Nicola Gragnani | Filosofia della mitologia: ancora una possibilità? Riflessioni a partire dall’ultimo Schelling

Lezione n. 1
 
“Filosofia della mitologia”.. come si desume dal titolo della lezione, dall’ “ancora”, siamo di fronte ad una considerazione inattuale, per dirla con Nietzsche, perché ad oggi non credo esista da nessuna parte del mondo uno specifico insegnamento filosofico di questo tipo, anzi in un certo senso inattuale fin dal suo sorgere, perché quando Schelling elaborò la sua filosofia della mitologia, negli anni trenta e quaranta dell’ottocento, già il suo astro era considerato al tramonto, superato (o così si pensava) dapprima dal genio di Hegel e poi dalla portentosa forza critica della sinistra hegeliana. Oramai Marx, con il nascente materialismo dialettico, rielaborava e donava spessore al miglior illuminismo europeo (tramite il sale del medium hegeliano, naturalmente), e così tutta la vecchia architettura della tradizione filosofica veniva spazzata via per sempre, con il suo ancoraggio metafisico a Platone e Aristotele, con la sua (sembrava) pomposa, trita e ritrita difesa della morale tradizionale, della conservazione e della fede; in un contesto simile, la grande opera di distruzione della tradizione occidentale cosa poteva ancora richiedere al vecchio Schelling di Berlino, che sotto mentite spoglie (gli altisonanti nomi di “filosofia negativa” e “filosofia positiva”) celava e riproponeva la solita e antica metafisica e anzi, peggio che mai, la metafisica nel suo consueto antichissimo ruolo di ancella della teologia? Si pensi a questo proposito che Marx ed Engels si organizzarono contro Schelling come fosse un nemico di classe, ed Engels andò ad ascoltare le lezioni berlinesi di Schelling, “travestito” da studente, per scrivere poi l’“Anti-Schelling”, dimostrando naturalmente, per il bene dell’idea rivoluzionaria, l’ipocrita ascendenza borghese del pensiero schellinghiano.
Inattualissima, inoltre, se si pensa che l’oggetto di questa disciplina filosofica è già da lungo tempo ad appannaggio esclusivo delle scienze empiriche, e appunto a partire dagli studi settecenteschi e fino alle più moderne ricerche delle scienze storiche e antropologiche; cosa potrebbe mai aver da dire sulla mitologia la filosofia, così povera com’è di dati esperienziali e di rigorosi e scientifici metodi d’indagine? Perché mai la filosofia dovrebbe sconfinare nello storico, in ciò che non le compete? Sì, ma cosa compete, oggi, alla filosofia, una volta strappatele via la natura, la psiche, la società, l’educazione, la storia? Perché la filosofia, se già possediamo la descrizione scientifica del mondo? Domande non oziose ma decisive e neppure estrinseche al problema che ci proponiamo di trattare, perché anzi ogni autentica riflessione filosofica, e la filosofia della mitologia non fa eccezione, è anche sempre una radicale ripresa della filosofia stessa, è una riflessione sul pensiero, sulla sua origine, sulla sua essenza e sul suo destino.
Intanto, prima di interrogarci intorno alla possibilità della filosofia della mitologia, dobbiamo tornare alla proposta di Schelling e rispondere alla domanda: che cos’è, che cos’è stata la filosofia della mitologia? Una riflessione sull’essenza del mito, indubbiamente, ma anche molto di più, perché interconnessa all’intera filosofia e articolata in una serie complessa di corsi di lezione, pensati secondo un ordine sistematico (anche se poi fattualmente mai esposti precisamente in tale successione). Ci basti per ora un colpo d’occhio preliminare sul tutto, per aprirci fin da subito all’impressione della grandiosità del disegno schellinghiano. Chi volesse scalare l’intera costruzione filosofico-mitologica di Schelling dovrebbe dunque, secondo l’autore stesso, armarsi della pazienza necessaria ad affrontare i seguenti momenti:
1) “Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia”, che esplicita i principi dell’”empirismo speculativo” di Schelling, della “filosofia positiva”;
2) “Introduzione storico-critica alla filosofia della mitologia”, in cui Schelling discute le false interpretazioni della mitologia ed espone i principi fondamentali della sua peculiarissima spiegazione ;
3) “Il Monoteismo”, che costituisce il presupposto per la comprensione della mitologia propriamente detta, e che è allo stesso tempo ancora la posizione di un basilare principio della mitologia ma anche già allo stesso tempo l’inizio della riflessione sulla storia dell’essere umano e del suo rapporto con il sacro;
4) La “Filosofia della mitologia” propriamente detta, ovvero il momento del dispiegarsi della molteplicità degli dèi nella coscienza umana;
5) “I Misteri”, termine medio tra la mitologia e la Rivelazione (non trattati in corsi specifici, ma esclusivamente nelle lezioni di “Filosofia della Rivelazione”);
6) La “Filosofia della Rivelazione”, che corona l’intero edificio sistematico.
