lacaniana della soggettivazione. Essa consiste in tre fattori:
1) l’irruzione di un godimento legato al reale, al proprio corpo pulsionale e non più soltanto all’immaginario;
2) la ridefinizione del desiderio in quanto mancanza dell’oggetto a;
3) un rapporto controverso in cui il godimento è dapprima una forza che impedisce il desiderio (Seminari VII e X) per poi esser trattato come qualcosa che si può alleare ad esso (Seminario XI)[37].
 
5.1. Il godimento come forza di desoggettivazione: il Seminario VII.
 
Nel Seminario VII emerge la categoria concettuale di das Ding, la Cosa. Di che si tratta? Per rispondere bisogna cominciare da un elemento che conosciamo già: l’azione del simbolico porta come conseguenza la morte della cosa; al tempo stesso la Legge del padre impedisce il godimento del corpo della madre e rende possibile la soggettivazione nei molteplici scambi simbolici. È evidente che l’accesso al simbolico comporta una perdita di godimento.
Ora, nel Seminario VII Lacan riprende questo discorso e s’interessa al ritorno di quest’oggetto perduto e alla sua permanenza in quanto forza che si oppone al desiderio[38]. Il fatto che, per rendere possibile la soggettivazione e l’entrata nel simbolico, quest’oggetto debba essere lasciato non impedisce che il soggetto si metta poi in relazione con questa perdita, con questo spazio vuoto. Il ritorno di questa cosa in quanto perduta, sotto forma di un buco nero che aspira il soggetto in una direzione opposta a quella del desiderio, è ciò che Lacan chiama das Ding, la Cosa.
Il rapporto a das Ding porta a un eccesso di eccitazione che è sempre al di là del principio di piacere. Il principio di piacere, infatti, come dice Freud, ha carattere omeostatico: quando l’organismo lo segue è alla ricerca di stati d’equilibrio vitale, in cui esso non sia messo in pericolo; il piacere è dunque la dissoluzione di una tensione interna, di un disequilibrio, di un surplus di eccitazione. Ma allo stesso tempo – è sempre Freud che lo dice – il soggetto ripete certi traumi al di là del principio di piacere, cerca, inspiegabilmente, quegli stati di disequilibrio che hanno provocato la sua sofferenza, avendo come telos implicito la propria sparizione. È per questo che Freud identifica l’al-di-là del principio di piacere con la pulsione di morte.
Ora per Lacan l’al-di-là del principio di piacere è il godimento di das Ding: se la perdita dell’oggetto materno è condizione di possibilità per l’accesso al desiderio e alla soggettivazione, la ricerca che muove in direzione di das Ding, del buco nero che quest’oggetto perduto lascia, traccia il cammino opposto, il cammino cioè verso la soppressione del soggetto desiderante, verso la materia pura di un godimento assoluto.
Il godimento è dunque una sovreccitazione al di là del principio di piacere, che è dovuta al taglio dalla Cosa subito dal corpo vivente; il soggetto cerca questa sovreccitazione per sopprimersi in quanto desiderante e dunque in quanto soggetto. Il desiderio ha come condizione questo strappo della Cosa dal corpo; nel godimento si dà perciò un’esperienza che fa mancare questa mancanza che si è prodotta con l’accesso al simbolico. Si può dire dunque che il godimento conduce il soggetto alla preistoria della soggettivazione, a quella Cosa che la Legge paterna ha interdetto per rendere possibile l’accesso al desiderio; esso è perciò una vera e propria forza di desoggettivazione.
 
5.2. Godimento e oggetto a: il Seminario X
5.2.1. Lo statuto dell’oggetto a
 
Nel Seminario X il discorso si complica. Innanzitutto Lacan moltiplica das Ding  nei molteplici oggetti caduti dal corpo (il seno, le feci, il fallo, lo sguardo e la voce)[39] e fa di essi le differenti forme dell’oggetto a : esso è quindi ciò che il corpo ha dovuto lasciare.
La cessione dell’oggetto a è qui legata non tanto al corpo della madre in quanto tale, ma ad un corpo “originario”, la cui unità viene frantumata. Il taglio è qui con un pezzo di sé, con qualcosa che deve cadere: tale è l’oggetto a[40]. È la sottrazione di a che costruisce un soggetto aperto alla differenza e non ripiegato al godimento di sé come corpo-uno. In virtù di questo strappo l’oggetto a è causa del desiderio[41].
Ora, però, l’oggetto a è in rapporto non solo col desiderio, ma anche col godimento: esso fa intravvedere la promessa di quel corpo-uno, non inciso dal taglio del significante. È per questo che l’oggetto a è non solo l’oggetto perduto, l’oggetto-resto, ma anche l’oggetto ritrovato in altro e che esso porta con sé il rischio di sopprimere la mancanza che è all’origine del desiderio.
Tutto il processo di soggettivazione ha dunque un resto, l’oggetto a, che è allo stesso tempo la sua causa e la sua possibile soppressione, il suo alpha e il suo omega. Ma come può un oggetto essere al tempo stesso il resto, la causa e la possibile soppressione di un processo? Questo paradosso è soltanto apparente: l’oggetto a ha uno statuto d’essere non-presenziale; esso agisce in virtù del buco che lascia sul corpo del soggetto; esso è l’oggetto da cui il soggetto si è dovuto separare e di cui ogni volta deve rinnovare la cessione per poter avere accesso al desiderio[42].
È proprio questa cessione originaria che fa sì che esso possa esser ulteriormente ritrovato[43].
L’oggetto a è dunque causa del desiderio e veicolo di godimento: tutto questo, in fondo, non è altro che il meccanismo freudiano del fort-da, descritto in Al di là del principio di piacere: aver ceduto a (fort) è essere nel desiderio; trattenere a (da), sopprimere la sua mancanza, è essere nel godimento[44].
Sul buco che l’oggetto a lascia sul corpo la pulsione si fissa; è questo insieme di vuoti dinamici e causativi, che si iscrivono sul corpo, a strutturarlo come insieme di zone erogene, come corpo che desidera l’Altro e gode di sé.
In relazione a tutto questo Lacan costruisce un nuovo schema della divisione soggettiva e lo chiama esplicitamente processo di soggettivazione[45]:
 

