Nicola Gragnani | Coscienza sciamanica

Lezione 3

  1. Lo stato di natura
Iniziamo, dunque! I filosofi, infatti, amano perdutamente l’inizio. Certo, qui l’inizio puro, metafisico, resta l’assioma indimostrato dell’Insondabile, che ora però se ne deve restare lì, come occulta immobile forza traente l’intera ricerca, bussola immanifesta di una navigazione impossibile, la terza. L’altro inizio, il motore della filosofia della mitologia, è già solo la Sua manifestazione, la traccia che chiamiamo il sacro e che è subito storia, subito appunto, perché storia significa manifestamente movimento del divino, di ciò che è sacro. Il sacro come elemento emergente nella storia è infatti una pura astrazione intellettuale scientista, basata sull’indimostrata supposizione che si sia dato prima un improbabile homo faber dedito tuttalpiù a scheggiare sassi e per il resto interamente bestiale, e poi l’homo culturalis con tutte le sue multiformi attività, tra cui anche alcune pratiche genericamente definibili come “religiose”. Il teorema che funge da guida a questi pensieri si potrebbe riassumere così: l’essenza dell’uomo è identica al livello di sviluppo della sua capacità materiale di trasformazione degli oggetti fisici.
L’essenza dell’uomo è ed era la sua capacità tecnica, questo in fondo pensiamo quest’oggi. Dal che deriva, con implacabile ma inconscia consequenzialità logica, che l’interiorità di ciò che definiamo “uomo primitivo” doveva essere estremamente rozza e non articolata in quanto il sasso si presenta scheggiato rozzamente, e che invece dovette successivamente farsi meno rozza perché il sasso lo troviamo scheggiato meglio. Sì, dal punto di vista del pensiero viviamo davvero questi tempi cupi! E’ incredibile ma resta inavvertito un fatto a dir poco essenziale, che si tenta cioè di ipotizzare l’interiorità umana a partire dalla sua assenza, a partire da mucchi di ossa e frammenti di cocci (impresa di improbabile equilibrismo intellettuale, nobile solo se lucidamente condotta nella consapevolezza della tragicità dell’impresa), così come resta inavvertito il teorema suddetto (l’essenza dell’uomo…), e quindi inesorabilmente anche ciò che lo sostiene e lo lascia accompagnarsi ad una potente sensazione di chiara ed evidente verità.
E che cos’è questo inavvertito presupporre come vero che permette allo storico dell’uomo di pensare come incontrovertibile verità l’equivalenza tra stato interiore ed esteriore/tecnico di sviluppo umano? Ovviamente, un quid nel quale siamo tutti immersi, qualcosa di troppo vicino per essere davvero scorto, l’idea centrale del nostro mondo: l’uomo è se è la tecnica, perché la tecnica è ciò che è. Che si traduce anche in termini valoriali così: ciò che è tecnico è buono, ovvero potente, intelligente, utile, vero e bello. E tutto ciò insomma significa, per farla breve, che lo studioso, come anche l’uomo medio e mediamente colto del nostro tempo, non si accorge di pensare l’uomo a partire dall’assunto-base dello spirito della nostra epoca, non si accorge di misurare la grandezza dell’umano a partire dal minuscolo elemento materiale lavorato, non si accorge di supporre l’uomo come progredito se e solo se lavorante, se lavorante la pietra e costruente la casa, e che l’uomo dunque a parer suo non può essere uomo se non come costruttore, come muratore. In sintesi ancora più estrema: l’uomo civile dei nostri giorni, pensando il primitivo, riesce a pensare solo a se stesso. Lui sì, infatti, è veramente “uomo” e si sente tale se e solo se si prende cura delle cose, se lavora, maneggia o produce cose tecniche e per questo, ipostatizzando se stesso, decide appunto che “uomo” significa proprio essere fatti così, come siamo noi, delle creature organiche che lavorano producendo oggetti mediante oggetti. Il pensiero che l’uomo possa essere anche tutt’altra cosa rispetto allo scalpellare una pietra, che l’uomo non scalpellante possa essere, questo pensiero non lo sfiora neppure; se mai poi lo sfiorasse, si tratterebbe in fondo soltanto di superare un breve momento sconfortante di nausea e poi tutto tornerebbe a posto, perché con un solo colpo d’occhio infatti, cogliendo computer e televisore, palazzi e macchine, la percezione dell’oggetto tecnico, la percezione del tecnico, che è ora e qui l’immediato oggetto sensibile, distruggerebbe, per giunta irritata d’esser stata detronizzata anche solo un istante, l’idea folle d’un uomo sovra-tecnico.
Quest’idea folle costituisce qui l’inizio e il consapevole rovesciamento dello sguardo materialista che affetta gravemente la comprensione di ciò che siamo. L’uomo iniziale, questa l’ipotesi, fu già da sempre nel sacro e la sua “interiorità” (chiamiamola comunque così) si sviluppò in illo tempore in modalità extra-tecniche, extra-tecniche ma non per questo animali; anzi, da un certo punto di vista, questa creatura qui che chiamiamo “uomo” era, contrariamente a ciò che si pensa comunemente, un essere interamente immerso nel super-umano che non lavorava la pietra, vero, ma non per mancanza di creatività e fantasia e volontà, ma perché incapace di vedere una pietra così come la vediamo noi. Forse più precisamente potremmo anche dire, senza troppo allontanarci dal vero, che l’uomo neppure riusciva a vedere la pietra, non poteva proprio vederla in nessun modo, e tanto fa. Ingenuamente infatti pensiamo che la percezione di un uomo di milioni d’anni fa dovesse essere identica alla nostra. Ora, se già fatichiamo assai a pensare ad un uomo senza stato, senza cultura, magari senza linguaggio o con passioni differenti dalle odierne (se lo facciamo, l’abbiamo accennato, otteniamo i due modesti risultati del togliere in primis l’uomo per pensare la scimmia, per poi in secondo luogo ritrovare nuovamente l’uomo in base all’equazione uomo = essere tecnico che lascia la fisica traccia tecnica della sua tecnicità), come potremmo dunque concepire l’idea radicale della storicità dello stesso atto percettivo? Non è vero che l’albero è ora lì di fronte a me e così lo stesso albero, potessimo teletrasportare dal passato proprio adesso l’uomo del tempo immemore, sarebbe colto proprio nello stesso e identico modo dall’occhio del rozzo primitivo? Qui urge una perentoria risposta: no, non è vero!
