n. 7 - 2021 | Riflessi di alterità

Dario Manni, Marco Maurizi | L’animale e il macellaio. Antispecismo, antimilitarismo, non-violenza

Gli animali e la guerra
Le immagini dei profughi ucraini che portano in braccio animali domestici ci parlano di un’amicizia profonda con le altre specie, della possibilità di una solidarietà disposta a mettere a rischio la propria sicurezza[1]. Certo, si tratta anche di propaganda di guerra - utile a dipingere gli ucraini popolo “buono” e “simile a noi” a differenza dei russi “violenti” ed “estranei” - e non sarebbe fuori luogo per un antispecista ricordare che si tratta pur sempre di animali di "famiglia", di un affetto che si costruisce nel rapporto ambiguo tra il cane e il suo "padrone"; tuttavia, è difficile non commuoversi per questa solidarietà e questo affetto così esposti alla potenza delle bombe.
La guerra oggi è mediatizzata, praticamente in toto, e non si riesce a sapere effettivamente ciò che sta accadendo sul campo. Possiamo però essere certi che, a prescindere da chi stia vincendo e da chi alla fine vincerà, essa produce devastazioni in cui gli animali, non meno degli umani, soffrono indicibilmente e muoiono senza pietà. La guerra distrugge la nostra “umanità”, si dice. O ne esprime al massimo grado le contraddizioni?  “Putin è peggio di un animale”, grida Luigi Di Maio. “Putin è un macellaio”, gli fa eco Joe Biden. Tutto normale? Quando il Ministro degli Esteri ha pronunciato quella vergognosa frase molti si sono scandalizzati per le infrazioni del protocollo. Ma a nessuno è venuto in mente di difendere gli animali per l’orrendo accostamento con un autocrate imperialista senza scrupoli. Ci dimentichiamo di un fenomeno importante su cui occorrerebbe tornare a riflettere: solo gli animali umani fanno la guerra. Perché?
A prescindere dalle risposte che si possono dare a questa domanda occorre riconoscere che ogni discorso sulla guerra e sulla pace è incompleto e probabilmente infondato se la elude. Prima di tentare di dire qualcosa a questo proposito possiamo però provvisoriamente chiarire un punto. La guerra è la distruzione di un ordine gerarchico e oppressivo e la sua sostituzione con un altro non meno violento, non meno ingiusto. Chi oggi si oppone alle guerre sa, dunque, che è necessario costruire un nuovo movimento pacifista, un nuovo internazionalismo, tornare a parlare di socialismo e giustizia sociale a livello globale perché le vere cause della guerra stanno nella natura intrinsecamente conflittuale dell’ordine sociale esistente: il capitalismo multipolare e le sue ideologie (il neoliberismo occidentale, i sovranismi e i nazionalismi delle varie forme di capitalismo autoritario, il sistema misto cinese). Ma, e questo ci riguarda come antispecisti, abbiamo il dovere di non dimenticare quella domanda. In che modo la questione animale si inserisce in questa prospettiva? Perché l’animale umano fa la guerra? Cosa ne è degli animali non-umani in un ordine sociale che riesce a porre fine al militarismo e all’ingiustizia globale? Come può una società considerare “macellaio” un epiteto da affibbiare, giustamente, ad un criminale di guerra e, al tempo stesso, una delle sue attività più basilari e quotidiane?
 
Decostruire la guerra
Riflettere sulla questione animale e sul suo ruolo nel costituirsi dell’umano può aiutarci a riformulare il problema della guerra[2]. Anzitutto, si può davvero parlare di guerra “in generale”? Ogni discorso sulla guerra come universale sovra-storico rischia non solo di appiattire le differenze tra fenomeni incomparabili (si può usare lo stesso termine per definire le faide preistoriche tra clan e i conflitti imperialistici di oggi?) ma anche e soprattutto di giustificare l’esistenza della guerra come caratteristica della specie umana riconducendola ad un sostrato biologico o sociobiologico immodificabile[3]. I conservatori vanno a nozze con questo tipo di generalizzazioni. Occorre piuttosto decostruire questo universale falso e renderlo meno astratto: conseguentemente anche l’idea del pacifismo che prefiguriamo apparirà più determinata e specifica.