 
 
 1. Principi filosofici generali della filosofia della mitologia
 
Leggiamo, nella prima lezione della “Filosofia della mitologia”, che «ad una teoria che si proponesse di spiegare a partire dalle cause universali un fenomeno che è paragonabile per profondità, durata e universalità solo alla natura stessa, potrebbe facilmente capitare di essere biasimata come una fantasticheria..».[1] Ecco, l’intera filosofia è coinvolta nella filosofia della mitologia, che dunque non è affatto una disciplina filosofica nel senso odierno dell’espressione, ma proprio filosofia tout court, filosofia “classica”, se è vero che il fenomeno mitologico deve essere spiegato «a partire dalle cause universali»; e neppure trattasi qui di un fenomeno tra fenomeni, da rendere oggetto d’analisi filosofica magari soltanto perché poco o mai indagato “filosoficamente”, perché, al contrario, Schelling ci sta avvertendo che la mitologia è un fenomeno del tutto eccezionale, «paragonabile per profondità, durata e universalità solo alla natura stessa». “Profondità”, per ciò che la mitologia manifesta ed è, uno specifico gioco intra-coscienziale delle cause prime stesse; “durata”, perché le più antiche tracce scritte che abbiamo della mitologia (in Grecia, ad esempio, Esiodo e Omero), non sono nient’altro che l’ultimo atto del processo mitologico stesso, la trascrizione e messa in ordine di un’esperienza antichissima anche per i più antichi, un vissuto che certamente si perde nei più recessi meandri di ciò che chiamiamo “preistoria” e di cui nessuno può con precisione determinare la durata; “universalità”, perché in effetti, da Babilonia all’Egitto e fino ai popoli precolombiani, gli uomini hanno vissuto la sacralità nella forma della molteplicità delle divinità. E non è neppure un caso, restando alla citazione, che la mitologia venga paragonata alla natura, perché ciò che è in gioco nella mitologia sono in effetti, secondo Schelling, le stesse potenze forgianti precedentemente il mondo, esattamente le stesse forze, ma vissute nella sfera coscienziale. Infine, Schelling avverte che una spiegazione del fenomeno mitologico così inusuale da connetterlo direttamente ai principi primi di tutte le cose non potrà che «essere biasimata come una fantasticheria»; inevitabile, dunque, che tutto ciò che seguirà sembrerà all’ascoltatore comune, o anche all’intellettuale comune, interamente falso, astruso, artificioso, una stramberia, appunto solo una “favola”, un “mito”.
Schelling prosegue poi, nella medesima lezione introduttiva, esplicitando il metodo da utilizzare: «Qui dunque non è in questione, quale opinione debba assumersi del fenomeno, affinché esso, reso conforme ad una qualsivoglia filosofia, possa essere agevolmente spiegato, ma viceversa, quale filosofia si richieda, affinché, cresciuta con l’oggetto, ne sia all’altezza»; ovvero, ancora più significativamente, e quasi ad anticipare quella riflessione metodologico-filosofica che è stata (ed è?) la “fenomenologia” del novecento, si tratta di vedere «..fino a che punto i nostri pensieri devono ampliarsi, per essere in rapporto col fenomeno».[2] Un ottimo metodo, non c’è dubbio, dal quale ancora oggi sarebbe necessario ripartire, anche se non ci dovremmo nascondere che poi lo stesso Schelling, insistendo forse eccessivamente nello schematismo delle potenze, volto a rintracciare la ripetizione di una medesima struttura in ogni formazione mitologica, non sempre riuscì a rimanere fedele al suo proposito. In ogni caso, restando alla dichiarazione d’intenti, è bene che il filosofo si vieti l’anticipazione del fenomeno, ed è bene che l’empirico e il filosofico si compenetrino reciprocamente; soltanto così la mitologia riuscirà a spiegare se stessa: l’oggetto deve dispiegarsi davanti ai nostri occhi, semplicemente, svelando così la sua intima struttura, indeducibile ed imprevedibile prima del suo apparire effettivo.
Abbiamo così già enunciato o meglio accennato ad un primo principio filosofico decisivo per la nostra questione, la compenetrazione della filosofia con l’empiria, con l’esperienza. La filosofia dello Schelling dei corsi di Monaco e Berlino differisce radicalmente, a questo proposito, dalla filosofia schellinghiana precedente (sia detto en passant e tra paretesi: non esistono i “molteplici periodi” della filosofia di Schelling, sei, persino sette per alcuni, se non nelle semplificazioni tutto confondenti dei manuali scolastici e della critica; valga invece, come criterio ermeneutico, l’auto interpretazione del filosofo, che riconosceva l’esistenza di due soli momenti differenti nel suo pensiero: quello della filosofia “negativa” e quello della filosofia “positiva”, e tanto fa), e differisce proprio perché la speculazione idealistica, la filosofia “negativa”, trattando la sola essenza delle cose, si precludeva l’accesso all’esperienza, anzi, più precisamente, non si rendeva conto di non poter essere la totalità della filosofia, non si rendeva conto di abbandonare come esterna a se stessa, ed incompresa, l’esistenza stessa. La differenza dell’esistenza rispetto all’essenza e la conseguente determinazione della filosofia tradizionale come “semplice” filosofia prima (che indaga appunto il was es ist dei fenomeni sotto la guida sicura della domanda “che cos’è?”), a cui affiancare una filosofia seconda, positiva (centrata sul daß es ist), costituisce quindi il primo generalissimo presupposto per la comprensione della mitologia.[3]
In questo contesto, le riflessioni di Schelling sull’esistenza, sull’ “è”, sembrano davvero anticipare taluni momenti dell’esistenzialismo, perché, a detta del filosofo, quando siamo di fronte ad alcunché, sempre lo penetriamo col pensiero, perché il pensiero ha una vocazione all’uscita da se stesso per cogliere l’essenza ideale delle cose, eppure l’esistenza di quell’alcunché, di un qualsivoglia singolo oggetto, quell’esistenza è e rimane del tutto irriducibile alla ragione, indeducibile e impenetrabile, differente, in quanto la presenza di quel singolo, di quel tode ti, come lo chiamava Aristotele (ed è chiaro che qui il riferimento, oltre ovviamente al classico Kant, va naturalmente e in primo luogo al pensatore greco), l’esserci di quel singolo colpisce la ragione come un extra-razionale. L’esistenza è l’esistenza, la filosofia non la comprende, la ragione non ne coglie l’in sé, in quanto l’esistere non è una forma, non è pensiero: fine dell’idealismo tedesco, superato dall’interno dal suo stesso fondatore, (come già notò a suo tempo M.Heidegger, riferendosi però alle Ricerche del 1809).
