Gabriele Miniagio | La deduzione trascendentale delle categorie. Appunti per un’ipotesi di lettura

  1. L’automatismo dell’immaginazione in Hume e l’approccio di Kant
Nella Deduzione trascendentale delle categorie, uno dei nodi cruciali della Critica della ragione pura, Kant vuole mostrare che le regole logiche con cui vengono costruiti i giudizi, le categorie appunto, sono anche le strutture portanti dell’esperienza percettiva; sono esse a darle quell’uniformità e quella coerenza su cui è possibile edificare la scienza. La tesi è radicale: l’esperienza mutua le sue forme fondamentali dalla grammatica logica del giudizio.
Prendiamo le due categorie essenziali: sostanza e causalità. La sostanza è la funzione con cui in un giudizio distinguiamo e mettiamo in rapporto un soggetto e un predicato (X è a): l’uno è un sostrato, l’altro la sua proprietà. La causa è invece quella funzione che organizza i giudizi secondo un nesso condizionale, tale per cui il primo non può essere vero senza che anche il secondo lo sia (se X allora Y). Ora, come si è detto, tali funzioni per Kant devono poter valere non solo per il giudizio, ma anche per l’esperienza; è ad esse che si deve il fatto che esperiamo cose dotate di proprietà permanenti e implicazioni regolari di eventi[1]. Il punto che la Deduzione trascendentale delle categorie vuole dimostrare è proprio questo.
Attraverso tale impostazione egli mira a fondare la possibilità di una conoscenza oggettiva – universale e necessaria – della natura, messa in crisi dallo scetticismo di Hume, in particolare dall’interpretazione che egli ha dato proprio di sostanza e causalità. Per il filosofo scozzese infatti esse non sono altro che abitudini percettive: l’una al persistente collegamento fra idee contigue, l’altra al persistente collegamento fra idee successive. Per Kant invece, come abbiamo accennato, esse sono categorie dell’intelletto applicabili all’esperienza. Ma come è possibile che le funzioni con cui costruiamo gli enunciati siano le stesse con cui esperiamo? E soprattutto cosa cambia se sostanza e causalità non vengono interpretate come abitudini psichiche ma come funzioni logiche?
Prima di rispondere, occorre approfondire la posizione di Hume. Per quanto riguarda la sostanza, egli riprende e radicalizza l’impostazione di Locke, secondo il quale essa consiste in una collezione di idee semplici che troviamo sempre insieme: ci abituiamo così a trattare questo complesso come un’unica realtà[2] e a considerarle come proprietà determinate di una X che è il loro supporto,[3] oltre che la causa della loro unione[4]. Hume parte da qui, ma va ben oltre: egli elimina il ricorso a questa X; la sostanza non è che una collezione di idee che riproducono le originarie impressioni; esse sono tenute insieme dall’immaginazione e possiamo così richiamarle a nostro piacimento o aggiungervi le nuove proprietà che via via scopriamo, come se fin dall’inizio avessero fatto parte di questa unità[5]. La sostanza si riduce così ad un persistente collegamento di idee, che si iscrive nella nostra immaginazione.
Analogo è il ragionamento che egli fa a proposito della causalità: poiché si sono visti due fenomeni (X, Y) sempre associati in un rapporto di successione temporale, al verificarsi del primo l’immaginazione si rappresenta il secondo; si genera così la credenza che, dato un evento, da esso seguirà sempre lo stesso effetto, in un decorso uniforme delle esperienze future.
In conclusione lo strato di base della regolarità dell’esperienza, ossia il darsi di oggetti permanenti e di processi uniformi, non è che una credenza; in quanto la sostanza e la causalità sono credenze, il loro statuto non è oggettivo né logico, ma psicologico ed empirico. Verrebbe da dire che per Hume sostanza e causalità sono automatismi psicomotori.
Ora Kant rivolge una semplice obiezione al filosofo scozzese: non si potrebbero associare tra loro le idee (ossia immagini in cui si riproducono le originarie impressioni), se non si avesse un’esperienza regolare, ossia se, prim’ancora delle idee, proprio a livello delle impressioni, già non si desse costanza e uniformità di ciò che si esperisce. L’associazione si fonda sull’abitudine, certamente, ma l’abitudine si fonda sulla regolarità. Se le cose cambiassero le loro proprietà, se i processi andassero ora in un modo ora nell’altro, non ci sarebbe alcuna abitudine e non potrei associare nulla. L’esempio di Kant è quello del cinabro[6].
Ma che cos’è questa regolarità? Una generalizzazione dell’esperienza? Se così fosse cadremmo in un circolo vizioso: la generalizzazione infatti per Hume si fonda sull’associazione e questa sull’abitudine; ma se l’abitudine si fonda sulla regolarità, quest’ultima non può essere una generalizzazione. Insomma la regolarità non può essere una generalizzazione, poiché essa è ciò che ci deve essere perché la generalizzazione abbia luogo. E qui arriviamo al punto: cosa vuol dire concretamente regolarità? Regolarità in che cosa? Essa consiste appunto nell’avere sempre a che fare con cose permanenti, dotate di proprietà stabili (sostanze), ed eventi che si succedono regolarmente, tale che l’antecedente non può essere senza il conseguente (causalità).
Ecco allora la posizione di Kant: gli enunciati su sostanza e causalità non esprimono generalizzazioni ma le forme determinate di quella regolarità dell’esperienza che le precede e le fonda. In altri termini: se non ci fossero date sostanza e causalità, oggetti dotati di proprietà permanenti e successioni uniformi di eventi, non ci sarebbero abitudini, dunque associazioni, dunque generalizzazioni. Questi enunciati esprimono ciò che ci deve essere perché esse possano essere formulate. Non tratta dunque di fatti, che un giorno potrebbero anche essere smentiti, ma di norme universali, non di abitudini, di associazioni, di generalizzazioni, ma di quella stessa regolarità che ne è fondamento.
Ma allora su che base si giustifica questa regolarità? Perché si deve verificare che qualcosa abbia una gamma di proprietà stabili e che un fenomeno sia causato da un altro fenomeno? Perché questi enunciati non possono in linea di principio essere smentiti? Se “X è a” e “X implica Y” non sono generalizzazioni dell’esperienza, che cosa sono? Strutture metafisiche? La realtà è in sé stessa fatta di sostanze e rapporti causali? In un sistema di filosofia critico-trascendentale come quello kantiano non c’è posto per una simile posizione. Allora di che cosa si tratta? La risposta è già emersa.
Sostanza e causalità non sono né strutture metafisiche, né generalizzazioni dell’esperienza, ma regole di fondo con cui l’esperienza è costituita; queste regole sono le stesse funzioni con cui sono formati rispettivamente il giudizio categorico e il giudizio ipotetico, ossia categorie; a connettere queste funzioni del giudizio all’esperienza percettiva, a connettere cioè la sfera dell’intelletto con quella dell’intuizione è, come mostra la Deduzione trascendentale delle categorie, l’atto sintetico dell’appercezione. Vedremo più avanti come Kant argomenta tutto ciò.
Per ora occorre sottolineare qual è la posta in gioco: se il suo ragionamento fosse corretto, sostanza e causalità non avrebbero uno statuto psicologico, ma logico; l’esperienza sarebbe costruita dal pensiero; sostanza e causalità non sarebbero aspettative, ma funzioni universali e necessarie del pensiero, che andrebbero a strutturare l’esperienza percettiva in modo tale che in linea di principio non possano non darsi cose dotate di proprietà e processi conseguenziali[7], anche se di fatto, nell’interpretazione di qual è di volta in volta la proprietà permanente o la causa, posso sbagliarmi.
Questo in linea di principio, che non può come si è visto essere argomentato né come generalizzazione dell’esperienza né come struttura metafisica, è ciò che la Deduzione trascendentale vuole giustificare, attribuendolo alle funzioni del giudizio per il tramite di una complessa struttura argomentativa. Essa nella prima edizione, a cui qui ci rifaremo, consiste in tre passaggi:
1) la sintesi dell’apprensione nell’intuizione (spazio-tempo);
2) la sintesi della riproduzione nell’immaginazione (immaginazione pura);
3) la sintesi della ricognizione nel concetto (appercezione).[8]
Nel suo complesso la Deduzione trascendentale fa vedere:
  1. a) il nesso di fondazione verticale, tutto interno alle forme pure l’una sull’altra: spazio e tempo si fondano sull’immaginazione pura (a1); quest’ultima sull’appercezione concettualizzante (a2);