Certo è possibile, e anche utile, intendere la guerra come conseguenza di attitudini proprie del patriarcato, ovvero espressione di quella particolare configurazione psico-socio-culturale che celebra l’aggressività, il conflitto e la prevaricazione come valori. In questo sicuramente l’apporto del femminismo e della sua critica strutturale e sistemica di una certa immagine della mascolinità è fondamentale per ogni forma di pacifismo. Queste cause, apparentemente remote, sono presentissime nei loro effetti ancora oggi, pronte a manifestarsi integralmente al primo scoppio di artiglieria. Scrive Paola Revetti: “le guerre, con il loro corollario di nazionalismo e militarizzazione della società civile, rafforzano le gerarchie di genere e le aspettative che il genere, soprattutto nella sua concezione binaria, porta con sé”[4]. Anche la guerra in Ucraina, perfino il suo lato “resistente”, non fa eccezione: “Alle donne ridotte a madri sofferenti e poco altro corrispondono uomini-soldati-eroi, che sacrificano il loro ruolo di padri e mariti per difendere la patria e, per estensione, le ‘loro’ donne e i bambini che ‘lasciano indietro’. [...]”, oppure si pensi alla “militarizzazione dell’immagine dello stesso Zelensky, ritratto sempre in tuta mimetica e circondato da ‘fratelli in armi’ mentre esorta volontari e soldati”[5].
Lo stesso dicasi per il contributo dell’antirazzismo che oggi molto avrebbe da dire in tempi non solo di insorgenze nazionalistiche ma anche di russofobia che sembra aver preso il posto dell’islamofobia post 11 settembre nella nuova guerra fredda cui l’Occidente si sta preparando mediaticamente e militarmente. Molte critiche si potrebbero portare, da questo punto di vista, all’identitarismo che fa da sfondo ad ogni conflitto bellico, anche e soprattutto a quello dell’Occidente che si auto-rappresenta come campione di democrazia e portatore sano di libertà, un identitarismo “debole”, apparentemente aperto alla molteplicità e alla tolleranza, ma che si sostanzia in istituzioni, media e prassi geopolitiche che si muovono invece in tutt’altro senso. Lo dimostra lo scomparire di ogni differenziazione interna quando parte il grido di guerra e la necessità di stringersi a coorte contro la minaccia russa. Una minaccia fantasticata - com’è d’uopo in ogni proiezione identitaria e paranoide - come assoluta, senza confini, l’immagine stessa del male e della distruzione.
Ma è chiaro che ogni genealogia se, da un lato, ci permette di approfondire la questione delle cause remote che vengono da lontano e agiscono sul presente in forma occulta, dall’altro rischia anche di farci perdere di vista le coordinate in cui si iscrivono le guerre del presente, appunto quella differentia specifica che, ignorata, ci porta di nuovo a generalizzazioni sbagliate. Esse ci mostrano gli elementi di continuità ma da sole non bastano a mostrare anche la discontinuità tra le guerre del presente e quelle del passato. Sicuramente i fenomeni di lunga durata che strutturano all’interno delle società complesse corpi intermedi dediti all’uso delle armi e ideologizzati in senso militaresco, nazionalistico e patriarcale sono essenziali per comprendere il potenziale da cui attingono i conflitti in corso. Al tempo stesso, questi conflitti avrebbero una forma diversa se non fossero prodotti da cause che si legano all’attuale sistema produttivo. Come osservava acutamente Lenin, l’imperialismo esisteva anche al tempo dei romani, eppure l’essenziale per capire i conflitti di oggi è proprio ciò che distingue l’imperialismo antico da quello contemporaneo: perfino il l’imperialismo dell’età liberale classica è essenzialmente diverso dal capitalismo monopolistico e finanziario successivo[6].
Per avvicinarsi a questo problema si pensi che lo stesso settore bellico è parte del sistema produttivo, seppure operi in una dialettica del tutto particolare rispetto agli altri settori. Si tratta di un’industria che produce ciò che è atto a distruggere e proprio per questo rappresenta un fattore di disordine che gioca un ruolo essenziale nell’ordine capitalistico. Le armi sono una forma di merce del tutto eccentrica, svolgono, per certi versi, un ruolo complementare a quell’altra merce sui generis che è il denaro, la merce negativa che permette lo scambio generalizzato delle merci positive, la merce universale che non possiede nessuna delle qualità determinate delle merci particolari e, proprio perciò, può simbolizzarne il valore[7]. Non solo dal punto di vista degli extra-profitti che il sistema imperialistico genera nella sua folle corsa al riarmo, ma per la sua logica interna espansiva e conflittuale la merce bellica è consustanziale alla definizione e ridefinizione degli equilibri di potere interni ed esterni all’attuale sistema produttivo.