Siamo esseri misteriosi, lo dobbiamo capire una buona volta (o lo dovremmo almeno ricordare) perché l’uomo è ciò che muta sempre la sua stessa essenza, ciò che muta essenzialmente per sua stessa essenza, e se non vogliamo lasciar fuori il corpo dall’essenza, dobbiamo allora pensare anche il corpo stesso come essenzialmente mutevole, ed infatti effettivamente mutato nel tempo. Qui ed ora non vorrei, però, addentrarmi nella “storia della fisiologia occulta”, nella ricostruzione della fisicità dell’uomo prima che l’uomo fosse il consueto bipede che conosciamo; questo, per ora, lasciamolo inesplorato. Dico invece che il corpo dell’uomo che già riconosciamo come il nostro, con occhi, mani e piedi e tutto il resto al posto giusto, proprio il nostro corpo agiva allora sul mondo e interagiva con ciò che sentiamo ora come “interiore” in ben altro modo rispetto alla situazione odierna. Come conseguenza d’un diverso essere, d’un diverso relazionarsi, il corpo, l’uomo, percepiva tutto altrimenti, perché il corpo arcaico era un organo di conoscenza quasi interamente differente dal nostro. Per rappresentare la cosa comparativamente, bisognerebbe immaginare la differenza di percezione fisica tra l’uomo più che antichissimo e l’odierno proprio come assai simile a quella differenza di forza-pensiero che sussiste tra l’articolazione dei concetti della Scienza della logica hegeliana e quella delle affermazioni dei Teletubbies, le antenne televisive viventi di forma vagamente umana che accompagnano da tempo la crescita dei nostri bambini tecnici.
Dunque: non eravamo ciò che siamo, non saremo ciò che siamo. Il corpo percepiva di più, ovvero con più parti del corpo, oltre che ovviamente con più intensità attraverso i medesimi cinque sensi di cui tuttora è dotato. I nostri sensi si vanno oramai atrofizzando, è evidente, si fanno sempre più scadenti e il nostro corpo, nonostante l’affermarsi teorico del materialismo, è sempre più soltanto il veicolo per spostarci di qua e di là e per fare questo o quello. Noi viviamo infatti fuori dal nostro corpo pur disconoscendo interamente lo spirito; dove siamo veramente è questione perciò controversa e quasi imbarazzante, una questione psicologica spinosa che non potremmo risolvere senza porre l’enorme problema dell’esistenza dell’inesistente (ecco dove siamo, nell’inesistente che è! Ecco cosa siamo, nulla versato nel vuoto!), e qui non osiamo certo sprofondarci nel baratro dell’angoscia. Attestiamo soltanto la nostra estraneità al corpo, il nostro non sospettare neppure l’abisso che il corpo effettivamente è e le infinite possibilità che si celano in lui, attestiamo l’oblio del corpo che si palesa nel doversi preoccupare di ritornare al corpo, di recuperarlo, di sanarlo, di farlo correre e giocare a tennis, di tenerlo buono, di farcelo amico.
Invece, quando l’uomo fu corpo, fu però anche pienamente spirito. Quando l’uomo fu spirito, fu però anche pienamente natura. Quando l’uomo era natura, sentiva gli spiriti correre nel suo corpo e fra i corpi. E quando l’uomo si intratteneva con gli spiriti, soggiornava nell’altro mondo. L’uomo della natura stava nell’aldilà, il Tutto era allora con lui e tutto era lui, e il Tutto era in tutte le sue cose. Per questo l’uomo percepiva, sì, ma percepiva tutto in tutt’altro modo. Era l’uomo ma non era l’uomo. Nessun albero, dunque, si ergeva davanti a lui, perché non si davano ancora il “davanti” e il “lui”. Certo, se noi potessimo con appropriati mezzi tecnici spiare il tempo che fu, vedremmo effettivamente un uomo e un albero davanti ai nostri occhi; anzi, chissà, forse un giorno il prodigio tecnico avverrà davvero, la luce che illuminò quei giorni sarà catturata, l’immagine impressa nell’essere di quegli eventi sarà scrutata… ma ecco, proprio al compimento massimo della forza intellettuale tecnico-scientifica, ascolteremo l’inventore della nuova prodigiosa macchina osservare: «E dunque? Ecco qua, lo sapevo io, soltanto un uomo e soltanto un albero: nulla di nuovo sotto il sole!». Lo scientifico osservatore dimenticherà infatti inesorabilmente se stesso, cioè l’osservatore, per forza, per la forza della necessità che conduce sempre la scienza nel cuore profondo dell’essere dimenticandosi di se stessa, del proprio esser-forma-pensiero. Noi daremmo o daremo quella forma al nostro uomo arcaico e lo penseremmo davanti all’albero, ma faremmo con ciò lo stesso errore di chi sulla spiaggia pensa che l’acqua nella pozza tra gli scogli sia davanti al mare e non sia, invece e come è ovvio, il mare stesso.