  2. b) il nesso di fondazione trasversale dell’immaginazione empirica, quella del meccanismo humeano rispetto all’atto sintetico nel suo complesso – spazio e tempo, immaginazione pura, appercezione (b).

Questo duplice nesso è espressione di una duplice esigenza: da una parte fondare la filosofia critica, dall’altra rispondere allo scetticismo di Hume. Possiamo rappresentare tutto questo con uno schema:

                                                                                                                
Se non seguiamo questo doppio livello dell’argomentazione, verticale e trasversale, la Deduzione trascendentale rimarrà sempre oscura. Conviene, per comodità d’esposizione, analizzare separatamente i tre passi argomentativi.
 
  1. La sintesi dell’apprensione: il tempo

Secondo Kant il molteplice empirico, i dati sensoriali che apprendiamo ricettivamente, non potrebbero essere unificati se non vi fosse la capacità di distinguere gli istanti nella serie temporale: la sintesi dell’apprensione, la scansione temporale del molteplice, è condizione dell’unificazione empirica.
È già questa una prima, ancorché incompleta, risposta a Hume: è vero che l’immaginazione empirica è sollecitata al suo automatismo riproduttivo da qualità che vediamo in un costante rapporto di contiguità e successione, ma è altrettanto vero che non si darebbero contiguità e successione se l’esperienza non fosse sinteticamente costruita nel tempo (b). Al di qua dell’immaginazione empirica humeana vi è una condizione più originaria dell’esperienza[9]Tutto ciò non fa che riprendere quanto emerso nell’Estetica.
 