Si dirà, si è detto: lo schematismo delle potenze dimostra di per sé, nella sua hegeliana triadicità, che Schelling è restato sostanzialmente sul posto, non ha suo malgrado superato l’impostazione idealistica, e anzi sarebbe proprio per questo falso movimento che un suo studente delle lezioni berlinesi, Kierkegaard, inizialmente risvegliato al suo compito proprio dalla parola “realtà” pronunciata dall’anziano Schelling, dopo pochi mesi finì per abbandonare il corso, disgustato dal tremendo e vacuo “chiacchierare” del filosofo. Vero, Kierkegaard non poteva sopportare l’”impotenza” della dottrina delle potenze, e diveniva così per questo pienamente se stesso, ma Schelling, dal canto suo, aveva posto la questione dell’esistenza, della singolarità, dell’irrazionalità, dell’angoscia, della libertà, del cristianesimo, e il Kierkegaard giovane e “ribelle” se ne accorse indubitabilmente..
Invece, Schelling aveva davvero abbandonato l’idealismo (segregandolo nella filosofia prima, se non altro), non dubitiamone, se è vero che l’esperienza viene esplicitamente da lui ripensata, kantianamente, come fonte indipendente della conoscenza, e ciò fino all’estremo di affermare che tanto la ragione non esercita potere sull’esistenza da risultare assurdo ogni suo affannarsi a dimostrare l’esistenza stessa o meno degli oggetti esterni (lo dice proprio Schelling, che nel Sistema dell’idealismo trascendentale iniziava il tutto dal dubbio cartesiano), così come astruso risulterebbe il sospendere il giudizio sulla loro realtà effettiva: dimostrare l’esistenza dell’oggetto, negarla, sospenderla sono atti in cui la ragione si occupa di ciò che non le compete. L’oggetto si dà infatti nell’esperienza, spontaneamente, come già esistente, e ogni fuoriuscire e tradire questa datità, che si fonda solo e soltanto sulla pura fede prefilosofica e indimostrabile nell’esistenza delle cose, significa di fatto semplicemente spostarsi inavvertitamente nel puro elemento logico, come accade ad esempio ad Hegel al principio della Fenomenologia, attraverso il famoso superamento del “questo” della certezza sensibile; ora, “questo” gesso e “questa” sedia possono essere detti esclusivamente attraverso l’universale “questo”, sono perciò semplicemente “essere”, Hegel fin qui ha ragione, ma la presenza di un singolo oggetto, l’esistenza, è l’impenetrabile quid che permette alla ragione di applicarsi ad alcunché, di applicarsi come sa applicarsi la ragione alle cose, certo, ovvero cogliendone effettivamente l’universale, ma solo dopo la posizione della cosa stessa, della singolarità impensabile.[4]       
Così, venendo al dunque, isolando l’esistenza, liberandola dall’essenza, il filosofo giunge a porre il puro concetto della stessa, l’esistenza priva di essenza, di potenzialità, l’esistenza puramente attuata, e questo ente vero, completo e perciò impensabile, è ciò che a sua volta colpisce la ragione stessa che lo pone, e per questo la ragione se ne sta estatica, fuori di sé, incapace di operare, stordita dalla maestosa impenetrabilità dell’assolutamente esistente. L’assolutamente esistente è, che poi sia anche Dio, questo solo la storia potrebbe mostrarlo, quella storia sacra che racchiude e si innerva nella storia profana, e che la filosofia, se non vuole rimanere mero sviluppo logico di concetti, deve tentare di interpretare.
Ma l’ipotesi è proprio questa, che l’incondizionatamente esistente sia Dio, l’Uno, lo Spirito Perfetto, e l’ipotesi è fondata, da ultimo, su questa proposizione pratica: “Io voglio ciò che è al di sopra dell’essere”.[5] Se dunque la filosofia negativa, nel migliore dei casi, risalendo dialetticamente l’essenzialità, poteva terminare con la posizione dell’ente supremo, appagante la contemplazione (il Bene platonico, l’Atto Puro aristotelico), la filosofia positiva, cominciando a partire dal vertice, dalla posizione della Sostanza (in senso spinoziano), muove il suo primo passo effettivo oltre questa mera base conquistando subito il concetto dell’inconcettualizzabile Herr des Sein, il Signore dell’essere, la pura Libertà.
Ribadisco: il principio reale dal quale muove la filosofia positiva, l’affermazione di volere ciò che sorpassa e domina l’essere stesso, è un puro e semplice atto di volere. Nessuna intuizione intellettuale del principio, nessuna deduzione, nessun fondamento logico inoppugnabile, nessuna evidenza; solo un moto del cuore, la volontà che le cose stiano proprio così, un motivo pratico. Fondandosi sul volere, radicandosi nella sfera pratica (chiaro, è Kant il lampante punto di riferimento di tutto ciò), la filosofia positiva, in ossequio alla tradizione, si presenta come filosofia seconda, e le due diverse direzioni del filosofare talvolta possono, ma soltanto possono, intersecarsi, senza necessità.        