Da questo punto di vista è essenziale che chi si oppone alla guerra assuma esplicitamente una posizione antimilitarista: chi vuole la pace deve lottare per un mondo senza armi. Ciò non significa solo un mondo “ideale” in cui tendenzialmente sia ridotta la necessità dell’uso di armi (nel senso del diffondersi di una cultura della pace) quanto piuttosto, allo stato di cose presente, un mondo in cui venga cancellato il profitto per le armi. Una posizione più determinata e meno idealistica rispetto alla guerra è quella che comprende come non sia il bisogno a generare il profitto delle armi, quanto il profitto a generare il bisogno di armi. Solo un mondo in cui sia stata bandita la diseguaglianza sociale e planetaria fondata sul processo di autovalorizzazione del capitale può essere un mondo senza guerra. Il problema del profitto appare, da questo punto di vista, più radicale del problema delle armi anche se le armi esistono da prima del capitalismo. Nonostante possa apparire controintuitiva, tale conclusione consegue da una semplice analisi del tipo di società in cui attualmente viviamo e da cui occorre partire per comprendere e affrontare il problema della guerra. Le armi esistono da millenni, così come il bisogno di armi e i gruppi sociali destinati ad usarle per perpetrare l’ineguaglianza. Ma ciò che fonda la produzione e diffusione di armi è anche ciò che produce oggi, a livello planetario, conflitti che non hanno paragoni di scala con i secoli precedenti perché si fondano sul riverbero sulla scena internazionale di conflitti di classe interni. L’imperialismo capitalistico è la conseguenza della spartizione del mondo ad opera del capitale finanziario che nel mentre concentra e centralizza la produzione rende impossibile una soluzione razionale e coordinata delle diseguaglianze sociali e planetarie da esso prodotto. Asservimento interno e geopolitiche aggressive all’esterno si sostengono a vicenda[8].
L’antimilitarismo, oggi, non può che lottare contro le gerarchie sociali ponendosi dal punto di vista di ciò che le rende strutturali: questo elemento casuale si pone al di fuori della gerarchia stessa perché ne riproduce la forma specifica all’interno del modo di produzione capitalistico. Occorre cioè distinguere una visione della società che si fonda su un discorso genealogico (cioè sulla ricerca delle cause storiche che hanno contribuito alla sua genesi) da un discorso sistemico (cioè sulle cause strutturali che contribuiscono alla sua riproduzione). Anche se i due discorsi vanno affrontati congiuntamente, l’agone politico in cui si definisce lo spazio di manovra dei movimenti di contestazione dell’esistente è ancorato anzitutto a tali presupposti sistemici. Ora, l’elemento che fa sistema e che, come detto, rende sistemici anche i fattori pre-moderni tipici della discriminazione (etnia, genere, orientamento sessuale, dis/abilità, età ecc.) è il profitto fondato sull’opposizione capitale/lavoro e i processi di accumulazione, circolazione ed espansione del capitale.
 
Il ruolo chiave della questione animale
E veniamo al punto decisivo: la questione animale come problema sociale e politico. Riteniamo che rispetto al discorso fatto finora l’antispecismo possa svolgere un ruolo di (1) radicalizzazione del quadro teorico ma anche (2) di spostamento su un piano diverso, più concreto e sistemico. La questione animale radicalizza i temi della violenza e del patriarcato dando ad essi uno sfondo più profondo. Essa interagisce in modo decisivo sia con la critica femminista che con quella non-violenta poiché ci costringe a pensare una prevaricazione e una violenza più originarie, abissali e accecanti.