  1. La sintesi della riproduzione: l’immaginazione pura

Il secondo livello dell’atto sintetico è costituito dall’immaginazione pura. Ma che cos’è l’immaginazione pura? In che senso l’immaginazione può essere pura?
Possiamo rispondere costruendo un confronto con l’immaginazione empirica; essa è quella che riproduce gli elementi di un molteplice empirico nel meccanismo dell’associazione: per esempio se mi vengono in mente gli occhi di una persona, mi vengono in mente per associazione i suoi capelli. L’immaginazione pura è invece quella che opera sul molteplice puro spazio temporale, connettendo al punto attualmente percepito quelli già decorsi. L’esempio kantiano è illuminante: se nel tracciare una linea io dimenticassi i punti trascorsi, avrei ad ogni istante un singolo punto e non una figura; in questo modo nessuna unificazione del molteplice puro sarebbe possibile. L’immaginazione, in termini husserliani, opera ritenzionalmente[10], riproducendo nell’attualità il molteplice già esperito; in questo modo essa fa sì che ci sia una figura continua piuttosto che un lampeggiare intermittente di punti irrelati.
Ecco quindi come si dà una sintesi del molteplice: senza l’immaginazione pura e il suo operare ritenzionale la mia coscienza sarebbe sempre polarizzata verso l’unico elemento istantaneamente dato. Si ha quindi, anteriormente all’operare (riproduttivo) dell’immaginazione empirica, che ripresenta oggetti già costituiti, una sintesi dell’immaginazione pura che li costituisce, operando già nella percezione: il singolo stimolo percettivo è compreso in un punto spaziale e temporale e, una volta decorso, con l’entrata nella coscienza di un altro stimolo in un successivo punto spaziale e temporale, l’immaginazione trattiene il primo punto in unione a quello attualmente intuito[11]; così si costituisce il primo strato dell’oggettività: figure estese permanenti.
Senza quest’operare dell’immaginazione pura non avremmo immagini né alcuna forma di continuità spazio temporale. Kant, nella nota alla Sezione Terza del Capitolo II dell’Analitica dei concetti (I ed.), la quale segue la deduzione trascendentale (Sezione seconda), lo sottolinea con enfasi: che l’immaginazione sia un ingrediente essenziale della percezione non era stato detto da nessuno psicologo. Ciò a causa del fatto che da una parte questa operazione di costituzione della continuità spazio temporale era stata attribuita ai sensi, dall’altra che l’immaginazione era stata limitata al suo uso riproduttivo.
L’immaginazione opera insomma non soltanto su ciò che Hume chiamava idee, le riproduzioni, ma anche su ciò che egli chiama le impressioni, o per meglio dire sul loro presupposto, le intuizioni pure: vi è un’immaginazione pura che costruisce la continuità delle forme spazio-temporali, sulla quale vanno a distribuirsi i dati sensoriali.
Bisogna quindi distinguere fra un’immaginazione pura (quella descritta qui da Kant e che opera nella percezione) e un’immaginazione riproduttiva empirica (quella dell’automatismo associativo humeano e che opera nelle successive associazioni). La prima è condizione della seconda: nessuna qualità sarebbe riprodotta per associazione ad un’altra se entrambe non fossero state unite in una figura dall’immaginazione pura, che opera ritenzionalmente sui punti spazio temporali. L’immaginazione riproduttiva empirica si fonda quindi sull’immaginazione pura, che agisce in un atto sintetico originario e va quindi annoverata tra le facoltà trascendentali dell’animo.
A questo punto dovremo vedere l’ulteriore fase di questo atto (il legame con l’appercezione e la concettualizzazione). Ma per ora occorre sottolineare questo passo, questa seconda risposta, anch’esso provvisoria, verso il chiarimento di quella regolarità esperienziale che il meccanismo riproduttivo humeano presuppone ma non spiega.
 
  1. La sintesi della ricognizione: l’appercezione come regola intellettuale

L’atto sintetico che costituisce l’oggetto d’esperienza comprende non solo tempo (§2) e immaginazione (§3), ma anche la concettualizzazione. Il terzo momento della sintesi vede quindi l’entrata in scena del concetto. Ora, ciò che rende la sintesi spazio temporale e immaginativa una sintesi concettualizzante è l’Io Penso o Appercezione Trascendentale[12]. Si tratta di quella coscienza che accompagna ogni contenuto d’esperienza. L’argomento di Kant è semplice: non posso unificare con lo spazio, il tempo e l’immaginazione le proprietà di una cosa senza essere cosciente di questa unità;  ma la coscienza dell’unità delle proprietà di una cosa è il suo concetto[13];  la sintesi è quindi concettualizzante; il concetto della cosa fa poi da base ad ogni riproduzione immaginativa[14].
Insomma non si può percepire senza unificare le proprietà di qualcosa e non si può unificare senza essere coscienti di questa unità; ma essere coscienti di un’unità significa avere un concetto: dunque non si può percepire senza concettualizzare. In altri termini: quando si unificano le proprietà, di questa unità si è coscienti; ciò vuol dire che la sintesi, nella sua stessa effettuazione, costruisce concetti, che la concettualizzazione è un suo momento essenziale. Questa concettualizzazione, naturalmente, non fa venir meno l’irriducibilità dell’intuizione al pensiero, il fatto che la differenza fra queste due facoltà sia di specie e non di grado, ciò che Kant ribadisce sempre contro il razionalismo.
Dunque nell’atto stesso in cui le molteplici proprietà vengono unificate dal tempo e dall’immaginazione, viene costruita un’unità di cui il soggetto è cosciente; questa unità di proprietà è appunto il concetto.
Il punto di svolta è il modo in cui viene inteso il concetto: esso non è un’unità ideale e identica che sussiste indipendentemente (Platone), ma, come si è detto, la coscienza di un insieme di proprietà; ora la coscienza unitaria di un insieme di proprietà è esattamente ciò che si realizza nella sintesi[15]; dunque se la sintesi dell’apprensione e dell’immaginazione si realizza come coscienza di unità di proprietà, essa si realizza come sintesi secondo concetti.  Essere cosciente di un oggetto è dunque concettualizzarlo, essere cosciente di quella gamma di fattezze che ne fanno quell’oggetto e non un altro.
Insomma la sintesi nell’addizionare elemento a elemento e nel produrre unità è indissociabile dalla coscienza; e poiché il concetto è un’unità di cui si è coscienti, la sintesi concettualizza. Ciò che permette alla sintesi immaginativa di essere sintesi concettuale è proprio lo statuto non platonico di quest’ultimo, il suo essere coscienza di unità di proprietà. Il campo dei concetti non è dunque solo il pensiero puro ma anche l’esperienza percettiva.
A questo punto però occorre aggiungere una precisazione. La coscienza di unità è inscindibile dalla coscienza unitaria di sé; il termine leibniziano Appercezione vuol dire proprio questo: non potrei essere cosciente di qualcosa senza essere cosciente, almeno implicitamente, di me stesso; altrimenti esso per me non sarebbe nulla. Si tratta delle condizione prima di ogni conoscenza: se durante l’unificazione il “polo io” cambiasse, essa non sarebbe possibile. Dunque per ricapitolare: tempo e immaginazione procedono alla sintesi come coscienza di unità (il concetto), ma la coscienza di unità è accompagnata dalla coscienza di sé (appercezione); è l’appercezione a rendere la sintesi dell’intuizione e dell’immaginazione una sintesi secondo concetti[16].
Possiamo illustrare il ragionamento con uno schema.
  1. La sintesi dello spazio tempo e dell’immaginazione unifica il molteplice, trascorrendo da elemento a elemento, da proprietà a proprietà, e trattenendo nell’istante attuale quelli già trascorsi.