A

S

A

A/

$

 

 
 
5.2.2. L’angoscia
 
Ora, ciò che rivela l’oggetto a è l’angoscia. È a questo tema che il Seminario X è dedicato. Lacan ne dà due definizioni, che, a mio avviso, costituiscono un campo di tensione. La prima definizione è quella che configura l’angoscia come un processo che si scatena quando una mancanza manca[46]: l’angoscia avverrebbe alle soglie del godimento e annuncerebbe qualcosa in grado di sopprimere il desiderio; questa definizione sembra guardare indietro al Seminario VII e all’aut-aut fra desiderio e godimento. Nella seconda definizione l’angoscia viene configurata come ciò che non è senza oggetto[47]: questa doppia negazione insiste piuttosto sullo statuto non presenziale dell’oggetto a e preannuncia una sovrapposizione fra il buco che esso lascia sul corpo e il vuoto del simbolico; ciò, come vedremo, sarà la mossa teorica più innovativa del Seminario XI.
Cominciamo dalla prima definizione. L’angoscia sorge quando, là dove ci dovrebbe essere una mancanza, l’oggetto a appare. È evidente che l’angoscia di cui si tratta qui non è quella esaminata nel Seminario VI, ossia quella che si origina nel punto panico di fronte all’enigma del desiderio.
Ora, a far mancare questa mancanza è, appunto, l’oggetto a; esso suscita angoscia in quanto unheimlich: se lo Heim, la casa, per l’uomo è l’assenza, il vuoto dinamico che è lo spazio del desiderio, l’irruzione dell’oggetto a è ciò che sottrae questa assenza[48].
Occorre a questo punto aggiungere un’importante precisazione: quando c’è angoscia l’oggetto a in questione può essere il soggetto stesso, che è messo in questa posizione dall’Altro; l’Altro lo pone come l’oggetto a di cui esso manca, come l’oggetto di cui vuole godere. L’angoscia è dunque di fronte al fatto di non essere per l’altro niente più che uno strumento di godimento[49]. Questo accade anche quando è il soggetto a desiderare: porsi come desiderante (érôn) è porsi come mancante di a; ma poiché l’Altro, in posizione di éromenos, può ricambiare il desiderio e porsi esso stesso come (érôn), egli finisce inevitabilmente per diventare il suo oggetto a[50]. Lacan è esplicito su questo scacco mortale che il desiderio sembra subire dal godimento[51].
Questo processo è mostrato all’inverso dalla posizione del masochista: ponendosi come a e non come l’Altro del riconoscimento intersoggettivo, egli precipita il partner nella preistoria della soggettivazione e suscita in lui l’angoscia. Questo desiderio, che mi rende a, mi annulla, non mi riconosce, mi fa perdere il mio statuto di soggetto[52]. Possiamo quindi dire che l’angoscia si scatena quando dall’Altro è domandato al soggetto il suo corpo come strumento di godimento.
Alla luce di tutte queste considerazioni possiamo capire perché Lacan dica che l’angoscia occupa una posizione intermedia fra il desiderio e il godimento. Ciò non vuol dire che essa sia la mediatrice fra i due; essa è piuttosto la faglia che separandoli rende possibile il transito dall’uno all’altro[53], la zona attraversando la quale il soggetto del desiderio si avvicina pericolosamente al godimento. In questa zona il soggetto si perderebbe come soggetto e si ritroverebbe come puro corpo di godimento. È perciò che l’angoscia – come diceva Freud – è il segnale del pericolo: l’irruzione del reale sotto forma dell’oggetto a produce l’angoscia di avvicinarsi in questa zona in cui il soggetto cadrebbe nella preistoria della soggettivazione.
L’oggetto a funziona qui come un perturbante supplente primitivo del soggetto, che riemerge e minaccia di farlo sparire[54].
Veniamo ora alla seconda definizione di angoscia: ciò che non è senza oggetto. Si è appena visto che l’angoscia sorge quando una mancanza manca; ma occorre aggiungere che a produrre questo risultato è un oggetto il cui statuto d’essere è la non-presenza, ossia l’oggetto a. Ecco perché Lacan definisce l’angoscia non con una proposizione affermativa, ma con questa misteriosa doppia negazione: si tratta di riempire un vuoto con un oggetto non-presenziale, un oggetto esperito nel suo strutturale mancare, ciò che Lacan esemplifica con la bottiglia di Klein[55].
Possiamo a questo punto trarre alcune conclusioni. L’angoscia sorge perché viene a mancare una mancanza (1 definizione): là dove dovrebbe situarsi il soggetto barrato, la mancanza a essere, sorge l’oggetto a, ciò che del proprio corpo il soggetto ha dovuto cedere per l’azione dell’Altro. Il ritorno di quest’oggetto minaccia di sopprimere il soggetto desiderante, espellendolo dal simbolico. Esso inoltre non è un pieno che sutura un vuoto, ma è un oggetto non presenziale, qualcosa che nel corpo del soggetto non c’è più: per questa ragione Lacan dice non che l’angoscia ha un oggetto, ma che essa non è senza oggetto (2 definizione): il luogo della mancanza simbolica viene così occupato da quell’oggetto a che è la marca di una mancanza reale, di un taglio che il soggetto ha subito nella preistoria della propria soggettivazione. L’angoscia è dunque angoscia di sparizione, tanto dal simbolico, perché l’oggetto a minaccia di far mancare la mancanza e di sopprimere così il soggetto desiderante, quanto dal reale, perché esso lo mette di fronte al taglio da cui si è originato, consegnandogli un corpo non più integro, mutilato, rotto.
Ora, se questa interpretazione è corretta, paradossalmente l’angoscia può offrire un’opportunità di soggettivazione: cosa succederebbe infatti se il soggetto, anziché sentirsi minacciato da ciò che potrebbe sopprimere la mancanza simbolica e che ha causato la mancanza reale, sovrapponesse queste due mancanze e usasse la riserva pulsionale che la seconda ha prodotto sul suo corpo per rilanciare la prima? Questa soluzione, che Miller prospetta nei termini di un’alleanza fra desiderio e godimento, costituisce la più significativa mossa teorica del Seminario XI.
 