Nessuna epoca può porsi al di fuori ed al di là del mito. Tutti abbiamo bisogno, in quanto uomini, di crescere immersi nel linguaggio, nelle parole, nei racconti e nelle interpretazioni. L’interpretazione ci orienta nel mondo. Ora, un pezzo del grande e complesso puzzle dell’ultimo mito, del nostro mito, il mito dell’anti-mito, racconta le origini dell’uomo (perché il mito è proprio parola che giunge dall’origine e all’origine) dall’universo animale, e conduce l’immaginazione ingenua (perché la parola mitica conduce per mano la fantasia) a rappresentarsi la scimmia-uomo nuda, forte e pelosa che se ne sale sugli alberi, caccia o spulcia l’altra scimmia-uomo e via così; lo scienziato racconta, attingendo dal tesoro abissale e sconosciuto (ai più) della presunta vera conoscenza, e il bambino qualunque (perché i miti si raccontano ai bambini e si raccontano all’infinito, prima all’asilo, poi a scuola, poi al liceo, poi in tv, poi…), e il bambino qualunque ascolta estasiato, paralizzato in ogni funzione critica, incantato, la storia del proprio remoto passato, e così visualizza la scimmia-uomo far cose scimmiesche e poi, per sbaglio, farne alcune differenti, pre-umane, in quanto magari per sbaglio un pollice, o una parte del cervello o un gene mal sviluppatisi permisero l’attuarsi di nuove inesplorate possibilità. Dal caso la scimmia (o un primate imparentato con scimmie e uomo, qui fa lo stesso) si fece primo uomo, e poi ancora un caso, e un caso e un caso ancora ed ecco che, meravigliosa, si manifesta finalmente davanti agli occhi del bimbo la figura imponente e solida dell’uomo attuale, frutto di una moltiplicazione di casualità, di una riproduzione casuale di infiniti errori riproduttivi. E’ il mito dell’uomo-caso, e, per dirla tutta, se non l’avessimo assorbito per tempo e già inesorabilmente metabolizzato, ci parrebbe a colpo d’occhio, senza troppo pensarci su, davvero gettato lì tra le teorie proprio così, a caso: una teoria del caso nata a caso e che, casualmente vincendo la lotta per la sopravvivenza tra le teorie, confermerebbe proprio così la verità della casualità.
     Allora: perché l’inglese C. Darwin pensò tutto ciò? Certo, per contrastare il creazionismo; ovvio, per spiegare le variazioni tra le medesime specie; vero, ma tutto ciò fa parte della specifica e consapevole ricerca scientifica dell’uomo in questione. Ciò che presuppose, invece, ha molto a che fare con la nostra epoca, con l’epoca del dominio inglese del pianeta terra (si intende da sé: inglese con opportune filiazioni biologiche americane e australiane; rivoluzione politica inglese con opportune filiazioni rivoluzionarie americane ed europee; rivoluzione industriale inglese con opportuna globalizzazione della stessa, puritanesimo inglese con opportune…) e si tratta del pre-giudizialmente tener per vero questi pensieri:
  1. Lo spirituale, se esiste, non interagisce nella formazione dell’organico
  2. L’elemento organico si sviluppa meccanicamente, a-finalisticamente dall’elemento inorganico e dall’interazione effettiva e materiale con altri enti che in qualche modo lo urtano o entrano con lui in contatto
  3. La natura è costituita da un insieme di parti separate
  4. Ogni parte mira a conservare se stessa in essere
  5. La gran parte delle parti organiche di ogni parte della natura (occhio, ali ecc…) svolgono una funzione pragmatica a garanzia del punto 4
  6. L’uomo è, quale essere organico intelligente, una parte della natura
  7. L’intelligenza rientra per definizione nel punto 5 come suo corollario (è una parte… che svolge…)
  8. Dato il punto 7, l’intelligenza si mostra conseguentemente ed esclusivamente come abilità pragmatica
  9. Dato il punto 8, l’oggetto lavorato è ciò che testimonia l’intelligenza umana
  10. Dato il punto 9, è vero che l’uomo è tale se e solo se lavora modificando tecnicamente il mondo materiale.
(Corollario della tesi n. 10: L’uomo che non lavora e utilizza la mente senza orientarla alla trasformazione tecnica del mondo non è propriamente un uomo; tuttavia, è possibile approntare per lui una serie di modalità di recupero atte a rendere nuovamente funzionale e pragmatica la sua attività interiore, a renderlo nuovamente “umano”).
 
Così C. Darwin (davvero genialmente e perciò essenzialmente immergendosi nell’ottusità dell’unilateralità)  pensò l’ipotesi dell’uomo-animale, lo ipotizzò in fondo con puro esperimento mentale (proprio come il mito dell’uomo-sacro che qui ed ora articoliamo), ovvero ben prima di qualsiasi risultanza delle scienze archeologiche o delle scienze genetiche, lo ipotizzò perché secondo tutta la forza-pensiero della nostra epoca, secondo i presupposti suddetti e altri ancora, l’uomo non poteva che essere pensato così, come l’essere animale in lotta con l’ambiente e con gli altri, abbandonato da ogni possibile Dio e sempre intento e concentrato a risolvere problemi concreti, pratici, inglesi.
I dieci punti suddetti, tuttavia e in verità, non colgono nel segno, non colgono la natura della natura. Sarebbe ora troppo pedantesco però prendere i punti uno ad uno, confutarli o rettificarli, e alla fine l’articolo rischierebbe davvero e non per scherzo di sembrare “scientifico” e questo, per una filosofia narrativa, sarebbe uno smacco insopportabile (d’altra parte in filosofia oggi si è generosi e il titolo di contributo scientifico si ottiene attenendosi scrupolosamente a pochi essenziali elementi: linguaggio chiaro e proposizioni non troppo lunghe; accorto evitare ogni terminologia “metafisica” ma sì, invece, alle frecce e alla simbologia logica; molti elenchi puntati, magari per classificare con parecchi –ismi le varie posizioni filosofiche in merito, meglio se con sotto elenchi del tipo 1.1, 1.2 e via così; precisi riferimenti bibliografici; infine, decisivo e imprescindibile, tono di fondo piatto, ma non come se lo scrittore non ci fosse, piuttosto, molto meglio, come fosse invece morto - il morto che parla).
Inoltre, le 10 proposizioni non sono propriamente nel falso, oppure sì, lo sono, ma secondo l’autentica natura del falso, ovvero sono vere ad un certo livello del sistema, false se pensate al gradino superiore o inferiore (e se anche il “sistema” non si dà più, ciò non toglie la sua legittimità come esigenza filosofica, se “sistema” = totalità logicamente interconnessa). Le dieci proposizioni suddette descrivono infatti davvero la natura, ma il problema diventa allora questo: quale natura descrivono? La nostra natura, che natura è essenzialmente? Sembra però che qui si corra il rischio di girare a vuoto (e neppure in “circolo”), perché apparentemente la risposta sembrerebbe già fornita in precedenza: la natura è ciò che è a seconda dell’occhio osservante e il nostro sguardo è quello pragmatico, tecnico-scientifico, intellettuale, avido, spregiudicato e persino impudico dell’epoca del dominio inglese del pianeta terra. La nostra natura è appunto la nostra, quella che svela la natura come corpo morto, fondo energetico, strumento della volontà di potenza. Osserviamo la natura a questo livello del sistema: la nostra natura non è “finalmente la natura”, ma una e una sola natura, quella che corrisponde al nostro essere.