  2. Di ciascuna delle proprietà unificate e di questa stessa unità io sono cosciente. Si forma così una coscienza di unità.

  3. Questa coscienza di unità è alla base di ogni riproduzione empirica (immaginazione riproduttiva).

  4. La coscienza di un’unità permanente di proprietà è il concetto.

  5. Questa coscienza di unità è indissociabile dalla coscienza che ho di me stesso (appercezione trascendentale).

  6. La sintesi dell’intuizione e dell’immaginazione immaginazione, grazie all’appercezione trascendentale, è concettualizzante.

La differenza d’approccio al problema dell’esperienza rispetto a Hume è palese: la regolarità dell’esperienza non è un’aspettativa psicologica, una credenza, ma un’unità concettuale che, grazie all’Appercezione, penetra dalle funzioni logiche del pensiero ai fenomeni. Per unità concettuale si deve intendere un’uniforme regola che si iscrive nella mia coscienza al momento dell’unificazione percettivo-immaginativa del molteplice e che presiede alla sua riproduzione.
Alla necessità di una sintesi intellettuale Kant arriva riflettendo sulla nozione di oggetto.[17] Esso è ciò che si oppone a che le nostre conoscenze si determinino a casaccio; il che esprime l’esigenza di una sintesi del molteplice conforme a regole. I tanti problemi interpretativi, legati all’oggetto trascendentale x e al fatto che esso sia l’oggetto delle rappresentazioni, non indicano uno scivolamento precritico verso la cosa in sé: le rappresentazioni hanno un oggetto perché devono entrare in una sintesi conforme a regole; l’oggetto, l’oggettivo, è l’uniforme regola di costruzione delle rappresentazioni. Allo stesso modo in Husserl la yle sensoriale è attraversata da una regolarità che permette di apprenderla come un noema trascendente.
L’oggetto trascendentale x è quindi il correlato identico dell’appercezione, dove identico vuol dire tale in ogni ripresentazione. La nostra coscienza d’identità dice Kant è talmente debole da essere collegata all’effetto, l’oggetto, più che all’atto di unificazione[18]. Ma coscienza dell’identico qualcosa vuol dire coscienza, unificata in un concetto, dell’identica molteplicità che lo costituisce in ogni possibile futura occorrenza.
 
  1. L’applicazione delle categorie all’esperienza.

Ora una volta stabilito che l’atto sintetico, grazie al suo legame con l’appercezione è concettualizzante, come si dimostra che esso procede secondo le categorie? Siamo quindi al nocciolo del problema: perché le categorie sono applicabili all’esperienza? Perché gli enunciati su sostanza e causalità non sono generalizzazioni dell’esperienza, ma le regole con cui essa è costruita?
Come prima si è visto l’ampliamento che Kant fa della nozione logico formale di concetto, occorre ora verificare che cosa accade per la nozione di giudizio. I due termini sono in effetti sostanzialmente identici: essi implicano una coscienza unitaria di proprietà, la sussunzione di un molteplice sotto un’unità. Il concetto non è altro che un giudizio abbreviato: infatti ogni concetto (X) ha un’intensione, ossia un insieme di proprietà definitorie  (a, b, c). Il giudizio categorico, affermativo, singolare, assertorio non fa altro che esplicitare la singola proprietà di un concetto, ponendo questo e quella come soggetto e predicato (X è a). Gli altri giudizi non sono che una variazione di questa forma base. Dunque il concetto è il giudizio. Perciò se non si può percepire senza concettualizzare, la concettualizzazione è una implicita costruzione di giudizi e dunque presuppone le regole con cui esse sono costruiti, ossia le categorie.
Il ragionamento kantiano, che nella seconda edizione della Deduzione viene articolato in modo più lineare, emerge con chiarezza anche nella prima edizione
  1. la sintesi dell’appercezione, rivolta al molteplice dell’esperienza, produce una concettualizzazione

  2. la concettualizzazione avviene attraverso la costruzione di un giudizio

  3. le categorie sono le funzioni con cui i giudizi sono costruiti

  4. la sintesi dell’appercezione rivolta al molteplice dell’esperienza implica l’uso delle categorie

  5. le categorie sono applicabili all’esperienza.