5.3. La sovrapposizione di desiderio e godimento: il Seminario XI
 
Nel Seminario XI Lacan imprime al suo percorso teorico un’ulteriore svolta attraverso questa sovrapposizione di vuoti, già preannunciata dalla struttura del “non-senza”. Vediamo di che si tratta.
La soggettivazione è qui descritta come un processo che si compie in due tappe : l’alienazione e la separazione. L’alienazione ha una struttura disgiuntiva, è caratterizzata da un vel. Questo vel ha una forma logica molto particolare: non è né il vel esaustivo (“O vado qua o vado là; se vado qua non vado là”), né il vel che si utilizza quando l’una o l’altra scelta sono indifferenti (“o l’uno o l’altro, la cosa è equivalente”). Si tratta di una terza disgiunzione, del genere “O la borsa o la vita!”.
In questa alternativa uno dei due termini è impossibile: se si sceglie di conservare la borsa, si perde anche la vita; la scelta deve dunque ricadere sull’altro termine, ma con una sottrazione, la vita senza la borsa[56]. Come si può vedere dallo schema seguente, la scelta di A è obbligata (B è disegnato in nero), ma ha come conseguenza una perdita (la parte di A cancellata da B, l’intersezione fra i due insiemi).
 
                                    A           B   
                       
 
Questa struttura disgiuntiva è quella che s’impone nella preistoria della soggettivazione : o l’essere, ossia l’uno, il godimento assoluto, la perdita di sé all’interno della Cosa, o il senso, ossia il due, il soggetto barrato, il suo sorgere nel luogo dell’Altro. La scelta del senso è obbligata, perché sul primo lato non c’è più soggetto.
Ma c’è un prezzo da pagare per questo: come si può vedere dallo schema precedente, l’insieme B, benché impossibile da scegliere, strappa qualcosa all’insieme A. Ciò che si perde con l’entrata nel linguaggio è un essere presenziale. Il soggetto sorge nel luogo dell’Altro, come desêtre, come non non-esser-uno, come funzione singolare d’enunciazione rimessa all’evento contingente, occasionale della parola, come pulsazione di presenza-assenza che segue la fuga diacronica dei significanti. Ecco allora la logica dell’alienazione: l’apparizione del soggetto nel luogo dell’Altro è anche la sua la sua aphanisis[57].
Ora, il soggetto risponde alla logica dell’alienazione con la logica della separazione. Lacan gioca con questo termine e gli attribuisce il significato del separarsi da qualcosa e allo stesso tempo quello latino del se parere, del partorire se stesso. La tesi è comunque chiara: il soggetto rappresenta questo buco nel simbolico attraverso il buco nel reale dovuto alla perdita dell’oggetto a. Il soggetto fa fronte all’aphanisis dell’alienazione simbolica con il vuoto che la separazione dall’oggetto a lascia. Questo vuoto, tuttavia, è un vuoto dinamico, è quello della zona erogena, è quello in cui è iscritto un potenziale di libido. Rappresentare il buco nel simbolico con un buco nel reale del proprio corpo significa perciò sovreccitare questo corpo, disporlo a godere.
Si può constatare che se la logica dell’alienazione è disgiuntiva, la logica della separazione è congiuntiva: si impone un rapporto con l’oggetto perduto, ma in quanto esso è perduto; di converso, paradossalmente, questa perdita rende presente il corpo. Ciò che ha luogo è perciò una strana forma di congiunzione, come, del resto, nell’alienazione si aveva una strana forma di disgiunzione (il terzo vel): l’oggetto a, con il quale si entra in rapporto, non si dà che nella forma della sua assenza, ma quest’assenza è causalmente efficace, in quanto lo strappo dell’oggetto a iscrive sul corpo un potenziale di libido e produce godimento.
Ecco allora il rapporto fra alienazione e separazione, fra simbolico e reale, desiderio e godimento: la separazione rappresenta la mancanza simbolica attraverso la perdita reale dell’oggetto a[58]. Di fronte alla sua sparizione nel simbolico, il soggetto cerca una sovreccitazione sensoriale (il godimento, identificato qui alla pulsione) che presentifica il corpo. Questa sovreccitazione che presentifica il corpo è provocata dalla sottrazione dell’oggetto a. Essa, dunque, non colma la mancanza dell’oggetto a, ma traccia un circuito intorno ai bordi del buco che la sua sottrazione lascia sul corpo. Il cerchio intorno all’oggetto a fa sentire il corpo e nello stesso tempo non satura con una presenza, quale che sia, il vuoto che la separazione da quest’oggetto vi ha iscritto. Insomma là dove come soggetto desiderante manco nel simbolico, mi presentifico come corpo che gode, presentificazione innescata a sua volta dalla sottrazione originaria dell’oggetto a.
Così concepito, il godimento non consiste più in una sutura del vuoto alternativa al desiderio (Seminari VII e X), ma in una pulsazione continua di apertura e chiusura che vi si sovrappone. Con il Seminario XI il godimento non funziona più come un tappo del desiderio; non ha niente dell’ordine della saturazione. È per questo che il godimento può mescolarsi al desiderio: se nel godimento il soggetto non colma il vuoto reale, il suo meccanismo può ben rappresentare quello del desiderio, in modo tale che il vuoto reale lasciato dall’oggetto a si sovrapponga al vuoto simbolico[59]. Si potrebbe parlare con Kant di uno schematismo somatico o aisthetico o pulsionale della mancanza simbolica del desiderio nella mancanza reale del godimento.
È questo che Lacan vuole dire con la notazione «A–a»: dove il significante vacilla quanto all’auto-designazione del soggetto, là è il posto del godimento in quanto sovreccitazione sensoriale del corpo dovuta al buco che la perdita dell’oggetto a iscrive sul corpo. Laddove, come soggetto parlante non ci “sono” più, mi faccio presente come corpo che gode. Questo – ed è qui la novità del Seminario XI – non sutura il buco del desiderio, ma vi sovrappone un altro buco.
Abbiamo ora tutti gli elementi per comprendere perché J. A. Miller veda nel Seminario XI un’alleanza fra desiderio e godimento: il godimento rappresenta, schematizza (in senso kantiano), il buco nel simbolico con la perdita dell’oggetto a, esso copre questa mancanza, ma lo fa con un’altra mancanza, che dunque nutre e rilancia la prima.
Non si deve vedere però questa sovrapposizione di desiderio e godimento solamente in senso positivo, ma anche come una radicalizzazione del pericolo che il secondo porta al primo: facendosi più simile al desiderio, il godimento vi si può alleare, ma lo può anche coprire in modo più insidioso: se da un lato la sovrapposizione dei buchi può configurare una cooperazione fra desiderio e godimento, nel senso di un godimento che girando intorno a un vuoto, non satura quello del desiderio, dall’altro essa può configurare il pericolo che lo renda invisibile, proprio per il fatto di dislocare tutta l’energia desiderante nella sovreccitazione intorno al vuoto del corpo che ha ceduto l’oggetto a. Perciò preferisco parlare di sovrapposizione fra desiderio e godimento anziché di alleanza (J. A. Miller) o di ibridazione (Recalcati): queste espressioni nascondono il pericolo, sempre presente, che il secondo non permetta il primo, pericolo radicalizzato proprio perché gli si è fatto simile, ruotando esso stesso intorno a un vuoto. Il godimento consumistico mostra chiaramente questo pericolo: esso sovrappone alla mancanza desiderante la mancanza del sistema sociale dei bisogni,cercando lì la sovreccitazione; il consumatore gode, attraverso l’oggetto merce, della sutura e della riapertura di questi due vuoti condensati[60].
  