L’impianto però che permette questo sguardo, che effettivamente coglie anche nel segno, è costituito da una determinata apertura della natura che non emerge immediatamente dal decalogo suddetto. La natura, per dirla sinteticamente e in linguaggio mitico, si fece Maya, ed è questa apertura della natura come Maya, la più radicale delle chiusure,ad aver coinvolto l’uomo in quella deiezione che ne modificò lo sguardo: l’uomo era infatti natura, e quando la natura divenne la Maya anche l’uomo divenne la Maya; quando la natura sviluppò la natura della divisione allora anche l’uomo si divise, cominciò a dividere e vide con chiarezza cristallina tutte le cose effettivamente divise per l’effettiva divisione avvenuta.
Si trattò di un evento dell’essere. La natura divenne pallida ombra proiettata nella caverna, illusione, sogno, vano gioco policromico ovvero, dal nostro punto di vista ordinario, pura concretezza, materia formata, tode ti, determinabilità, impenetrabilità, solidità, realtà. Gettati tra le ombre abbiamo allora acuito lo sguardo, o meglio l’ombra dello sguardo, imparando a contare evanescenze, ad intrappolare e produrre ombre. Ma la Maya divenne proprio così una dea triste, perché ingannando fu ingannata e ingannò se stessa, se è vero che l’unico essere che poteva riconoscerla prima l’abbandonò e poi si mise a malmenarla con la gioia crudele del cattivo marito, rinvigorito ed eccitato dal piacere di sentirsi per un attimo terribile e dominatore. La Maya, intrisa di Sensucht, piange ora se stessa e non trova più la via di casa. Sente, sente ma non sa, sente il tempo in cui non fu maga, non fu potenza logica rovesciata in labirinti infiniti di tentativi ciechi e spesso inutili di ritrovarsi, sente ma non sa, perché il sapere, oramai, si è concentrato nell’uomo.
Eppure, tanto tempo fa la natura era altro e l’uomo non era diviso e non vedeva niente di diviso e quindi non divideva niente. Perciò l’uomo non lavorava e stava bene così, nella pace dello spirito-natura. E’ questo l’uomo-sacro dal quale abbiamo preso le mosse, un uomo che non era un uomo perché era natura, un uomo-terra-vita che, per dirla ancora una volta mitologicamente, dobbiamo chiamare per nome e denominare Adamo. 
Quando la natura della vita vivente, l’Hawah (volgarmente: Eva) si (de)concentrò in se stessa, tutto l’essere fu scosso fin dalle fondamenta, precipitò e si fece terroso, fangoso, materiale, adamico. Non che l’essere precipitasse nella materia come se la materia fosse già lì, informe e increata, ma l’essere, invece, ravvolgendosi in se stesso e recidendo le radici, divenne ciò che è, mondo materiale, spirito rallentato e pietrificato, pesante. Come detto, si trattò di un evento cruciale dell’essere, dell’Ereignis del male. Ora, però, la questione del male è troppo labirintica; solo, ricordiamoci che senza il mito del male il nostro mondo, già di per sé così cripticamente chiuso alle nostre pretese conoscitive, può giungere ad una tale bronzea opacità da non far più neppure sospettare d’essere stato, proprio lui, proprio il nostro mondo, il più trasparente dei cristalli[1].
 
  1. Lo stato sciamanico
Ma veniamo ora piuttosto, finalmente, alla coscienza sciamanica. Cosa hanno a che fare gli sciamani, però, con tutta questa storia della natura quale la vediamo ed è ora, o quale fu un tempo? Ecco, le cose stanno così: gli sciamani, se ancora si danno sciamani sul pianeta terra, sono la traccia vivente della realtà dell’universo indiviso primordiale, sono l’ultima testimonianza, certo non poco alterata dalla potenza negativa del tempo (ma anche una prova provata assai più empirica e concreta di ogni ricostruzione accademico-scientifica del mondo che fu), sono l’ultima testimonianza diretta dell’esistenza di una possibilità d’uomo assolutamente altra e che fu un tempo la coscienza adamitica. E’ noto, d’altra parte, che Adamo non solo conviveva felicemente con molteplici animali tutti beatamente e non ancora ferocemente insieme (ma certo Adamo, si capisce, non era proprio Adamo come viene in mente a noi, così come gli animali non erano certo se non “parenti” degli animali attuali), ma anche che usava nominarli e così anche dominarli (dove il dominio, è meglio precisarlo, non comportava alcuna forma di sopruso o violenza, che l’uomo cominciò ad esercitare sugli animali successivamente, quando invece perse il dominio su di loro); insomma Adamo si comportava proprio come un vecchio sciamano capace di richiamare nella foresta le più svariate specie d’uccelli, dialogando con loro e facendosi aiutare all’occorrenza. Poi, però, il benevolo e dolce dominio d’Adamo, come sempre accade a chi esercita il potere senza la verga, portò il serpente ad agire liberamente, e così lo stato migliore della terra (il paradiso terrestre) decadde ed assunse la cupa forma dell’universo doloroso, violento e malvagio che ben conosciamo. Adamo, il maledetto, perse la coscienza sciamanica, le piante non corrisposero più ai suoi bisogni, la terra si fece arida e così, chinandosi verso la terra - lui! Un dio! - curvo, Adamo lavorò, mentre Eva, urlando di dolore tra sangue e miasmi fetidi e incomprensibili - lei! La dea della vita! - partoriva il primo uomo veramente “uomo” come noi, il primo fatto come noi, quindi assassino per vocazione e destinazione, insomma Caino.