Torniamo quindi alle due principali categorie, sostanza e causalità. La sostanza è appunto la funzione che ci permette di costruire il giudizio categorico. Il giudizio categorico, come si è più volte visto, fa questo: attribuisce un predicato ad un soggetto, una proprietà a qualcosa. È proprio nel giudizio categorico, ossia nell’uso della categoria di sostanza, che viene fissato che cos’è l’oggetto che abbiamo di fronte, quali siano le sue proprietà di fondo; questo giudizio, anche se non esplicitamente formulato, accompagna e sorregge implicitamente l’esperienza percettiva: ciò vuol dire che non si può percepire senza concettualizzare secondo la forma del giudizio categorico. Se si percepisce X, come provvisto di una sua identità riconoscibile, è perché di X, nell’atto percettivo stesso, è stato fissato il concetto attraverso un implicito giudizio categorico. Dunque la categoria di sostanza è la regola con cui è costruita l’esperienza.
Insomma, percepire un oggetto significa avere un’esperienza coerente e questo è possibile solo se è stato costruito un giudizio in cui è espresso il suo che cos’è. Il giudizio categorico, la funzione logica, per cui ad un soggetto (sostanza) viene attribuito un predicato, è la funzione con cui i fenomeni vengono fissati nella loro identità. Questo fissare conoscitivamente si situa nell’esperienza ordinaria e non solo in quella scientifica propriamente detta: non potremmo orientarci in un mondo di oggetti, riconoscerli e distinguerli, senza che ciò avvenga. È la categoria di sostanza che, mettendo in relazione un soggetto e un predicato in un giudizio, fissando per una cosa le sue proprietà, concettualizzando per un oggetto il suo che-cos’è, funge da linea guida dell’esperienza.
Perciò l’oggetto fenomenico non è semplicemente un’associazione di qualità sensoriali, come volevano Locke e Hume: per Kant l’esperienza dell’oggetto è indissociabile dal giudizio in cui è espresso il suo che cos’è; solo così esso ci appare come un nucleo stabile di proprietà. A Locke e a Hume manca quindi la concettualizzazione come momento costitutivo dell’esperienza della cosa, quello in cui si fissa la sua identità anche al di là dell’esperienza momentanea. È per questo che si imbattono nel circolo vizioso per cui la regolarità fonda l’abitudine e l’abitudine fonda la regolarità.
Il resoconto sulla percezione di un oggetto X non dice “ogniqualvolta che vedo la proprietà A ritrovo la proprietà B” oppure “adesso che percepisco A associato a B, mi viene in mente di aver già constatato questa associazione”. Il resoconto sulla percezione di un oggetto X, molto più semplicemente, dice che “X è A e B”; questo è possibile perché di X è stato fissato il concetto inteso come gamma di proprietà articolabili nel giudizio; la percezione insomma va di pari passo con la concettualizzazione: X è stato concettualizzato come avente le proprietà A e B secondo le linee guida dalla categoria di sostanza, che ci fanno distinguere e mettere in relazione un oggetto e le sue caratteristiche.
La critica di Locke al concetto di sostanza, che vuole accusare il resoconto ordinario sulla percezione (vedo X), è in realtà ancora più ingenua, perché ritiene che si possa percepire senza concettualizzare. Mancando di questo aspetto concettuale, essa non va al di là né dell’occasionalità né della privatezza dell’esperienza.
A questo punto sorge una domanda: non è arbitrario ciò che dice Kant? Perché concettualizziamo nell’atto stesso di percepire? Insomma perché le categorie, in questo caso la categoria di sostanza, dovrebbero essere le linee guida non solo del pensiero giudicativo, ma anche dell’esperienza? Perché esse sono applicabili all’esperienza?
La Deduzione trascendentale delle categorie ha già risposto a queste domande secondo lo schema che sopra abbiamo esplicitato. E la risposta è inequivocabile: affinché l’oggetto sia qualcosa di più che un insieme di qualità sensoriali, affinché l’addizione delle qualità sensoriali si trasformi in un nucleo di proprietà stabili, affinché, insomma, la concettualizzazione avvenga, occorre la sintesi dell’appercezione. Ogni proprietà percepita dall’apprensione e riprodotta dall’immaginazione entra stabilmente nella coscienza, l’io ne è cosciente; ma questa coscienza stabile delle proprietà di qualcosa da parte dell’io è esattamente il concetto. Perciò la coscienza rende l’atto sintetico interno alla percezione capace di concettualizzare e dunque di costruire l’oggetto come nucleo stabile di proprietà, un nucleo che può essere riconosciuto in molte occorrenze.
Naturalmente che una proprietà determinata sia strutturalmente inerente a qualcosa di determinato può dircelo soltanto l’esperienza, che rimane così sempre aperta e correggibile. Essa però è sempre interpretata alla luce dello schema logico “X è a”, ossia: un soggetto ha una certa proprietà. Questo schema è una funzione con delle variabili: è l’esperienza, tramite l’atto sintetico, a dire che cos’è quell’oggetto, quali proprietà abbia, a determinare quelle variabili, a dar loro un valore determinato per esempio “Xè a1”; in questo caso posso sbagliarmi di fatto, constatando successivamente che aera una proprietà accidentale e stabilire che gli compete a2; ma questo errore di fatto sui valori della variabile (a1, a2, etc.non tocca la funzione “X è a”, che  resta di diritto applicabile all’esperienza. A mostrare la legittimità di questo diritto è appunto la Deduzione trascendentale.