  1. Lo schema di fondo della soggettivazione
 
Possiamo ora ricapitolare tutto il cammino percorso. Nella teoria e nella clinica di Lacan il problema della soggettivazione, nella sua interrelazione con il desiderio e il godimento, viene affrontato attraverso tre discontinuità epistemiche. Prima discontinuità: l’Altro non è più il polo del riconoscimento intersoggettivo, ma il non-luogo del linguaggio (Seminari V e VI). Seconda discontinuità: il godimento ha a che fare con il reale ed è ciò che sbarra l’accesso al desiderio (Seminari VII e X). Terza discontinuità: il godimento si sovrappone al desiderio (Seminario XI).
Attraverso queste tre rotture la soggettivazione si definisce come complementarità fra essere soggettivato e soggettivarsi, fra il processo attraverso il quale il discorso genera un soggetto e quello attraverso il quale esso si costituisce nella sua singolarità.
Possiamo distribuire questa complementarietà ed individuare così lo schema di fondo della soggettivazione:
 
  1. il soggetto è costituito come soggetto, è soggettivato dall’Altro (l’entrata nel linguaggio);
  2. al tempo stesso esso si costituisce nella sua singolarità, si soggettiva,
2.1 in primo luogo nello spazio insaturo che il codice lascia all’istanza dell’enunciazione, nel differimento in un continuo da-dire;
2.2 in secondo luogo nel godimento del proprio corpo, in cui esso sovrappone il vuoto lasciato dall’oggetto a a quel primo vuoto.
 