 
  1. Che cosa non è la mitologia
Se l’idea di Dio è il presupposto della filosofia della mitologia, allora, già solo per questo, tutte le interpretazioni più in voga della mitologia devono cadere. Si pensava ai tempi di Schelling (e le cose si sono fatte oggi più sofisticate, ma la sostanza è restata la stessa) che la mitologia si potesse risolvere in una pura invenzione poetica, del singolo o del gruppo, oppure in un travestimento di antichissimi fatti storici, oppure in un’allegoria di dinamiche sociali, o psichiche, oppure infine, la più consueta di tutte le idee, in un simbolico richiamo alle forze della natura. La mitologia non è nessuna di queste cose. Esiodo ed Omero ad esempio, cominciando dalla prima ipotesi, non inventarono certo gli dèi, ma li trovarono come puro materiale per la loro elaborazione poetica, e non sono infatti da considerare propriamente come due poeti, quanto piuttosto, spiega Schelling, come un’”epoca della coscienza”, l’epoca del tramonto della coscienza mitologica. Del tramonto, come attesta l’esigenza stessa della scrittura, il bisogno di trascrivere una storia degli dèi (la Teogonia di Esiodo), come se un ciclo fosse compiuto, una storia fosse effettivamente giunta al suo compimento; del tramonto, come attesta, sempre per via della scrittura, l’emergere della parola logica e sistemante ordinatamente gli dèi (il logos) dall’interno della parola-immagine-racconto, talvolta disordinato e contraddittorio, la parola del mito (il mythos, che significa appunto di nuovo “parola”, ma nel senso di fabula). Fattualmente, non la poesia ha generato la mitologia, ma è stata la mitologia a generare piuttosto la poesia e a fungere, per millenni, da materia di base di ogni invenzione poetica.
L’invenzione poetica infatti, per quanto divinamente ispirata, è sempre anche caratterizzata da un’esplicita intenzionalità, da un agire conscio manifestamente assente nel prodotto mitologico. Non che la mitologia non abbia a che fare anche con la fantasia e la poesia, ma non può essere semplicisticamente risolta e dissolta in questi termini, almeno tradizionalmente intesi, non romanticamente intesi (e la vera proposta romantica, si badi bene, non è un’esaltazione soggettivistica della fantasia, ma un’ontologia della stessa, la posizione della “Poesia” come centro dell’essere).
Oppure, fin dai tempi di Evemero, si tentava di ridurre altrimenti la mitologia alla storia, e si diceva allora che i vari dèi fossero stati un tempo re, eroi, personaggi importanti insomma, poi divinizzati. Ora, lasciando da parte il fatto inspiegato dall’evemerismo, che abbisognerebbe poi di spiegazione ulteriore, della necessità universale di divinizzare da parte dell’essere umano (nello stesso periodo di Schelling, e partendo da Schelling, del quale seguiva le lezioni berlinesi, Feuerbach si impegnerà appunto in questa direzione), vale qui, come per tutto il ragionamento riduzionista in generale, il principio semplicemente logico della differenza, spesso ingenuamente non notata, fra la relazione tra due termini e l’identità degli stessi. Si scopre cioè che un determinato dio ha un nome quasi identico, o anche identico, ad un antichissimo re, e dunque si conclude per l’identità tra il re e il dio; allo stesso modo, secondo il riduzionismo invece naturalistico, si nota così che Persefone significa “seme”, Dioniso “vino”, Urano “cielo”, Gaia “terra”, e così trionfanti si conclude che Persefone è il seme del grano, Dioniso è proprio il vino, Urano nient’altro che il cielo e via così di riduzione in riduzione. Invece, alcune figure mitologiche potrebbero richiamare personaggi storicamente esistiti (problema ulteriore: quegli antichissimi re, non saranno a loro volta narrazioni mitologiche?), molte divinità certamente richiamano le forze della natura, sono in relazione con la natura, come anche con dinamiche sociali o psichiche, ma da tutto ciò non segue affatto, in nessun modo, che le divinità siano processi psichici, sociali, naturali, storici ecc...
Il giusto rapporto tra divinità e i suddetti processi, che solamente dall’altezza della filosofia della mitologia può scorgersi, è esattamente rovesciato: non prima il processo empirico, e poi un’allegoria dello stesso, ma il processo empirico, al contrario, come richiamo simbolico del mondo divino: Persefone non simboleggia il seme, ma al contrario è il seme a simboleggiare Persefone, è l’elemento più basso ad allegorizzare il più alto, e il rapporto inverso è impensabile, in un certo senso addirittura ridicolo. Non è infatti ridicolo, ironizza Schelling, pensare che gli antichi greci, che già quotidianamente seminavano e lavoravano producendo grano e vino, si dovessero poi ritrovare ad Eleusi a celebrare complessi riti iniziatici, ritenuti tra l’altro segretissimi, nei quali si sarebbe dovuta divinizzare la personificazione del seme di grano? Non è grottesco pensare che il segreto dei Misteri, la cui presunta rivelazione portò anche Esiodo quasi alla morte, dovesse consistere nella rappresentazione del fatto che un seme, piantato nella terra, produce poi frutti? Non sarà invece vero che il movimento del seme, che cade nella terra e “muore”, richiami al contrario un movimento spirituale, ed un essere che è, e non solo che rappresenta, questo movimento stesso?
Nella seconda metà del novecento, per esemplificare ancora la logica riduzionista, si è affermata l’idea di Duemila delle “tre funzioni”, e la mitologia allora, rinvenute in varie tradizioni le tracce di una medesima struttura sociale, è divenuta la proiezione di dinamiche di potere intercorrenti tra sacerdoti-regnanti, guerrieri e forze produttive e riproduttive; ma siamo anche qui “alle solite”, anche se la teoria è accompagnata dalla più minuziosa delle indagini filologiche e da una vasta e robusta erudizione: la mitologia si risolve nelle tre funzioni sociali, oppure semplicemente ha anche a che fare con esse? E ancora, Freud sostenne l’ardita ipotesi della nascita del totemismo, nell’orda primitiva, dal parricidio ad opera dei figli invidiosi del monopolio esclusivo sulle donne, padre ucciso e introiettato con atto cannibalico e perciò rielaborato in seguito come senso di colpa, con conseguente proiezione del paterno sull’animale, sacralizzato al fine di istituire il divieto dell’omicidio del proprio genitore e per permettere il ritorno all’ordine sociale (non troppo distante da quest’ipotesi, ma di taglio più spirituale, l’interessante proposta ermeneutica di R.Girard, antropologo e filosofo vivente che lega strettamente il sacro e la violenza); ma anche qui, che certe dinamiche mitologiche abbiano a che fare con il paterno (si pensi alla storia di Urano, castrato dalla falce del figlio Crono, il dio “dai torti pensieri” e poi divoratore dei suoi propri figli..), il legame col paterno del mito significa che la mitologia è la messa in opera e in rito del complesso edipico?