In altri termini ciò che l’esperienza può smentire è che questa cosa abbia questa proprietà, non che in generale ci siano delle proprietà che rendono tale il qualcosa; ciò non è una generalizzazione che sia smentibile dall’esperienza, perché è la regola stessa su cui l’esperienza è costruita da un atto sintetico che tramite l’appercezione concettualizza nel modo del giudizio categorico. Non aver colto questa differenza è stato l’errore di Locke e di Hume. Se in un’esperienza riconosciamo un oggetto che abbiamo già visto, non è perché le qualità associate ci richiamano alla memoria l’esperienza precedente, ma perché l’una e l’altra ci mettono di fronte a diverse occorrenze temporali di un nucleo concettuale di proprietà, ossia un nucleo di proprietà di cui siamo coscienti, che in linea di principio la cosa deve avere. Mentre in Locke (e in Hume) il riconoscimento passa attraverso l’automatismo psichico dell’associazione, secondo una direzione orizzontale da esperienza a esperienza, in Kant esso passa attraverso la costruzione di un concetto dell’oggetto, ossia attraverso la sintesi dell’appercezione, secondo una direzione verticale. Un concetto naturalmente che è sempre correggibile e integrabile, ma, nondimeno, un concetto e non un automatismo percettivo.
La Deduzione trascendentale delle categorie insomma ci spiega perché l’autocomprensione dell’esperienza ordinaria (“X è A”) non è una illegittima pretesa, a cui Kant aggancia la concettualizzazione per salvarsi dalla radicalità della critica di Locke e di Hume. La concettualizzazione avviene effettivamente perché nell’atto sintetico la coscienza è legata alle proprietà che esso unifica; tale coscienza unitaria, necessariamente presente, è, appunto, la concettualizzazione.
Lo stesso discorso va fatto per la causalità. Il giudizio ipotetico non è che una complessificazione in cui due giudizi categorici vengono messi in relazione, uno come premessa l’altro come conseguenza. Ogni successione temporale deve essere sottoposta al vaglio di questo schema onde stabilire se i fenomeni che si susseguono siano o no l’uno causa dell’altro. Una successione temporale si connette sempre alla categoria di causalità, o in positivo, per affermare il nesso di dipendenza, o in negativo, per negare questo nesso di dipendenza (affermando che non c’è condizionamento dell’uno sull’altro e configurando così o una situazione di indifferenza o, se è il caso, applicando la categoria di azione reciproca); nel caso di un’indeterminazione causale che non rientri nell’azione reciproca, si andrà a cercare un altro fattore causalmente efficace.
Anche per la causalità, dunque, si verifica ciò che abbiamo riscontrato per la sostanza: può certamente essere un errore di fatto dire che “X1 implica Y1”, perché Yè una semplice concomitanza; ma allora, come sopra è emerso, l’implicazione sarà Y, Y2 , Y, etc.; dunque, di nuovo, l’errore di fatto sulle variabili non tocca di diritto la funzione in quanto tale: “X implica Y”, è la regola necessaria per l’esperienza. Che qualcosa in generale abbia una causa non è una mera generalizzazione dell’esperienza, ma la regola universale con cui l’appercezione costruisce la sintesi dei fenomeni in successione.
Ecco perché le successioni causali sono qualcosa di più di un decorso temporale sedimentato, che, come dice Hume, innescherebbe l’automatismo psicomotorio delle aspettative sul fenomeno seguente, una volta che sia dato quello precedente. La causalità è per Kant uno schema logico; come la sostanza è la funzione che opera nel giudizio categorico, così la causalità è la funzione che opera nel giudizio ipotetico. L’appercezione accompagna in un caso una sintesi statica, nell’altro una sintesi dinamica; essa è la coscienza che accompagna l’atto sintetico e che lo rende capace di concettualizzare da una parte la cosa come nucleo di proprietà (sostanza), dall’altra la successione come implicanza regolare di stati di cose (causalità).
A Hume manca quindi l’elemento della concettualizzazione della successione di stati di cose. Questa concettualizzazione non deve far pensare al nesso analitico: quello fra causa ed effetto è per Kant un nesso sintetico anche se a priori. La sinteticità e l’apriorità sono entrambe garantite dall’appercezione, dal fatto che la sintesi degli elementi in successione è accompagnata dalla coscienza ossia dalla costruzione di un concetto che ne esprime la struttura profonda: il fatto che non possa darsi X senza Y. Di nuovo la singola successione è riportata da Kant non, orizzontalmente, alle esperienze decorse, in un meccanismo associativo irriflesso, in un automatismo psicomotorio che non esce né dalla privatezza né dall’occasionalità, ma, verticalmente, al concetto di un evento che fissi la sua costituzione interna in termini di causa-effetto e di cui le singole successioni sono occorrenze.
I giudizi sulla sostanza e la causalità in generale, i giudizi che affermano “X è a” e “X implica Y” non sono fattuali, ma normativi: non sono generalizzazioni dell’esperienza, ma condizioni per cui le generalizzazioni dell’esperienza, in termini di cose provviste di proprietà e di processi uniformi, sono possibili.
A questo punto, però sorge un problema, quello dei concetti empirici: se il concetto è empirico, esso deve essere dato dopo l’oggetto; come può allora essere la regola con cui lo costituisco? Come possiamo dire che la sintesi originaria che costituisce l’oggetto sia concettuale?
La risposta è ancora una volta l’Appercezione nel suo nesso con l’atto sintetico: che il concetto sia empirico non vuol dire che esso sorga dopo l’esperienza, ma che esso sorge nell’esperienza, di cui anzi è la struttura portante: non accade che prima faccio esperienza e poi concettualizzo, poiché l’esperienza comporta in sé stessa la concettualizzazione. Non c’è dunque alcuna difficoltà per il concetto ad essere empirico e normativo dell’esperienza. Insomma in Kant il concetto non sorge dopo l’esperienza dell’oggetto, come nell’empirismo né tantomeno sta prima, come nel platonismo, ma sorge durante, ossia nel corso dell’atto sintetico. Con questo naturalmente Kant non fa scomparire l’estetica nell’analitica, l’intuizione nel concetto, la sensibilità nell’intelletto, ma anzi pone questo al servizio di quella: il razionalismo, che risolve l’intuizione nel concetto, al pari dell’empirismo, che non scorge la concettualizzazione come elemento portante dell’esperienza, non coglie tutta la complessità dell’atto sintetico.
 