  1. La struttura de-totalizzata e l’apertura all’evento: la logica del resto.
 
È ora su questo schema di fondo che occorre fermarsi. La determinazione reciproca fra esser soggettivato e soggettivarsi potrebbe far pensare alla dialettica. In realtà, come si è accennato, le cose non stanno così, perché il processo di soggettivazione accade a partire da una struttura che non assimila il soggetto che pure produce, che non gli riserva un posto predeterminato. Il soggetto si configura così come un residuo e la soggettivazione come una strana macchina, la cui funzione è non funzionare, ossia produrre resti[61].
Il de-totalizzarsi della struttura è emerso da una parte rispetto all’enunciazione (punto 2.1 dello schema) dall’altra rispetto all’oggetto a (punto 2.2). Cominciamo dal primo. Si è visto (§4) che il soggetto non esiste prima dell’entrata nel simbolico. Ma nel simbolico si dà un buco, dovuto all’inesistenza del significante che permetterebbe la sua autodesignazione. Tale mancanza, che riguarda non solo il codice, ma anche il messaggio, è dovuta a un indicatore, uno shifter, che dall’enunciato porta sul luogo occasionale dell’enunciazione: il soggetto è colui/colei che parla nel momento contingente in cui l’atto di parola è prodotto, differendosi così in tutti gli atti successivi; esso è fatto, costruito in questo differimento e rimane costantemente insaturo, in un continuo ancora-da-dire.
Questo ancora-da-dire si dà non solo nella linea di fuga verso il futuro, ma anche nelle enunciazioni che riprendono e rielaborano quelle passate, come la pratica analitica esemplarmente mostra. Le enunciazioni delineano insomma un tracciato, una storia irriducibilmente individuale[62], la cui forma rimane incompiuta, interminabile, per riprendere il termine freudiano.
La mossa che Lacan compie nel Seminario VI, ossia la dislocazione dalla Langue alla Parole, istituisceun rapporto fra discorso e soggetto molto particolare: da una parte il discorso non si risolve nei significati prodotti da un soggetto coincidente con se stesso e già fatto prima dell’atto linguistico, un’istanza piena che si esternerebbe poi in un voler dire, in intenzioni significanti; dall’altra il soggetto non si risolve in una casella della combinatoria di una struttura, in un valore reale del suo decorso possibile.
In altri termini, gli enunciati sono generati da una struttura, da un codice; ma ciascuno di essi contiene un vettore verso il luogo dell’enunciazione, un luogo occasionale e continuamente differito, un luogo costitutivamente insaturo; questo vettore fa sì che la struttura si svuoti, si de-totalizzi, si ritragga, faccia posto ad un’istanza singolare, non-presenziale che ad-viene nel tempo, il soggetto, appunto.
Il soggetto perciò non è né una sostanza, né una variabile predeterminata, ma un evento che ha luogo nella piega della struttura, nel vacuum che il rinvio alla fuga delle enunciazioni le scava dentro.
Ecco quindi il risultato; da una parte non esiste un soggetto che preceda la presa del corpo nel significante: il soggetto è soggettivato. Dall’altra esso si costituisce come singolarità inassimilabile in una struttura de-totalizzata, in un meccanismo di differimento continuo: il soggetto si soggettiva.
Veniamo ora al secondo punto, ossia il ruolo dell’oggetto a nel de-totalizzarsi della struttura. Si è visto (§5) che nel Seminario XI il buco nel simbolico, il desêtre del soggetto, privato, per il fatto stesso di parlare, di un essere presenziale, viene rappresentato attraverso il buco reale, quello che è stato scavato sul suo corpo dalla cessione dell’oggetto a. Attorno ad esso la pulsione compie il suo tragitto di andata e ritorno: in questo consiste il godimento. Laddove, in quanto soggetto parlante, non “sono” più, mi faccio presente come corpo che gode. La sovreccitazione che ha luogo presentifica il corpo pulsionale singolare nella sua singolarità di fronte alla sparizione del soggetto nel simbolico: il soggetto, che è soggettivato dal significante, si soggettiva nella propria singolarità, godendo del proprio corpo.
Tutto ciò è ricco di conseguenze: la soggettivazione è la costituzione di una singolarità non soltanto nel linguaggio, come disincarnata fuga locutoria nel differimento degli atti di enunciazione, ma anche nel corpo, con le vicissitudini pulsionali che gli sono proprie.
Il discorso dunque prende il corpo, ma non al modo dell’implementazione di un programma che lo diriga senza resti né resistenze. Questo accade per via dell’oggetto a; esso è ciò che del proprio corpo il soggetto ha dovuto lasciare al di qua dei confini del simbolico, proprio per poter varcare quei confini; esso è dunque per definizione fuori significante o, per meglio dire, un resto della significazione, che è al tempo stesso la sua condizione di possibilità.
Siamo qui chiaramente di fronte ad una logica a-dialettica: contrariamente a quanto accade negli opposti correlativi aristotelici, in cui l’essere di ciascuno è risolto integralmente nella relazione con l’altro (sotto-sopra, destra-sinistra, figlio-genitore), qui i termini devono rimanere esterni; come dice Lacan non c’è un altro dell’Altro, ossia non c’è una determinazione reciproca che esaurisca il campo d’essere di ciascuno.
Ciò vuol dire concretamente che l’oggetto a con la riserva di libido che la sua cessione ha iscritto sul corpo, mantiene una autonoma capacità causativa, condiziona la vita del soggetto senza farsi integralmente assorbire dalle leggi dell’Altro.
Perciò, se pensiamo all’Altro come ad un insieme di norme, l’oggetto a è ciò che impedisce che il soggetto sia il suo automaton. Questo non vuol dire che non abbiano rapporti: anzi la cessione è stata innescata proprio dall’avvento del simbolico.
Ma in che modo tutto questo costituisce un soggettivarsi anziché immettere in un campo asoggettivo? Siamo in un al di là del linguaggio? Il fatto che l’oggetto a sia fuori significante non vuol dire che il simbolico non può rivenirvi, ma semplicemente che esso non riesce ad esaurirlo, che la struttura non è in grado di dargli un posto prefissato. Ecco quindi il paradosso: questo meccanismo, anziché inibire il simbolico, lo rilancia in un differimento infinito, esattamente come nel caso del grafo.
Se si vuole trovare un antecedente di questo processo per cui la sottrazione del senso innesca una simbolizzazione inesauribile, si può far riferimento alla differenza ontologica heideggeriana: come l’essere si ritrae rispetto all’ente in cui di volta in volta storicamente accade, rimanendo in un’ulteriorità che garantisce il suo dover di nuovo ad-venire, così il sottrarsi dell’oggetto a alla significazione rilancia di continuo l’attività del significare.
Ecco quindi il secondo risultato: il corpo resiste alla presa integrale nel simbolico e proprio per questo esso è veicolo di una  simbolizzazione continua, in cui ha luogo una soggettivazione individuale, non integralmente diretta dalle leggi del codice linguistico e sociale, ma esposta alle contingenze di una singola storia pulsionale.
Possiamo ora fissare il punto d’arrivo di questo cammino attraverso il concetto lacaniano di soggettivazione: la presa nel simbolico fa sì che il soggetto sia soggettivato; ma questo evento accade nel modo di un soggettivarsi poiché la struttura che lo prende è qualcosa che lascia costitutivamente un posto vuoto. Questo de-totalizzarsi della struttura accade in due momenti, da una parte nel vettore che dall’enunciato va verso il luogo sempre differito dell’enunciazione, dall’altra nel vettore che va verso il corpo pulsionale e la riserva di libido che la cessione dell’oggetto a vi ha iscritto.
Il soggetto è perciò l’evento che residua da una struttura de-totalizzata, un resto che essa non arriva a predeterminare: la sua autodesignazione continua a differirsi; l’oggetto a e il movimento della pulsione gli impedisce di essere un automaton delle norme sociali[63]; l’uno e l’altro producono una riserva discorsiva di soggettivazione singolare virtualmente inesauribile.
Ciò che ha luogo, dunque, è non solo l’ibridazione fra l’esser-soggettivato e il soggettivarsi, ma anche il carattere incompleto della struttura, il suo lasciar spazio all’evento e alla singolarità.
Vedremo presto come molti degli elementi di questa logica siano presenti anche in Foucault e quale utilità se ne possa trarre per una critica del capitalismo.
 