La filosofia della mitologia non scarta interamente nessuna di queste ipotesi (e anche per questo necessita sempre del dialogo con le scienze storico-empiriche), ma parte invece dal presupposto che la coscienza mitologica, presupposto in fondo ovvio, è una coscienza religiosa, e come tale deve essere indagata e rispettata. Dal punto di vista che oggi diremmo fenomenologico, ciò che si manifesta nella coscienza religiosa è in primo luogo il “sacro”, e non un’immagine fantastica, personificata, travestita, di qualcos’altro. La logica riduzionistica afferma: la mitologia è qualcos’altro, non è se stessa. La logica della filosofia della mitologia, al contrario: la mitologia è puramente autoreferenziale, tautegorica, ed è perciò ciò che ritiene d’essere, la posizione di un rapporto ontologico tra l’uomo e ciò che lo sovrasta, una manifestazione del sacro, dell’assoluto. Perciò, posto il sacro nel centro della coscienza mitologica, tutti i legami con l’universo dei bisogni, delle fantasie, delle dinamiche relazionali e di potere, con la storia e con la natura sono riconosciuti come veri e concorrono alla ricostruzione di un mondo infinitamente complesso; deposto invece il sacro, posizionandosi sul trono della scienza, ovvero al di là e al di fuori dell’oggetto osservato, pregiudizialmente pensandolo come falso, dimenticandosi che la mitologia è coscienza mitologica ed abbassandola a significare come dall’esterno uno o più rapporti empirici, attraverso questa barbarie intellettuale, tutto il significato religioso del fenomeno, ovvero la sua essenza, è interamente e irrimediabilmente perduto, e si crederà pure di poter tenere tra le mani l’essenza della mitologia, ma si starà invece nella situazione del necrofilo, abbracciati ad un cadavere, innamorati di un simulacro.          
   
  1. Il principio della mitologia
Se l’intero edificio della filosofia positiva poggia sull’idea di Dio, non ci si stupiremo nel rinvenire in un mito il principio specifico, particolare, della mitologia propriamente detta. Per comprendere adeguatamente il complesso reticolo di racconti e ritualità mitologiche, abbiamo bisogno di un principio fondamentale, e il fondamento è di nuovo un mito. Una filosofia narrativa ha il suo fondamento in una narrazione, da questo circolo non si può, non di vuole e non si deve uscire, pena il ritorno al non “positivo”, alla mera elaborazione intellettuale. Di che mito si tratta dunque, qual è il mito fondativo dei miti? Rispondiamo: il mito della caduta, naturalmente. Schelling lo introduce nel corpo stesso, nel cuore della sua filosofia già dal 1804 (Filosofia e religione), ma è con uno scritto meno conosciuto del filosofo che vorrei introdurlo, uno scritto del 1809, appena successivo alle Ricerche filosofiche sulla libertà umana, ovvero il dialogo Clara, una sorta di Fedone moderno, che Schelling scrisse per se stesso e per il figlio, che non volle pubblicare, e che certamente fu ispirato dalla morte della sua Caroline, che pochi anni prima aveva sposato (una vera donna “romantica”: pericolosa, malinconica, affascinante, intelligente, sempre nei pressi della morte – perse il primo di più mariti e vari figli - , una donna soprannominata nel suo circolo filosofico-culturale “Madame Luzifer”, mentre Schelling, suo marito, si meritò il titolo di “Baal il profeta”.. vedete un po’ voi se concluderne qualcosa..).
Leggiamo allora senza indugi, nel “Clara”, che «dalla libertà dell’uomo dipendeva anche l’elevazione dell’intera natura. Tutto era rimesso alla possibilità che l’uomo dimenticasse quel che era dietro di lui, cogliendo ciò che gli stava innanzi. L’uomo però tornò a voltarsi indietro, e di più, tornò a desiderare e ad avere nostalgia del ritorno in questo mondo esteriore, fino a perdere in tal modo il mondo celeste, arrestando non soltanto il proprio sviluppo, ma anche quello dell’intera natura. Chi ha visto con i propri occhi quali terribili conseguenze abbia per il corpo umano uno sviluppo bloccato.. costui potrà formarsi una qualche idea delle rovine e della devastazione che l‘uomo, imponendo bruscamente un ostacolo alla sua evoluzione, ha fatto subire alla natura intera. Le forze che si erano sollevate pienamente e potentemente..ricaddero nel mondo che le circondava, soffocando così l’impulso di vita interno che certamente agisce ancora come un fuoco covante, ma che, resasi impossibile ogni sua autentica elevazione, è solo un fuoco di tormento e di angoscia, che da ogni lato ricerca uno sfogo»[6].
Innanzitutto, l’evento immemorabile della caduta, della perdita dell’età dell’oro, della cacciata dal paradiso, questa figura eterna delle religioni e delle filosofie (si pensi ad esempio al platonico mito della caduta della biga alata), non coinvolge semplicemente l’uomo e il suo destino, ma l’intera natura. Il mito dell’Abfall ha una portata ontologica, è lo sconvolgimento fondamentale delle forze dell’essere, quella Trennung (divisione), quell’ Abfernung (allontanamento) dalla pienezza, quella ferita che segna l’essere nel profondo, e che è difficile risanare. Viviamo in un mondo decaduto, e tutto ciò che ci circonda, il mondo anche splendido della natura, è però malato di una malinconia ontologica, venato di tristezza e nostalgia del ritorno, è un mondo di forze inquiete, compresse, sbilanciate, talvolta caotiche e irrazionali; la natura, l'ambiente che abitiamo, è il mondo quale non doveva essere, ma per via della libertà si è fatto reale. La caduta, che è un rovesciamento delle forze in gioco, è la messa in opera del fenomeno del male.