Così gli uomini divennero una massa dannata, una molteplicità indistinta di Caini. Tuttavia qua e là, anche se spesso soffocati e accoltellati, avvelenati o lapidati, si facevano strada anche uomini d’ordine diverso, diciamo del tipo Abele. In Abele, certo, già non poteva più presentarsi la potenza immane della semi-divinità del padre, la pura coscienza unificata, ma qualcosa dell’apertura del paterno, qualcosa del ciò-che-unifica poteva talvolta risvegliarsi in lui, spontaneamente. Certe cose Abele poteva ancora percepirle, pre-sentirle, intuirle, oppure era ancora il corpo che le percepiva, le pre-sentiva, le intuiva, le suggeriva, e allora Abele (leggi: la progenie di Abele), accorgendosi che pochi (e sempre via via di meno anno dopo anno, secolo dopo secolo) riuscivano a “vedere” della sua “vista”, cominciò a prestare attenzione a se stesso. Si accorgeva infatti, osservando la catastrofe dello stato psichico di non veggenza, di “vedere” più degli uomini ordinari, ma anche meno dei suoi vecchi antenati; si fece allora quasi filosofo, concentrandosi in se stesso per proteggere il “potere”che sembrava voler abbandonare l’uomo, ed inventando così dapprima dei mezzi adatti a conservare e sviluppare le forze (per noi) occulte, e poi ancora altri adatti a tramandare le pratiche faticosamente elaborate; così, facendo tutto questo (proprio lui lo fece, Abele, l’ingiustamente crocifisso), facendo tutte queste buone cose, Abele inventò  la tradizione.
Nacque in questo modo lo sciamanismo, la più antica delle religioni (dell’uomo quale lo conoscono le scienze storiche), la radice del sacro. Ora, che cosa significa “sciamanismo”? Non vogliamo affrontare in questa sede indagini linguistiche, storiche o antropologiche. Rinviamo piuttosto comodamente il lettore all’ottimo Mircea Eliade per formarsi un idea culturalmente e storicamente sensata della cosa ed insieme per accedere ad un punto di vista congeniale alla prospettiva qui sviluppata, e procediamo invece ritornando alla domanda puramente filosofica: che cos’è lo sciamanismo? O meglio, se è vero che lo sciamanismo è comunque un’astrazione, che cos’è uno sciamano?
Che cos’è uno sciamano? Oppure: chi è, dunque, lo sciamano? Perché qualcuno, un uomo, uno come noi, decide di trafficare con le forze nascoste e si trasforma in animale? E’ uno come noi, eppure non è uno come noi, se è vero che l’uomo comunemente non traffica se non con forze ordinarie (coscientemente) e con gli animali tuttalpiù gioca o li mangia, senza la folle identificazione dello sciamano. Inoltre, molti sono gli uomini che viaggiano, ma nessuno se non lo sciamano in dimensioni differenti dalla nostra. Lo sciamano è colui che viaggia in mondi non sensibili. Lo sciamano è il vero uomo primitivo, situato a mille miglia di distanza dall’erede dell’uomo scimmia, un uomo che non lascia traccia tecnica non per incapacità di manipolazione, ma perché la natura già da sempre gli corrisponde, un uomo che non costruisce templi non per mancanza dell’astrazione necessaria a creare uno spazio del sacro differente dalla profanità ordinaria, ma perché sente immediatamente la natura come tempio ed attraversandola, viaggiando a partire dalla natura in mondi sovrasensibili, vive in spazi non spaziali e con creature decisamente non umane. Oppure umane ma defunte, perché lo sciamano è spesso uno psicopompo, un traghettatore d’anime, un Caronte. Lo sciamano è perciò tramite demonico tra i mortali e gli immortali, è fedele servitore di Eros e dunque sacerdote, insomma è una Pizia, è Diotima. E la comunità che lo richiede vuole, (quasi) da sempre, alleviare la propria pena d’esistere, e così lo sciamano si perita per divinare, influenzare eventi e soprattutto guarire, perché gli uomini sono tormentati e lui, lo sciamano, conosce erbe che lo chiamano ad operare, rintraccia nel mondo di sopra o in quello di sotto, insomma nell’aldilà, forze, spiriti e animali che vogliono cooperare con lui e con lui ibridarsi, con l’uomo non uomo, con l’uomo che vive con noi ma anche con i morti, l’uomo che è uomo ma anche animale, che guarda un albero ma è anche albero a sua volta. Lo sciamano è la traccia mnestica della coscienza adamitica iniziale, la traccia dell’antichissimo che tuttora permane e non vuole estinguersi[2],  oltre-uomo già da sempre perché, effettivamente, almeno in certi momenti, sovrumano.
     Ora, mettiamo però un poco d’ordine in tutto ciò. Mettiamo ordine, come si conviene, ritornando indietro. Che cos’è questa filosofia della mitologia che qui pratichiamo? La filosofia della mitologia è una considerazione pensante l’apertura dell’essere operata dall’irruzione del sacro nella positività del vissuto umano. Una pratica razionale che, a differenza delle scienze e delle filosofie, attende la sua verità dall’universo irrazionale. Sì, perché scienze e filosofie condividono il presupposto razionalista di dare a se stesse le proprie veritàtraendole da ciò che è proprio, e così gli scienziati trovano il vero a partire dalle proprie equazioni, così come i filosofi a conclusione delle loro inoppugnabili argomentazioni; l’umiltà della filosofia della mitologia consiste invece nel riconoscere una sfera (“irrazionale” dal punto di vista delle nostre conoscenze scientifico-filosofiche) altra rispetto alla presa afferrante del concetto e dell’equazione, una sfera che è manifestazione del vero ed è primaria rispetto alle escogitazioni della ragione. L’eccezionale si erge dunque a criterio direttivo di riconoscimento di ciò che è vero, eccezionale e quindi imprevedibile e irripetibile, singolare, lo sfuggente per natura alle vie della conoscenza ufficiale occidentale.
Torniamo allora alla nostra domanda. Che cos’è, dunque, uno sciamano? Un folle isterico schiumante dagli occhi bianchi, un pagliaccio mascherato da orso o da corvo, un bambino che si trastulla con creature immaginarie create da culture infantili, infine un allucinato, un drogato perduto nei fumi del peyote, nel sapore denso e pericoloso dei funghi e nell’ipnotico e monotonale battito del tamburo. Lo sciamano è certamente per noi tutto questo, solo che proprio queste determinazioni “razionali” dello sciamano si traducono, nella filosofia della mitologia, in questa perentoria affermazione: lo sciamano è un luogo della verità. Un folle isterico, sì, perché nella malattia e nella follia, assai più che nei laboratori o nei saloni con i filosofi in giacca e cravatta, si esprime ed esibisce l’assurdità drammatica della verità dell’esistenza. Un pagliaccio mascherato, certo, perché la teatralità del rito e l’immersione nell’animale penetrano il reale assai più della scrittura e della parola compassata. Un bambino, anche questo è vero, perché il bambino è piantato nella verità della terra con radici straordinariamente profonde. Un allucinato infine, verissimo, perché il tamburo, le danze, i bagni di calore, i digiuni, le camminate infinite ed estenuanti ed infine ovviamente le piante, tutti questi elementi sono realmente veicoli (non sempre necessari, ad ogni modo) per attingere il vero al di fuori e al di là della concentrazione del pensiero.