[1] All’interno del dibattito post lacaniano e post foucaultiano un esempio di questa logica non binaria della soggettivazione è il concetto di genere in Judith Butler. Il genere, come performance sociale, è al tempo stesso una costruzione discorsiva e uno spazio d’azione del corpo proprio, un essere soggettivato/a e un soggettivarsi.
[2] Presente in questo scritto, Soggetto e Capitalismo. Desiderio e bisogno.
[3] Poiché nel grafo del desiderio Lacan teorizzerà un’eccedenza dell’enunciazione sull’enunciato, dislocandosi dalla Langue alla Parole (cfr. infra, §4), il termine strutturalista mi sembra del tutto inadeguato.
[4] Alcune delle considerazioni che verranno sviluppate (soprattutto nel §3.2) si trovano già nell’articolo precedente su Desiderio e bisogno, in cui il confronto con Lacan occupava un posto privilegiato. Questa ripetizione è tuttavia inevitabile: il campo che si intende esplorare, quello del rapporto fra soggetto e capitalismo, è costituito da diversi vettori che si intersecano, si sovrappongono e poi si separano. In questo saggio si troverà un’analisi del tema della soggettivazione in Lacan mentre nel saggio precedente un’analisi del rapporto e fra desiderio e sistema sociale dei bisogni; è evidente tuttavia che i due percorsi in parte si sovrappongono. Questo fa sì che ci possano essere due strategie di lettura. Da una parte il lettore può scegliere di ripercorre integralmente i segmenti già percorsi, fino alla loro biforcazione verso una nuova direzione; va da sé che questa ripetizione è produttrice essa stessa di un senso nuovo e che retrospettivamente i tratti non ancora percorse danno ai tratti già percorsi. Dall’altra il lettore può scegliere di saltare i segmenti già percorsi e di collocarsi direttamente sulle biforcazioni.
[5] J. Lacan, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je, in: Ecrits, Edition du Seuil, 1966; trad. it. «Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io», in: Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi; pp. 87-94, p. 90.
[6] J. Lacan, Le stade du miroir, op. cit., p. 91.
[7] J. Lacan, Le stade du miroir, op. cit., p. 88.
[8] J. Lacan, Le stade du miroir, op. cit. p. 89.
[9] «[…] l’immagine è mia eppure mi guarda, cioè come ha mostrato Sartre in pagine insuperabili, mi svuota del mio essere, mi metamorfosizza, mi rende oggetto, mi costituisce come fissato a quell’oggetto che sono. Guardandomi allo specchio, infatti, mi ritrovo sì come un’immagine strutturata – come unità compiuta – ma l’immagine che mi guarda dallo specchio mi spossessa del mio essere». Recalcati, Desiderio, godimento…, p. 30.
[10] J. Lacan, Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse, in: Ecrits, op. cit.; trad. it. Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, in: Scritti, op. cit.; pp. 230-316, p. 243
[11] J. Lacan, Le Séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1953-1954), Seuil, 1975.Trad. it. a cura di G. B. Contri, Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, 1978; p. 213. D’ora in poi S I.
[12] «[…] l’altro speculare è infatti doppiamente caratterizzato: come modello e come rivale»; in: M. Recalcati, Desiderio, godimento, soggettivazione, Raffaello Cortina, 2012., p. 49.
[13] J. Lacan, Funzione e campo, op. cit. pp. 240-241.
[14] J. Lacan, Funzione e campo, op. cit., p. 261.
[15] Lacan, Le Séminaire. Livre II. Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique psychanalytique (1954-1955), Seuil, 1977. Trad. it. di A. Turolla, C. Pavoni, P. Feliciotti, S. Molinari, A. Di Ciaccia, a cura di G. B. Contri, Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicanalisi (1954-1955), Einaudi, 1991, p. 309.  D’ora in poi S II.
[16] S II, p. 307.
[17] J. Lacan, Funzione e campo, op. cit., p. 297.
[18] J. Lacan, Le Séminaire. Livre V. Les formations de l’inconscient (1957-1958), Seuil, 1998. Trad. it. a cura di A. Di Ciaccia, Libro V Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Einaudi, 2004, p. 205. D’ora in poi S V.
[19] S V, p. 316
[20] Cfr. infra, § 5.
[21] La versione del grafo sopra riprodotta rispecchia quella presente in: J. Lacan, Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien, in Ecrits, op. cit.; trad. it. «Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano», in: Scritti, op. cit., pp. 795-831, p. 820. Il grafo, accompagnato da utili chiarificazioni, compare anche in J. Lacan, Le Séminaire. Livre VI, Le désir et son interprétation, Editions de la Martinière et Le Champ Freudien, 2013, p. 28 (d’ora in poi S VI). Sarà soprattutto attraverso queste chiarificazioni che analizzerò il grafo, senza nessuna pretesa di esaustività, ma soltanto alla luce del problema della soggettivazione.
[22] S VI, pp. 21-23 e pp. 39-44.
[23] La significazione del fallo, op. cit., p. 687.
[24] S V, p. 189
[25]J. Lacan, Funzione e campo, op. cit., p. 313.
[26] S VI, pp. 23-27 e pp. 44-50.
[27] S VI, p. 25.
[28] «Ecco che il desiderio non è né l’appetito della soddisfazione, né la domanda d’amore, ma la differenza che risulta dalla sottrazione del primo alla seconda, il fenomeno stesso della loro scissione (Spaltung)»; La significazione del fallo, op. cit., p. 688.
[29] «Le Je dont il s’agit dans le Cogito n’est pas simplement le Je articulé dans le discours, le Je en tant qu’il se prononce dans le discours, et que le linguistes appellent, au moins depuis quelque temps, un shifter. Le Je du cogito est un sémantème, qui n’as pas d’emploi articulable qu’en fonction du code, je veux dire en fonction, purement et simplement, du code articulable lexicalement. En revanche le Je-shifter, comme l’expression la plus simple le montre, ne se rapporte à rien qui puisse être défini en fonction d’autre termes du code, donc à un sémantème, mais il est défini en fonction de l’acte du message, il désigne celui qui est le support du message, c’est-à-dire quelqu’un qui varie à chaque instant»; S VI, p. 45.