Notiamo allora e inoltre che il principio della natura stessa, quale ora la esperiamo, non si trova nella natura, ma lo si scorge soltanto in immagine, e la natura reca semplicemente la traccia di un evento soltanto mitologicamente narrabile. Si possono scoprire molte cose interessanti studiando scientificamente la natura, oppure attraversandola concettualmente, ma l’essenza della natura è “rovina” e “devastazione”, e solo attraverso la mitologia, dunque, si accede ad una conoscenza profonda della vita.
Principio della natura effettiva, attuale (non della creazione, o prima formazione della natura), la caduta è il fondamento della possibilità stessa di ogni male, come già detto. Leggiamo a proposito del male, ancora nel Clara, queste incisive parole: «In che cosa consiste, ancora oggi, il male, se non in un cammino regressivo della natura umana che, invece di volersi elevare alla sua propria essenza, si mantiene costantemente, cercando di realizzarlo, in ciò che dovrebbe essere soltanto la condizione della sua attività, il silenzioso e passivo fondamento della sua vita? Da dove deriva la malattia se non sa un’inerzia nello sviluppo, se non dal fatto che una forza singola rifiuta di procedere con il Tutto, di spegnersi nel Tutto, e al contrario vuole ostinatamente essere per sé?»[7].
Il male, la kantiana inversione dei moventi radicata nel profondo della natura umana, l’elevazione dell’egoità al rango di principio supremo ed unico della condotta, consiste essenzialmente nel coltivare incessantemente il fondamento della nostra natura, nel permanere nel fondamento, nel cercare in tutti i modi di realizzarlo, di renderlo transitivo. La malattia è l’immagine perfetta del male, perché ogni male riproduce il movimento della malattia, sviluppo bloccato per via della parte che procede per conto proprio, senza armonizzarsi col tutto, ma chiudendosi in se stessa, cercando l’autonomia, l’assoluta individualizzazione, la frattura con la totalità. Ma cosa ci sta dicendo, qui, Schelling? Soltanto questo, che ad esempio il polmone si isola, fa a modo suo, e l’individuo soffoca nell’asma, oppure che la cellula si rifiuta all’armonia con le altre, si sviluppa per conto proprio, e prende così corpo un tumore, e questo movimento, questa malattia del chiudersi e rendersi sordi alla totalità, questo movimento è propriamente il movimento del male.
Ora, se le cose stanno così, se l’uomo è malvagio, e se la caduta è l’atto originario dell’innalzamento della forza egoica, allora la caduta, va da sé, è anche il principio basilare per comprendere l’essere umano, la sua “psicologia”. Si possono osservare moltissime cose sull’essere umano, ma il suo principio fondante, tuttavia, non si trova propriamente in lui stesso, ma in una tragedia cosmica (o cosmo-teandrica, secondo la formula di Pareyson, in quanto coinvolgente nella tragedia persino Dio), nella frattura primordiale della “caduta”, nell’eccitazione del “fondamento”.
Ma il “fondamento” non è certo soltanto, in Schelling, la base, la sostanza, la forza intrinseca dell’essere umano, ciò che doveva rimanere silenzioso, puro nulla, e così svolgere la sua funzione, permettere il pieno sviluppo delle potenzialità superiori, non è soltanto questo, o meglio è proprio questo il concetto del fondamento, ma la portata di quest’idea, come sempre in Schelling, possiede un calibro maggiore, non circoscrivibile all’uomo, una estensione metafisica, oppure, forse meglio, onto-teologica. Il fondamento del nostro essere, che è la nostra stessa egoità infiammata, è anche il fondamento della natura, quindi le forze che ci costituiscono, l’impulso e il volere che sono la radice reale del nostro essere, sono nient’altro che l’impulso, il volere che, appunto, “fonda” la natura stessa: “Wollen ist Ursein”, sentenziava Schelling nelle Ricerche, anticipando di qualche anno la filosofia schopenhaueriana.
Ma il fondamento del nostro essere, che è il fondamento della natura, è certo anche il fondamento di Dio, la natura di Dio, la natura in Dio. Un concetto, questo, molto difficile, qui vi accenniamo brevemente. Dio è per Schelling, almeno dal 1809, il Dio cristiano, la pura Persona, nel linguaggio delle Ricerche l’”Esistenza”, ma ogni esistenza, anche quella di Dio, poggia su una base che ne permette lo sviluppo, il “Fondamento”, ovvero una pura forza, forse oggi qualcuno direbbe una pura “energia” (ma da intendersi sempre come l’energia del Trieb, dell’impulso), una forza di per sé irrazionale ma che anela all’intelletto e che si apre “eroticamente”, espansivamente, ma che anche può chiudersi, negarsi; in Dio vi è questa potenza naturale, un “Sì” ma anche un “No”, il principio di ogni negatività pensabile, ed insieme questi due contraddittori aspetti di Dio, che non sono ancora propriamente Dio, costituiscono la base della sua esistenza, del pieno dispiegarsi della sua pienezza d’amore, della sua triplice personalità.