In realtà, non vi sarebbe niente di illogico nel pensare che la verità non si risolva interamente nel manifesto, e niente di irrazionale, ad esempio, nell’idea che il non manifesto possa differenziarsi in un puro sostrato noumenico inafferrabile sempre e comunque, e in un immanifesto manifestantesi invece per qualcuno, per pochi individui, poche volte e con modalità non ripetibili dal pensiero e non riproducibili tecnicamente. Le cose potrebbero stare così. Ma l’intellettuale occidentale non vuole che le cose stiano appunto così, in fondo perché non vuole cedere il passo, non vuole poter dire: «io sono soltanto uno studioso e tu invece, sciamano, hai la fortuna d’essere un luogo della verità». Questo pensiero lo repelle: «e che dunque?» – pensa lui – «che cosa dovrebbero essere tutti questi miei pensieri così faticosamente pensati, faticosamente incastrati, faticosamente condensati in parole impeccabili e penetranti, e che mai dovrebbero essere? Ombre del vero questi, e verità invece le sciocchezze visionarie di quegli indiani fumati? No, sento in me un’intelligenza superiore a quei balbettii infantili, in verità sono io ad ergermi più in alto del “volo” dello sciamano perché dall’alto interpreto e comprendo tutte le motivazioni del volo presunto e quasi quasi la struttura stessa dell’intero sciamanismo, che il povero sciamano, immerso nella propria cultura come il verme nella terra, non sospetta neppure».
Eppure… e se davvero gli sciamani, e non le accademie e i laboratori, fossero un luogo della verità?
 
  1. Frammenti di una conoscenza perduta
L’aurora della verità è nella vita, nei gesti e nelle parole di improbabili stregoni.
Chi vuole abbracciare la conoscenza, bisogna intanto che riponga i testi di chimica e di epistemologia e come Igjugarjuk, esquimese caribù, si rechi lontano con una slitta ed entri in una capanna di neve. «Lì fui rinchiuso. L’entrata fu chiusa con un blocco di ghiaccio, ma sulla capanna non venne messa della neve fresca per renderla calda. Dopo che vi fui rimasto per cinque giorni, Perqánâq [il maestro] venne con dell’acqua tiepida contenuta in una pelle di caribù, un otre impermeabile di pelle di caribù. Ritornò soltanto quindici giorni dopo per darmi ancora dell’acqua tiepida, appena il tempo di darmela e poi di andarsene, perché anche il vecchio sciamano non doveva interrompere la mia solitudine. [..] Perqánâq mi ingiunse di pensare a una cosa sola per tutto il tempo che dovevo stare lì, e questa era attirare l’attenzione di Pinga [uno spirito femminile] sul fatto che là sedevo e che desideravo diventare uno sciamano».
Solitudine, digiuno e freddo: la via della conoscenza. Non una pagina da leggere. Un solo desiderio: diventare ponte tra i mondi. Un solo pensiero, fisso, l’opposto dell’ondeggiante riflessione: comunicare con Pinga, lo spirito femminile. Un pregare, ma diverso (per lo più) dalla nostra preghiera, nella misura in cui lo sciamano si aspetta l’incontro concreto con la divinità, ed ecco infatti che «la vidi come vera, sospesa su di me, e da quel giorno non potei chiudere gli occhi e sognare senza non vederla»[3].
Il sogno è un luogo d’incontro privilegiato con il non-umano, perché il sogno nell’universo sciamanico non si risolve interamente nella psiche individuale. Noi siamo convinti che il sogno sia una manifestazione di elementi psichici soggettivi, loro lo intendono altrimenti. Per il vero uomo “primitivo”, per lo sciamano, l’onirico e la veggenza e il mito sono spesso realmente indistinguibili: sognare è “vedere”, “vedere” è sognare, si “vede” e si “sogna” ciò che è mito.
Così, nelle parole seguenti di uno sciamano nord-americano - narranti anche in questo caso il primo decisivo incontro con ciò che è davvero altro – come distinguere sogno, veglia, mito e visione? E se la distinzione non avviene nella coscienza del narrante, è ancora possibile operare come se la distinzione esistesse in natura, come se essenzialmente e in ogni caso fosse ontologicamente giusto distinguere sogno, veglia, mito e visione?
Dunque, racconta lo sciamano, «dopo del tempo, la roccia sulla quale stavo dormendo cominciò a rompersi come il ghiaccio che si spacca. Un uomo apparve nella spaccatura. Era alto e magro. Aveva in mano una piuma di coda d’aquila»[4]. L’uomo in questione, concretissimo – ah, meravigliosa religiosità reale! - non era tuttavia semplicemente un uomo, se è vero che lo sciamano sudamericano lo attendeva proprio come l’esquimese attendeva Pinga: l’uomo magro che emerge dalla fenditura di roccia accompagnandosi con una piuma d’aquila era infatti in questo caso - la notte. Un uomo alto e magro: la Notte.
«Il dottore indiano riceve il suo potere dallo spirito della notte. Questo spirito è dovunque […] Quando dà il potere di curare, lo spirito della notte dice allo sciamano di chiedere aiuto ai bambini dell’acqua, all’aquila, alla civetta, al daino, all’antilope, all’orso o a qualche altro uccello o animale. Quando gli sciamani ricevono il potere, esso proviene sempre dalla notte. Gli si dice di curare soltanto di notte»[5].