[30] «De par la structure même qu’instaure le rapport du sujet à l’Autre en tant que lieu de la parole, quelque chose au niveau de l’Autre fait défaut. Ce qui fait défaut est précisément ce qui permettrait au sujet de s’y identifier comme le sujet du discours qu’il tient. Au contraire, en tant que ce discours est le discours de l’inconscient, le sujet y disparaît»; S VI, p. 435.
[31] S VI, pp. 27-30.
[32] Rispetto all’angoscia Lacan ha seguito diverse direttrici di indagine. In una prima fase (cfr. la conferenza Le symbolique, l’imaginaire et le réel, tenuta nel 1953 e pubblicata nel Bulletin de l’Association freudienne, 1, novembre 1982), Lacan iscrive l’angoscia nel registro dell’immaginario: essa sorge quando il soggetto si perde nella reciprocità della relazione immaginaria, in cui si sente minacciato dall’altro quanto al suo stesso essere; il simbolico ha qui il compito di risolvere questa impasse: attraverso l’interdetto della Legge al  soggetto viene aperto il cammino del desiderio. In una seconda fase (Seminari V e VI), con la costruzione del grafo, l’angoscia è iscritta nel simbolico: l’angoscia è l’esperienza di un buco nel linguaggio, nel grande Altro; essa ha dunque a che fare con il desêtre del soggetto, con il suo manque à être. È a questa seconda fase che qui ci riferiamo. A partire dal Seminario X l’angoscia si iscrive nel reale: essa ha a che fare con la situazione in cui questa mancanza viene a mancare; nell’angoscia si avverte la presenza di qualcosa (l’oggetto piccolo a) che non si risolve nel simbolico, qualcosa che colma quel vuoto che occorrerebbe preservare per non sparire in quanto soggetto di desiderio (cfr. infra § 5.2).
[33] «C’est alors que le sujet fait venir d’ailleurs, à savoir du registre de l’imaginaire, quelque chose d’une partie de lui-même en tant qu’il est engagé dans la relation imaginaire à l’autre. Ce quelque chose est l’objet petit a. Il surgit très exactement à la place où se pose l’interrogation du S sur ce qu’il est vraiment, sur ce qu’il veut vraiment. […] il entre en jeu dans un complexe que nous appelons le fantasme. C’est dans cet objet que le sujet trouve un support au moment où il s’évanouit devant la carence du signifiant à répondre de sa place de sujet au niveau de l’Autre»; Lacan, S VI, p. 446.
[34] «Le sujet barré marque ce moment de fading du sujet où celui-ci ne trouve rien dans l’autre qui le garantisse, lui, d’une façon sûre et certaine, qui l’authentifie, qui lui permette de se situer et de se nommer au niveau du discours de l’Autre, c’est-à-dire en tant que sujet de l’inconscient. C’est en réponse à ce moment que surgit, comme suppléant du signifiant manquant, l’élément imaginaire, terme corrélatif de la structure du fantasme»; Lacan, S VI, pp. 446-447.
[35] «[…] l’objet a se définit d’abord comme le support que le sujet se donne pour autant qu’il défaille … Ici arrêtons-nous un instant et commençon par dire quelque chose d’approximatif pour que cela vous parle – pour autant qu’il défaille dans sa certitude de sujet»; Lacan, S VI, p. 435.
[36] S VI, p. 439. Questo schema ricompare, un po’ semplificato, nel Seminario X, dove Lacan fa esplicitamente riferimento al processo di soggettivazione (cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre X, L’angoisse (1962-1963), Seuil, 2004. Trad. it. a cura di A. Di Ciaccia, Libro X. L’angoscia (1962-63), Einaudi, 2007, p. 189; d’ora in poi S X) .
[37] J. A. Miller si è interrogato sui differenti paradigmi del godimento e ne ha fissati sei. Poiché ciò che è in gioco in questo studio non è il godimento in quanto tale, ma il suo rapporto con la soggettivazione, ci soffermeremo sul paradigma 3 (il godimento impossibile; Seminari VII e X) e sul paradigma 4 (il godimento normale (Seminario XI). Se il paradigma 3 mostra il godimento come forza che impedisce l’accesso al desiderio, il paradigma 4 indica invece una sua possibile alleanza col desiderio (cfr. J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, 2001). Più che di alleanza fra desiderio e godimento preferisco parlare di sovrapposizione (v. oltre).
[38] «Ce que nous trouvons dans la loi de l’inceste se situe comme tel au niveau du rapport inconscient avec das Ding, la Chose. Le désir pour la mère ne saurait être satisfait parce qu’il est la fin, le terme, l’abolition, de tout le monde de la demande, qui est celui qui structure le plus profondément l’inconscient de l’homme»; J. Lacan, Le Séminaire. Livre VII, L’éthique de la psychanalyse (1959-1960), Seuil, 1986. Trad. it. a cura di G. B. Contri, Libro VII. L’etica della psicanalisi (1959-1960), Einaudi, 1994, p. 83. D’ora in poi S VII.
[39] I primi sono gli oggetti che Freud analizza nei Tre saggi, gli ultimi sono un contributo originale di Lacan.
[40] «La coupure n’est pas celle de l’enfant avec la mère. […] Coupure avec quoi ? Avec les enveloppes embryonnaires […] pour avoir une notion complète de cet ensemble pré-spéculaire qui est a il faut que vous considériez les enveloppes comme élément du corps de l’enfant»; S X, p. 143.
[41] «Pour fixer notre visée je dirai que l’objet a n’est pas à situer dans quoi que ce soit d’analogue à l’intentionnalité d’une noèse. Dans l’intentionnalité du désir, qui doit en être distinguée, cet objet  est à concevoir comme la cause du désir. Pour reprendre ma métaphore de tout à l’heure, l’objet est derrière le désir»; S X, p. 120.