Dal concetto del fondamento ricaviamo, intanto, quest’idea scandalosa: il male significa mantenersi nel fondamento, coltivarlo, perché la forza del male è la forza del fondamento; quest’ultimo, però, è la natura di Dio, così, dunque, concludiamo: il male è in Dio. Tuttavia, Schelling precisa, ciò che è in Dio, poiché permane come fondamento, base silenziosa, invisibile del suo essere, non può in nessun modo essere propriamente detto male; tuttavia quel “ciò”, quella “sostanza”, è proprio quella che, eccitata e risvegliata, costituisce il male, che non è in nessun modo un’assenza, ma un’esistenza reale, positiva. La forza del male è la forza di Dio.
Ora, tornando alla caduta, notiamo allora da ultimo che l’atto sconvolgente compiuto, in un tempo impossibile, dall’uomo, quale oggettivazione del fondamento, è stato insieme un vero e proprio rovesciamento dell’essenza divina. Una potenza di Dio è stata inopportunamente liberata (il vaso di Pandora è stato aperto, il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è stato assaggiato), - una potenza di Dio diciamo, non Dio stesso, in sé - (la pura Persona non viene coinvolta realmente nel processo, ma sì le sue forze, le sue “potenze”), il rapporto delle forze è stato sconvolto, l’armonia infranta, e Dio è ora soltanto un dio, come tutto il resto di ciò che è, sfigurato, invertito, rovesciato. L’uomo, dopo la caduta, si rapporta ancora a Dio, ma nella sua coscienza non entra più il vero Dio, bensì il dio rovesciato, l’essenza del fondamento. Inizia così la mitologia, il dominio del dio unilaterale, del dio esclusivo, che occupa e satura la coscienza, precludendo ogni possibile libertà. La caduta principia il movimento mitologico, e con ciò, oltre ad essere principio della mitologia stessa, si erge anche a principio dell’intera storia, che dalla mitologia muove i suoi primi passi. Il nostro mondo psichico, la natura, il male, la mitologia e le religioni, infine la storia stessa acquistano senso, cristianamente ma non solo, dalla consapevolezza dell’essere sprofondato, l’essere stesso, nel peccato. Anche la storia, certamente, perché la storia è attraversata dal principio e fino alla fine dalla “storia sacra”, perché la storia non sarebbe, se non fossero disarmoniche le potenze che caratterizzano il nostro essere uomini.       
 
  1. La lotta intradivina
Il fondamento divinizzato, il dio rovesciato, è la potenza B che dominò a lungo, per millenni o forse più, l’essere umano. Il primo principio della mitologia non è infatti nient’altro che la potenza del fondamento stesso riattivata dall’uomo, ma vissuta ora nella coscienza, percepita come divina e personale, adorata e soprattutto temuta, anche giustamente temuta, come subito vedremo. La Teogonia esiodea reca le tracce della primitiva credenza nel principio cieco, del primissimo momento religioso dell’umanità, pre-mitologico (in quanto veniva adorato un solo dio; il falso monoteismo è all’origine dell’intero movimento mitologico-storico), nella figura di Urano, in effetti per i Greci da noi conosciuti un dio antichissimo, ricordato ma non più adorato dai Greci stessi. Apollo, Dioniso, Zeus, Afrodite e gli altri dei Olimpi, questa è la religiosità greca che rese i Greci veramente tali (perché la mitologia, oltre a generare, nel suo movimento, la coscienza così come la conosciamo, fu anche naturalmente etnogonica, generò i popoli), questi cioè gli dèi a cui i Greci erigevano davvero templi. Di Urano e Crono si narravano, invece, delle storie, dei miti, erano dèi del passato, e questa è l’idea ermeneutica geniale di Schelling, che la Teogonia di Esiodo debba esser letta come una storia della mitologia, una ricostruzione cronologica delle rappresentazioni religiose, così come si sono succedute nella coscienza, dalla più remota religiosità uranica al trionfo di Zeus sulla brutalità dei Titani.
L’umanità inizia la sua storia da uno stato coscienziale per noi irrecuperabile, per noi che ci siamo o siamo stati liberati dal processo mitologico, una condizione di “teoplessia”, di passiva identificazione, senza distanza, senza estaticità, rispetto al principio divino; la coscienza umana era completamente intrecciata al divino, viveva nel principio universale, unico, lo percepiva come il suo stesso istinto. L’uomo mitologico non era quello attuale ed è da questa incomprensione che deriva innanzitutto l’impossibilità abituale di comprendere la mitologia. Questo principio primo veniva adorato come “astrale”, come “esercito del cielo”, ovvero le religioni astrali costituirono la prima religione dell’umanità , che dunque adorava un principio manifestantesi nelle stelle e negli astri (Schelling non disponeva ancora di adeguate nozioni sullo “sciamanesimo”, che forse lo avrebbero condotto in altre direzioni). L’uomo adorava l’essenza degli astri, e non ciò che semplicemente lo circondava e lo toccava più da vicino, come ci si aspetterebbe interpretando funzionalisticamente la mitologia, come uno strumento atto a risolvere determinati disagi. Perché, infatti, adorare una cosa lontana e insignificante come gli astri? Questo non sembra aver nulla a che vedere con ciò che sarebbe opportuno fare o credere per sopravvivere o potenziarsi, ma ha invece molto a che fare con ciò che Schelling chiamava “necessità delle rappresentazioni mitologiche”.