Si tratta qui di un’interessante interpretazione complessiva del fenomeno sciamanico, dalla struttura filosofica, se è vero che le molteplici manifestazioni del pantheon sciamanico, ed in particolare gli animali-guida, sono tutti ricondotti ad uno ed un solo archè, lo spirito della notte. Sarebbe un’impresa improba però, ora e qui, tentare un afferramento speculativo ulteriore dello spirito della notte. Mi limito perciò ad una sola osservazione: la notte, che noi così spontaneamente riconduciamo ad un principio negativo, viene sentita invece come datrice della possibilità di curare il prossimo. Sì, perché lo sciamano è prima di tutto un guaritore, un uomo che fa del bene. E in effetti non è vero, fenomenologicamente vero, che il sole è ciò che oscura le stelle e che invece è la notte che illumina e apre lo sguardo sullo spettacolo dell’universo? Senza la notte, oscurati dal sole, nulla conosceremmo se non nuvole e chiarore celeste.
Che gli sciamani poi guariscano davvero non posso certo dimostrarlo, ma chi avrà la pazienza di occuparsi con attenzione del fenomeno non tarderà ad arrivare alla conclusione, per lui forse inaspettata, che gli sciamani, alcuni sciamani naturalmente, riescono effettivamente ad essere pienamente “dottori”, come giustamente si autodefinisce lo sciamano. E se poi – annotazione di buon senso – le persone non guarissero, davvero potrebbero continuare ad operare nel villaggio mantenendo talvolta per decine d’anni la loro autorità? Perché l’autorità di uno sciamano si alimenta proprio, come quella di qualsiasi dottore, grazie al numero di guarigioni e lo smascheramento del falso sciamano equivale a quello nostrano del medico mediocre. Ma il razionalista (e con lui anche - sigh! - il religioso terrorizzato dalla possibilità che non esista un monopolio cattolico dei miracoli) è sempre pronto a ribattere: «ammesso e non concesso che guariscano - tutto ancora da dimostrare - insomma se proprio fosse, che guariscano semplicemente suggestionando? Che guariscano soltanto le malattie simulate, ovvero le isterie? Che guariscano soltanto grazie alle erbe e ai vapori mentre i canti e tutto il resto sono creduti terapeutici mentre, ovviamente, non lo sono affatto?». Domande lecite ma che, spesso, anticipano scetticamente, pregiudizialmente, una seria e spregiudicata analisi del fenomeno.
     Incidentalmente, vorrei anche far notare quanto insensato sia il nostro approccio alle religioni “totemiche” quando dimentichiamo l’esperienza soggettiva degli uomini realmente coinvolti nell’esperienza religiosa. Si osservano magari ritualità in cui un animale è venerato, imitato, ucciso e mangiato ecc.. e poi ci si inerpica in sottili e labirintiche interpretazioni, dimenticandosi qualcosa. Cosa? Che l’aquila, la civetta, il daino, l’antilope e l’orso sono afferrati visivamente dallo sciamano come le sedie e i computer dai nostri occhi, si dimentica che l’aquila, la civetta, il daino, l’antilope e l’orso comunicano, nel dialogo vivente ed effettivo con l’uomo, ponendosi come guide, maestri di saggezza e portatori di un potere che l’uomo di per sé non ha, il potere di guarire il prossimo. Dimenticandosi queste esperienze “mistiche” - radice della codificazione rituale che permette poi anche ai non iniziati di partecipare in qualche modo al mondo divino – tutta l’interpretazione delle prime forme di religiosità brancola nel buio; e ciascuna coglie qualche cosa, per carità, ma proprio come un uomo, muovendosi in una stanza buia, non può che impattare numerosi oggetti.
Gli animali sovrasensibili in primo luogo si mostrano, per questo meritano attenzione, ritualità, rappresentazioni danzate o figurate e narrazioni fantastiche. Accade un’esperienza insolita. Tutto ciò ha poi a che fare con una legge di fondo del rapporto sacro-sociale: l’esperienza sacra fonda la cultura religiosa di un popolo e con ciò fonda il popolo stesso: i popoli non possono generare religioni, perché sono le religioni a generare i popoli. Ed è il sacro a fondare le religioni che, mancando poi eventualmente il fondamento, devono infine scomparire come un qualsivoglia fenomeno sociale.
Ora, cosa possono insegnare mai gli animali occulti, ispirati dalla Notte, allo sciamano? Molte cose, forse infinite, ma sicuramente centrale è quest’idea antichissima, platonica e pre-platonica, l’idea più meravigliosa: «Vi è un mondo al di là del nostro, un mondo che è molto lontano, assai vicino, invisibile»[6] (Maria Sabina, Mazatec, mesoamerica). Sia chiaro: «Vi è un mondo al di là del nostro» non è semplicemente un pensiero, un’idea tramandata a Maria Sabina dalla propria cultura ma, ancora una volta, un’esperienza. Maria Sabina si reca in quel mondo, si muove concretamente in quel mondo, «ed è là che Dio vive, che i morti vivono, gli spiriti e i santi, un mondo in cui tutto è già accaduto e tutto è conosciuto. Quel mondo parla. Ha un suo linguaggio. Io riferisco quel che esso dice»[7]. Il mondo invisibile ha un linguaggio. Maria ascolta e riferisce. E’ questa un idea mitica e bellissima, che cioè l’essenza della realtà non sia il fondo vuoto della materia cieca e caotica, ma il linguaggio.
Maria Sabina dunque ascolta. Ma, se è vero che l’universo sciamanico si concreta in forme ben precise e non in concetti astratti, chi è, chi è che parla a Sabina? Risposta laconica: i funghi. Con le parole della sciamana: «Il fungo sacro mi prende per mano e mi conduce nel mondo dove ogni cosa è conosciuta. Sono loro, i funghi sacri, che parlano in un modo che io posso comprendere»[8]. Ecco, il filosofo e lo scienziato, l’uomo di strada e il prete saranno ora ampiamente soddisfatti: «Maria Sabina è una allucinata! E che, anche i nostri ragazzi in discoteca non sono dunque grandi sciamani?». Prima di ridere però, o anche dopo le risate, ci si ponga però per una volta la seguente questione insolita: e se le piante, alcune piante (qui: i “funghi sacri”) fossero dei ponti, dei veicoli, dei mezzi per aprire, come dicevano rockettando i figli dei fiori, per aprire le porte della percezione? Beninteso, non per aprirle sul mondo interno, l’inconscio e via così, ma per permettere la percezione di ciò che usualmente è non percepibile. Se alcune piante, dunque, fossero microscopi e cannocchiali dell’altrove?