  1. Gradi di fondazione

È emerso innanzitutto che il molteplice empirico deve strutturarsi sul molteplice puro: spazio e tempo sono il primo livello dell’atto sintetico.
In secondo luogo il molteplice puro è strutturato dall’immaginazione (a1). Essa costituisce il secondo livello dell’atto sintetico.
L’immaginazione pura a sua volta si fonda sull’appercezione, che opera una concettualizzazione dell’esperienza. Essa costituisce il terzo livello dell’atto sintetico (a2).
Infine l’immaginazione empirica riproduce oggetti costituiti dall’atto sintetico, di cui i concetti costruiti dall’Appercezione sono il culmine (b).
 
  1. La fondazione della regolarità dell’esperienza

Abbiamo detto che il campo in cui operano i concetti non è solo il pensiero puro, ma anche l’esperienza percettiva. Il concetto, dunque, nel suo statuto logico, entra a fissare l’oggetto fenomenico nel suo che cos’è.
Ma cosa comporta tutto questo? Il concetto comprende in sé una certa intensione, un insieme di note che lo definiscono. Ora in un ragionamento il principio d’identità esige che questa intensione rimanga la medesima in ogni passaggio. Il concetto è dunque un’unità ideale che si ripresenta identica in varie occorrenze, un ἕν ἐπὶ πολλῶν; perciò se i concetti fissano gli oggetti, essi portano nell’esperienza questa loro caratteristica di essere un’unità che si ripete identica; di conseguenza posso dire di avere un’occorrenza percettiva dello stesso oggetto e non un oggetto nuovo, poiché si ripresenta la stessa unità concettuale, ossia la stessa unificazione sintetica compiuta dall’appercezione: che gli oggetti d’esperienza siano conosciuti come uniformi deriva dal fatto che essi sono occorrenze di unità concettuali; l’uniformità in generale, come si è visto, non è un fatto, che un giorno potrebbe essere smentito, ma la regola con cui l’appercezione, concettualizzandoli, li ha costituiti. Se l’esperienza è concettualizzante, la regolarità è qualcosa di necessario. Che io possa sbagliarmi nella concettualizzazione, ossia nella sintesi del molteplice di proprietà interne, o che questo molteplice sia incompleto, non toglie il fatto che in linea di principio nell’oggetto trovo un’unità che, in quanto concettualizzata, deve ripetersi identica. Il mutamento stesso è possibile solo sulla base di un sostrato che appare identico, altrimenti avrei lo sparire e l’apparire di contenuti.
Per quanto ciò possa sembrare paradossale il concetto è dentro l’esperienza percettiva; esso è, per dirla con Husserl, il suo senso. Ciò fa sì che essa esca dalla privatezza e dall’occasionalità e sia capace di scienza. Naturalmente dobbiamo aver cura di non confondere la posizione di Kant con quella del razionalismo: l’oggetto non è l’unità concettuale, ma l’occorrenza intuitiva di esso. E, d’altro canto, il fatto di trovarlo nell’intuizione non deve portare a confondere Kant con l’empirismo: l’oggetto non è un insieme di qualità sensoriali privo dell’unità fissata dalla concettualizzazione.
Questo è essenziale per il discorso su sostanza e causalità. Le proprietà di una sostanza (il molteplice di un oggetto concettualizzato), così come l’effetto di un fenomeno (il nesso concettuale ipotetico), non sono qualcosa che semplicemente si dà e che io mi aspetto, ma qualcosa che deve esserci (müssen) giacché l’esperienza, grazie al suo riferimento all’Appercezione, è costruita secondo concetti articolati in giudizi, di cui esse sono le strutture di fondo.
La concettualizzazione avviene dunque secondo sostanza e causalità. Ciò vuol dire che ciò che fisso con sostanza e causalità ha lo statuto di un concetto, che deve ripetersi identico in ogni occorrenza.
Quando la sostanza fissa le proprietà dell’oggetto attraverso il giudizio “X è a”, essa costruisce un’unità valida per ogni occorrenza dell’oggetto, che proprio per questo è qualcosa di più di un agglomerato di qualità sensoriali. Chiaramente – e questo punto già e emerso –  posso sbagliarmi nell’affermare che questa cosa abbia questa proprietà, ma che l’esperienza in generale sia costituita da cose fatte di proprietà e che questa cosa debba avere delle proprietà è necessario a priori, vista la natura concettuale della sintesi.
Analogamente per la causalità. In un giudizio ipotetico si ha un antecedente tale che, una volta posto, deve essere posto anche il conseguente.  Questo “se… allora..” nell’esperienza diventa il nesso che lega una causa ad un effetto. Poiché questo  “se… allora..” ha lo statuto di un concetto, ossia  di un’unità ripetibile nella sua identità per ogni occorrenza di quella successione, posso dire non che mi aspetto quell’effetto, ma che quell’effetto deve necessariamente esserci se la concettualizzazione è corretta. Certo, anche in questo caso posso sbagliarmi nell’affermare che due fenomeni abbiano una relazione causale, ma il fatto che l’esperienza in generale sia retta dalla causalità e che questo fenomeno debba avere un antecedente causale è necessario a priori, vista la natura concettuale del “se… allora”.
Anche qui dobbiamo aver cura di non dimenticare la specificità della posizione kantiana e di non fare del concetto un’entità a sé come l’idea platonica o il Sinn di Frege. Il concetto è indissociabile dalla sintesi operata dall’appercezione, è l’unità di cui l’io è stabilmente cosciente.
Appare chiaro allora come Kant possa dire che l’io è legislatore della natura[19]: poiché l’appercezione permette alla sintesi dell’intuizione e dell’immaginazione di essere sintesi concettuale e poiché il concetto è un’unità logica ideale e identica che si ripete in ogni occorrenza, l’appercezione porta nell’esperienza l’identica ripetibilità che è propria del concetto, introducendovi una regolarità che, quanto alle sue strutture di fondo, non è di fatto ma di diritto.
 
 
BIBLIOGRAFIA
 EDIZIONE E TRADUZIONE ADOTTATE
A1          Kritik der reinen Vernunft von Immanuel Kant Professor in Königsberg, Riga, verlegt Johan Friedrich Hartknoch, 1781.
A2       Kritik der reinen Vernunft von Immanuel Kant Professor in Königsberg, der Königl. Akademie der Wissenschaften in Berlin Mitglied. Zweyte hin und wieder verbesserte Auflage. Riga, bey Johan Friedrich Hartknoch, 1787.
 
Kant, Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi 1976 (1957).
  1. La traduzione Colli presenta numerose varianti e correzioni.

 
OPERE DI RIFERIMENTO
 
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CHIODI P                                                     La Deduzione nell’opera di Kant, Taylor, Torino 1961.
DE VLEESCHAUWER H. G.                      La déduction transcendantale dans l’œuvre de Kant, S. Gravenhage, Anvers-Paris 1934-37.
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PATON H. J.                                                 Kant’s Metaphysic of experience, Allen and Unwin, London 1936.
SCARAVELLI L.                                         Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968.
VAHINGER H.                                             Kommentar zu Kant’s K. d. r. V., herausgegeben v. H. E. Fischer, München 1920.
 