 La mitologia accadde nella coscienza e solo nella coscienza, ma universalmente e necessariamente. L’uomo non poteva dunque non adorare il cielo (Urano), semplicemente perché la sua coscienza era dominata, invasa dal Cielo, al di là di ogni opportunità, al di là di ogni speranza di ottenere qualcosa di buono dal cielo stesso. La mitologia tutta esclusivamente attraverso questo principio acquista un poco di intelligibilità. Infatti, nota Schelling, perché, ad esempio a Babilonia, una volta nella vita le mogli dovevano prostituirsi nel tempio di Militta, concedendosi anche per pochissimi soldi al primo venuto, allo straniero? Perché la prostituzione sacra in una cultura già all’epoca tradizionalmente maschilista e improntata alla più feroce gelosia? Oppure, perché le macerazioni dei sacerdoti, perché la più violenta castrazione come rituale? E perché sacrificare al dio cartaginese, al Moloch, i primogeniti? Forse i primogeniti non venivano amati anche all’epoca? E si potrebbe continuare, con molteplici esempi, perché la mitologia non è ricca semplicemente di storie (storie spesso estremamente violente), ma anche di ritualità, ancor più crude dell’evirazione di Urano ad opera di Crono, terribili ritualità insomma, in quanto mostruosamente reali. L’uomo doveva agire così, non poteva fare altrimenti.
Se la potenza B, ad ogni modo, avesse regnato sulla coscienza in perfetta solitudine, se fosse cioè stato reciso per sempre, nel “cadere”, il legame con ciò che è superiore, la storia non si sarebbe mai data in nessuna forma, e se invece la storia si è data e si dà, ciò accade proprio a causa della compresenza di una seconda potenza, messa fuori gioco dal rovesciamento iniziale e da quest’ultimo posta come fondamento al posto del fondamento, una potenza perciò costretta a non esprimere se stessa, e perciò compressa, sofferente, marginalizzata. Schelling la denominava il più delle volte A². Non abbiamo tempo per sviluppare qui a fondo la dottrina delle potenze, delle caratteristiche divine, che nel loro gioco forma il cuore dell’interpretazione schellinghiana della mitologia, e dunque richiamiamo semplicemente il principio fondamentale dell’intero sviluppo, che è appunto questo: la mitologia è determinata essenzialmente dal conflitto delle potenze, dalla lotta intradivina tra B ed A² al fine di produrre un terzo, A³. Se il principio positivo, logico, “umano”, inizialmente fu posto del tutto ad di fuori della portata percettiva della coscienza teoplettica originaria, nel corso del tempo, progressivamente, lentamente ma inesorabilmente, venne ad acquisire sempre maggiore importanza, si fece “sentire” dalla coscienza (che nelle mitologie è sempre la figura femminile: Gaia, Iside, Persefone..), conquistò spazio e si compenetrò con l’elemento B, rendendolo via via sempre più mansueto (Urano e Crono, come potenza B pura, sono divinità selvagge, Zeus, ancora B, è tuttavia un B già più mite, più razionale, ma ancora B, in ogni caso).
Sia chiaro, il processo mitologico, universale e necessario, ma lo si è già detto, accadde soltanto nella coscienza (l’incarnazione è invece l’accadere del divino nella storia effettiva, nel reale), ma ciò non toglie che ciò che la coscienza esperì fu una vera lotta, un vero conflitto tra le potenze intradivine e la propria inclinazione per entrambe; questa è la specificità della proposta schellinghiana: gli dèi sono esistiti realmente come potenze, come “dèi formali”, ovvero le figure della coscienza mitologica non sarebbero che il riflesso e la trascrizione coscienziale di realtà indipendenti dalla coscienza stessa, la messa in forma, insomma, di un sacro effettivamente esistente. Con una terminologia cristiana, ma indicando proprio le stesse realtà che attraversarono e attraversano ciò che siamo, si può intendere forse al meglio la lotta suddetta denominandola così, come l’eterno scontro di “Satana” e “Cristo”: “Satana” inteso come fondamento attualizzato, e “Cristo”, la potenza liberatrice e portatrice di libertà. Il terzo poi, l’A³, di conseguenza e ovviamente, non può che essere inteso come lo “Spirito Santo”, che nell’intera mitologia svolse la funzione di telos dell’intero processo.
 
  1. I Misteri e la Rivelazione
La mitologia, e ci avviamo così alla conclusione del discorso, resta in ogni caso, proprio in quanto tale, l’epoca del dominio sulla coscienza della potenza negativa, e già solo per questo la religione misterica non venne considerata da Schelling propriamente mitologica, perché nei Misteri domina la figura di Dioniso (A²), e non più quella di Crono (B). Non abbiamo tempo e spazio per analizzare, neppure brevemente, la complessa dottrina schellinghiana dei tre Dioniso (Dioniso Zagreo, Dioniso Bacco e Dioniso Iacco), e neppure, purtroppo, la cristologia schellinghiana, originale e complessa, che corona e dona senso all’intero edificio della filosofia positiva (lo si è ben capito, quest’ultima non è che la riproposizione di una robusta filosofia cristiana, per quanto decisamente e da svariati punti di vista sui generis). Diciamo allora soltanto che Dioniso, il dio della follia e del vino, venne interpretato da Schelling, anche, come una prefigurazione (o più che una semplice prefigurazione) del Cristo, e il grande segreto dei misteri, allora (questo l’azzardo ermeneutico di Schelling), dovette essere quello stesso conosciuto anche da Prometeo, da quel Prometeo incatenato che, nonostante l’imminente arrivo dell’aquila divoratrice di Zeus, ebbe la forza e la spudoratezza di affermare, proprio subendo il massimo potere di Zeus, l’imminente fine del suo regno, l’inarrestabile decadenza dell’intera mitologia, la morte degli dèi e l’avvento di un nuovo Signore, in tutto differente dagli dèi: l’avvento e l’incarnazione del Signore dell’essere.       
 
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[1] F.W.J Schelling, Filosofia della mitologia, Mursia 1999, p. 8.
[2] Ivi, p.9.
[3] F.W.J.Schelling, Filosofia della rivelazione, Bompiani Milano 2002, p.95.
[4] Ivi, p.99.
[5] F.W.J.Schelling, Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, Bompiani, Milano 2002, p.607.
[6] F.W.J.Schelling, Clara, Zandonai 2009, pp.34-35.
[7] Ivi, p.39.