Certo, si dirà scetticamente, perché allora non viene percepito lo stesso e identico mondo invisibile da due persone soggette al potere dei funghi? E poi: cosa producono queste visioni dei funghi di oggettivamente misurabile? Qualcuno è perlomeno guarito in seguito ai consigli dei funghi? Oppure: sono state conosciute cose inconoscibili? Infine, se anche ci fossero testimonianze di guarigioni e conoscenze impossibili per la ragione, come e perché credere a delle semplici testimonianze?
Niente prove, infatti, ma certo la sciamana testimonia (che valore dare ad una testimonianza? Che valore hanno le parole di una donna rispetto, ad esempio, a ciò che l’occhio percepisce nel microscopio? Meglio: siamo ancora capaci di misurare il valore delle parole di una persona virtuosa?), Maria Sabina narra di guarigioni ottenute in base ai consigli dei funghi e di aver ricevuto conoscenze impossibili per la coscienza ordinaria. Conoscenze talvolta abissalmente dure da sopportare: «Vidi così tutta la vita di mio figlio Aurelio e la sua morte e la faccia e il nome dell’uomo che doveva ucciderlo e il pugnale con cui l’avrebbe ucciso, poiché tutto era stato compiuto [….] L’avrebbero ucciso, e fu così. E vidi altre persone morte e altri assassinii e persone che si erano perdute – nessuno sapeva dov’erano – ed io sola potevo vedere»[9].
Che cos’è il mondo, cosa sono spazio e tempo se Aurelio, il figlio della sciamana, venne assassinato prima di morire? Con quale “occhio” un essere umano può vedere una persona scomparsa, se ciò non rientra nel suo spazio visivo? Avviene uno spostamento della sciamana nello spazio? Oppure non c’è alcuno spazio e dunque la persona scomparsa è aperta al suo sguardo perché non sta affatto “da un’altra parte”? Possibile che le “parti” siano vere solo ad un certo livello del sistema? Una variazione di coscienza, la coscienza sciamanica, può generare un differente livello del sistema? Ma la coscienza, allora, non sarà coinvolta davvero (come dicevano i dimenticati antichi, ovvero i tedeschi) nella costituzione della totalità dell’essere? 
Intanto, Maria Sabina viene condotta dai funghi nei pressi delle malattie e della violenza. Talvolta e per fortuna, però, la veggenza le regala anche visioni celestiali: «Vedevo e sapevo milioni di cose. Conobbi e vidi Dio: un immenso orologio che ticchetta, con le sfere che girano lentamente e con dentro le stelle, la terra, l’intero universo, il giorno e la notte, il pianto e il sorriso, la felicità e il dolore»[10].
Ora, in chiusura, resta aperto il problema fondamentale: è possibile per noi uomini tecnici, per noi inglesi, l’esperienza di Maria Sabina? Possiamo ritornare sciamani? La conoscenza occidentale può ancora riconvertirsi nel seme iniziale? Non impossibile ma sì difficile, anzi difficilissimo e per moltissime ragioni, ma anche soltanto per questo, perché, come afferma Ramon Medina Silva (Huicol, Mesoamerica): «molti non fanno attenzione. Questa è la ragione per cui non sanno niente. Questa è la ragione per cui non comprendono niente. Occorre essere molto attenti per capire cosa sono il Fuoco e il Sole»[11].
 
Ecco, questa è la consegna dello sciamano, questo è ciò che deve essere fatto:
 
Farsi attenti,
per capire,
cosa sono:
il Fuoco e il Sole
 
 
[1]  Per il problema del male e della caduta si veda il mio libro, di prossima pubblicazione, Mitologia del male. La favola della morte nella filosofia narrante di Schelling.
[2] Non dobbiamo nasconderci tuttavia che un rischio d’estinzione, almeno intendendo lo sciamanesimo come forma culturalmente trasmissibile di saperi e pratiche millenarie, esiste oggi concretamente. Stalin mandava gli agenti del KGB nei villaggi siberiani per annegare gli sciamani, costringendoli a morire sul fondo dei fiumi legati con pesanti catene, ottima dimostrazione, secondo la luminosa prospettiva dei comunisti, dell’inesistenza dei poteri sciamanici e della bontà dello stalinismo. Si trattò di una strage, di una catastrofe, ma lo sciamanismo riuscì sotterraneamente, in qualche modo, a riemergere. Ora, però, qualcosa di più duro del più duro dei metalli, dello Stalin, rischia di disintegrare l’universo sciamanico: si tratta del soffice dominio del mercato e della discreta invadenza della rete. Riuscirà ancora un ragazzo, nell’era di internet, a sentire le forze del non umano e a farsi sciamano? No, ma in un certo senso forse sì, in verità, perché lo sciamanismo, come manifestazione del sacro, nasce da un vivente che sempre di nuovo torna a reclamare l’uomo. Muore dunque davvero lo sciamanismo- in un mondo in cui l’unico secondo mondo conosciuto (la rete) imita con la grossolanità del tecnico il secondo mondo effettivo (a-spaziale e a-temporale) - è vero, ma lo sciamanismo nacque da ciò che non muore e che perciò, al momento giusto e secondo le leggi cosmiche universali nonché in nuova forma, sempre ritorna. A proposito di questo e d’altro ancora, mi si permetta di rinviare ad un altro mio libro di prossima pubblicazione: Nicola Gragnani, Il Giaguaro Sovrasensibile. Storia di una iniziazione sciamanica,.
[3] Joan Halifax, Voci sciamaniche. Rassegna di narrativa visionaria, Rizzoli 1982, p.73. Le successive citazioni sono ricavate dallo stesso testo. Si tratta di testimonianze di sciamani del XX secolo, appartenenti a svariate e differenti culture.
[4] Ibid., p. 183
[5] Ibid., p. 184
[6] Ibid.
[7] Ibid., p. 132
[8] Ibid.
[9] Ibid., p. 136
[10] Ibid.
[11] Ibid., pp. 138, 139