 
[1] «Tutte le apparenze stanno dunque in una connessione universale secondo leggi necessarie e sono quindi legate da un’affinità trascendentale di cui quella empirica è semplicemente la conseguenza»; A1 85; trad. it. 184-185.
[2] Locke, Saggio, II, XXII, 1; 324
[3] Ivi, 2; 324-325.
[4] Ivi, 6; 328.
[5] Hume, Trattato, I, 1, 6, p. 28.
[6] « È senza dubbio una legge semplicemente empirica, quella secondo cui le rappresentazioni spesso susseguentisi o concomitanti finiscono per associarsi fra loro e per connettersi in modo tale che, una di queste rappresentazioni – anche senza la presenza dell’oggetto – produca secondo una regola costante, un passaggio dell’animo all’altra rappresentazione. Questa legge della riproduzione presuppone tuttavia che le apparenze stesse siano sottomesse ad una regola: in caso contrario la nostra capacità d’immaginazione non potrebbe fare nulla conformemente a ciò che è in grado di fare. […]Se il cinabro fosse ora rosso ora nero, ora leggero ora pesante; se un uomo potesse trasformarsi ora in questa figura animale ora in quella; se i campi nel giorno più lungo dell’anno ora fossero coperti di frutti, ora di ghaccio e di neve: in tal caso la mia capacità empirica d’immaginazione non potrebbe mai avere l’occasione, a proposito della rappresentazione del colore rosso, di farsi venire in mente il pesante cinabro » A77-78; trad. it. 161-163. «Il fondamento della possibilità dell’associazione del molteplice si chiama, in quanto è contenuta nell’oggetto, l’affinità del molteplice. Io domando dunque: come riuscite a rendervi comprensibile l’universale affinità delle apparenze […]?» A1, 85, trad. it. 184-185.
[7] Naturalmente la necessità che qui è in gioco non è quella del nesso analitico, ma quella del sintetico a priori.
[8] A1 74-86; trad. it. pp. 152-186.
[9] A1 77, trad. it. 158-160.
[10] Per l’opportunità di introdurre questo termine cfr. infra Appendice.
[11] «Se col pensiero io traccio una linea o se voglio pensare il tempo che intercorre fra un mezzogiorno e l’altro oppure se voglio rappresentarmi un certo numero è evidente che io devo necessariamente afferrare nel pensiero questo molteplice di rappresentazioni una dopo l’altra. Se invece il mio pensiero perdesse sempre le rappresentazioni precedenti (le prime parti di una linea, le parti precedenti del tempo, oppure le unità rappresentate successivamente) e se io non le riproducessi mentre rpocedo verso le rappresentazioni seguenti, in tal caso non potrebbe mai sorgere una rappresentazione completa. […] La sintesi dell’apprensione è dunque inscindibilmente congiunta con la sintesi della riproduzione»; A1 78-79; trad. it. 164-166. Qui il termine riproduzione va inteso in senso ritenzionale e non rimemorativo. Cfr. in proposito l’Appendice.
[12] Per la distinzione fra Io Penso e Appercezione Trascendentale cfr. SCARAVELLI.
[13] «Già la stessa parola concetto potrebbe suggerirci tale osservazione. È infatti questa coscienza una ciò che riunisce in una rappresentazione il molteplice che è stato gradualmente intuito e in seguito anche riprodotto» A1 79; trad. it 167-168.
[14] Heidegger trova dietro la veste esteriore della concettualizzazione l’apertura, preliminare all’intenzionalità rivolta all’ente, di un campo ontologico temporale insaturo, rivolto ad un costante ad-venire. Heidegger, leggendo la Critica della Ragion pura all’insegna del problema della metafisica e più in particolare del nesso fra la comprensione dell’essere e il tempo, vede nella sintesi tripartita le tre dimensioni della temporalità (Temporalität) quale orizzonte di comprensione del darsi dell’essere.
[15] «Il modo in cui il molteplice della rappresentazione sensibile (intuizione) appartiene ad una coscienza precede dunque ogni conoscenza come forma intellettuale di essa» A1 94, trad. it. 212. «Tutte le intuizioni per noi non sono nulla e non ci riguardano minimamente, se non possono essere accolte nella coscienza» A1 87, trad. it. 189.
[16] «Questa medesima unità trascendentale dell’appercezione trasforma d’altronde tutte le apparenze – che possano eventualmente coesistere in un’esperienza – in una connessione di tute queste rappresentazioni in base a leggi. La coscienza originaria e necessaria dell’identità di se è dunque al tempo stesso una coscienza di un’unità di tutte le apparenze in base a concetti, cioè in base a regole, le quali le rendono non soltanto riproducibili, ma in tal modo determinano altresì un oggetto per la loro intuizione» A1 82; trad. it. 175- 176. Si consideri anche il seguente passo: «L’io stabile e permanente dell’appercezione pura costituisce veramente il termine correlativo di tutte le nstre rappresentazioni in quanto risulti mai possibile divenir coscienti di esse. […]. È appunto questa appercezione che deve aggiungersi alla capacità d’immaginazione allo scopo di rendere intellettuale la sua funzione.». A1 91, trad. it. 202-203.
[17]«È qui necessario farsi un’idea di che cosa si intenda con l’espressione: oggetto delle rappresentazioni. […]. È facile comprendere che questo oggetti deve essere pensato solamente come qualcosa in generale (= x), poiché al di fuori della nostra conoscenza noi non possediamo nulla da poter contrapporre come corrispondente a tale conoscenza. Noi troviamo peraltro che il nostro pensiero sulla relazione di ogni conoscenza con il suo oggetto porta con sé un elemento di necessità: tale oggetto in effetti viene considerato come ciò che si oppone a che le nostre conoscenze vengano determinate a casaccio o arbitrariamente […]. In realtà in quanto tali conoscenze sono destinate a riferirsi ad un oggetto, esse devono altresì – a riguardo di quell’oggetto – accordarsi necessariamente tra loro, cioè possedere quell’unità che costituisce il concetto di un oggetto». A1. 80-83; trad. it. pp. 168-178.
[18] «Questa coscienza può spesso essere assai debole, cosicché noi la connettiamo soltanto all’effetto – e non già nell’atto stesso, cioè immediatamente – con la produzione della rappresentazione»; A1 79; trad. it. pp. 168.
[19] «L’ordine e la regolarità delle apparenze, che noi chiamiamo natura, siamo noi stessi a introdurla» A 92, trad. it. 205; «L’intelletto non è dunque una facoltà per costruire regole con il raffronto delle apparenze; esso stesso è il legislatore della natura» A1 93; trad. it. 207.