[42] «N’oublions pas de mettre ici à l’épreuve la guide que nous donne notre formule, que l’objet a est, non pas fin, but du désir, mais sa cause. Il est cause du désir en tant que le désir est lui-même quelque chose de non effectif, une sorte d’effet fondé et constitué sur la fonction du manque»; S X, p. 365.
[43] «Ce caractère d’objet cessible est un caractère important de a […] Ici nous apparaît que les point de fixation de la libido sont toujours placés autours de l’un de ces moments que la nature offre à la structure éventuelle de la cession subjective » S X 362. Cfr. anche : « Ce que j’appelle la cession d’objet se traduit donc par l’apparition dans la chaîne de la fabrication humaine, d’objet cessible qui peuvent être les équivalent des objet naturels»; S X, p. 363.
[44] «Cet objet a c’est ce roc dont parle Freud, la réserve dernière irréductible de la libido»; S X, p. 127.
[45] «Je vous ai déjà appris à situer le processus de subjectivation, pour autant le sujet a à se constituer au lieu de l’Autre sous les espèces primaire du signifiant et sur le donné de ce trésor du signifiant déjà constitué dans l’Autre, aussi essentiel à tout avènement de la vie humaine que tout ce que nous pouvons concevoir de l’Umwelt naturel. Le trésor du signifiant où il a à se constituer attend d’ores et déjà le sujet, qui, à ce niveau mythique, n’existe pas encore. Il n’existera que partant du signifiant qui lui est antérieur et qui est constituant par rapport à lui. Disons que le sujet fait une première opération interrogative dans A – combien de fois ? L’opération étant supposée, il apparaît alors une différence entre le A-réponse, marquée par l’interrogation, et le A-donné, quelque chose qui est le reste, l’irréductible du sujet. C’est le a. Le a est ce qui reste d’irréductible dans l’opération d’avènement du sujet au lieu de l’Autre, et c’est là qu’il va prendre sa fonction»; S X, p. 189.
[46] S X, p. 53
[47] S X, p. 105.
[48] S X, p. 60
[49] «Toute exigence de a sur la voie de cette entreprise de rencontrer la femme – parce que j’ai pris une perspective androcentrique – ne peut que déclencher l’angoisse de l’Autre, justement en ceci que je ne le fais plus que a que je le aïse, si je puis dire»; S X, p. 210.
[50] «Me proposer comme désirant, erôn, c’est me proposer comme manque de a et c’est pour cette voie que j’ouvre la porte à la jouissance de mon être. […] si c’est au niveau de l’ érôn que je suis que j’ouvre la porte à la jouissance il est clair que le plus proche déclin qui s’offre à cette entreprise, c’est que je suis apprécié comme erómenos, aimable»; S X, p. 210.
[51] «[…] désirer l’Autre, grand A, ce n’est jamais désirer que a»;  S X, p. 209.
[52] S X, pp. 179-180.
[53] S X, p. 213.
[54] «Le a est ici le suppléant du sujet – et suppléant en position de précédent. Le sujet mythique primitif, posé au début comme ayant à se constituer dans la confrontation signifiante, nous ne le saisissons jamais et pour cause, parce que le a l’a précédé et c’est en tant que marqué lui-même de cette primitive substitution qu’il a à ré-émerger secondairement, au-delà de cette disparition. La fonction de l’objet cessible comme morceau séparable véhicule primitivement quelque chose de l’identité du corps, antécédant sur le corps lui-même quant à la constitution du sujet»; S X, p. 363.
[55] S X, p. 238.
[56] Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI, Le quattre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, 1973. Trad. it. A cura di A. Di Ciaccia, Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi (1964), Einaudi, 2003, pp. 235-237. D’ora in poi S XI.
[57] «[…] un signifiant est ce qu’il représente un sujet pour un autre signifiant. Le signifiant se produisant au champ de l’Autre fait surgir le sujet de sa signification. Mais il ne fonctionne comme signifiant que à réduire le sujet à n’être plus qu’un signifiant, à le pétrifier du même mouvement où il l’appelle à fonctionner, à parler, comme sujet. Là est proprement la pulsation temporelle où s’institue ce qui est la caractéristique du départ de l’inconscient comme telle  - la fermeture. […] Or, l’aphanisis est à situer d’une façon plus radicale au niveau où le sujet se manifeste dans ce mouvement de disparition que j’ai qualifié de létal»; S XI, p. 232.
[58] S XI, p. 239.
[59] «Deux manques ici se recouvrent.  L’un ressortit au défaut central autour de quoi tourne la dialectique de l’avènement du sujet à son propre être dans la relation à l’Autre — par le fait que le sujet dépend du signifiant et que le signifiant est d’abord au champ de l’Autre. Ce manque vient à reprendre l’autre manque qui est le manque réel, antérieur, à situer à l’avènement du vivant, c’est-à-dire à la reproduction sexuée. Le manque réel, c’est ce que le vivant perd, de sa part de vivant, à se reproduire par la voie sexuée. Ce manque est réel parce qu’il se rapporte à quelque chose de réel, qui est ceci que le vivant, d’être sujet au sexe, est tombé sous le coup de la mort individuelle»; S XI, p. 229.
[60] Ho affrontato il tema nel mio studio presente in questo libro: Soggetto e Capitalismo. Desiderio e bisogno.
[61] È proprio qui che s’innesta il dispositivo soggettivante del capitalismo come macchina che funziona perché non funziona. Sul rapporto fra soggetto e capitale cfr. in quest’opera il mio saggio Soggetto e capitalismo. Desiderio, godimento, sistema sociale dei bisogni.
[62] Questo non ha niente a che fare con l’identità narrativa di cui parla Ricoeur, poiché qui il soggetto che si costituisce nella sua singolarità è il soggetto dell’inconscio.
[63] È un paradosso visto che è proprio un insieme di norme sociali di primo livello ad averne imposto la cessione, ma tant’è.