Ciò appare già da un punto di vista meramente quantitativo. Considerato per dimensioni e numero delle vittime, lo sfruttamento animale supera di gran lunga l’orrore di tutte le guerre mai esistite. Da questo punto di vista non c’è paragone fra gli oltre centosettanta miliardi di animali uccisi ogni anno nel mondo e il circa mezzo miliardo di animali umani che, si calcola, hanno perso la vita in qualche conflitto nel corso della storia dell’umanità. Se questa contabilità da necrologio ha il pregio di rendere le dimensioni dei fenomeni in analisi - e soprattutto di fare luce sulla ancora poco nota tragedia animale - non aiuta però a chiarire la natura di quei fenomeni, né a capire se essi siano effettivamente comparabili. Come il paragone con la Shoah, infatti, così il paragone dello sfruttamento animale con la guerra è fuorviante, se preso alla lettera.[9]
La questione non è che non si possa paragonare lo sfruttamento animale a una guerra perché, per esempio, non dichiariamo formalmente il conflitto alla controparte; del resto, spesso anche le guerre fra Stati e imperi non sono precedute da dichiarazioni formali. Lo studio delle pratiche e della giurisprudenza in fatto di relazioni fra umani e altri animali riserverebbe peraltro sorprese gustosissime che mostrerebbero come il nostro sguardo sugli altri animali sia condizionato da secoli di meccanicismo e reificazione dell’animalità; e come le stesse società occidentali, fino a soli quattro o cinque secoli fa, riservassero non solo a cani e gatti, ma anche a mucche, asini, rondini e perfino api e termiti, un trattamento per certi aspetti indistinguibile da quello che riservavano agli esseri umani, perché prendevano molto più seriamente di noi la loro senzienza e la loro individualità.[10] Non si tratta nemmeno del fatto che contro gli altri animali non si predisponga il classico dispiegamento militare di forze. Ancora oggi, infatti, gli umani organizzano la loro violenza armata contro alcuni altri animali, come i lupi e altri predatori. Piuttosto, si tratta del fatto che, se anche volessimo enfatizzare gli aspetti di somiglianza dello sfruttamento animale con la guerra e parlare di guerra in generale - e si è mostrato, in apertura, quanto sia problematico parlare di guerra in generale -, rispetto alle guerre tra gruppi e potenze umane la “guerra” tra animali umani e altri animali è non solo senza oggetto; ma anche senza soggetto. “Umani” e “animali”, infatti, non esistono se non come astrazioni e generalizzazioni indebite. Quel che esiste nella realtà sono i gruppi umani - e più ancora le classi sociali dirigenti - in lotta per il dominio del loro ambiente e, con esso, per il dominio degli altri animali. Di tutti gli altri animali..? Evidentemente no, ma solo di quelli che predano gli umani, che contendono loro l’uso delle risorse naturali e, nelle fasi più recenti della nostra storia, di quelli che possono essere ridotti a risorse sfruttabili.[11] Da qui, la diversa considerazione e il diverso trattamento che le società umane riservano nei confronti di alcune specie animali rispetto ad altre; e la diversità di queste stesse specie, che cambiano a seconda della società umana considerata.[12]
Quanto detto non implica che l’antispecismo non abbia nulla da insegnare sulla guerra. È semmai vero il contrario. Contestualizzare l’organizzazione della violenza e il suo uso politico e su larga scala come fatto storico serve infatti a de-assolutizzare la guerra in sé; cioè, come si è andati dicendo finora, a decostruirla per lasciar spazio alla considerazione delle sue cause reali. È solo liberandoci dagli orpelli ideologici che pretendono di consegnare la guerra a un’immutabile “natura umana” che riusciremo a liberarci della guerra stessa. Possiamo qui solo limitarci a suggerire alcune vie attraverso cui l’antispecismo può contribuire teoreticamente e praticamente a tale opera di liberazione.
La critica antispecista alla dicotomia umano/animale - e la sua conseguente rivalutazione degli aspetti morali e giuridici che attengono al modo in cui ci relazioniamo con gli altri animali - si fonda infatti non solo sulla considerazione della continuità fra le due parti ma anche su di una critica radicale dei concetti stessi di uomo/umanità e di animale/animalità. Come scriveva Derrida: “non esiste l’Animale al singolare generale. Separato dall’uomo da un unico limite indivisibile. Bisogna rendersi conto che ci sono dei ‘viventi’ la cui pluralità non può essere raccolta nella sola figura dell’animalità semplicemente opposta all’umanità”.[13] Nel pensiero del filosofo francese, nonché in molto antispecismo contemporaneo, questa problematizzazione dell’animalità e degli altri, concreti esseri animali, esonda e invade il campo dell’umanità.
Il fatto che l’umano si costituisca essenzialmente attraverso la negazione materiale e simbolica dell’animale dentro e fuori di sé costituisce una critica radicale di ogni identitarismo regressivo, cioè di ogni soggettività autocentrata che si erge sulla squalificazione dell’altro animalizzato: l’altro in quanto etnia, genere, bambino, folle ecc. Che questa relativizzazione della natura umana/animale debba condurre a esiti post-moderni è falso, oltre che inopportuno. Obiettivo della prassi antispecista non è, infatti, il dissolvimento della realtà in un insieme di individui indefinibili, unici e irripetibili e, per ciò stesso, estranei l’un l’altro; bensì la realizzazione di una società meno violenta, più ugualitaria e solidale. L’umano che va decostruito non è mai né un’idea, né, tantomeno, un individuo, ma sempre e soltanto il portato di un’organizzazione sociale che si fonda sull’oppressione e la squalificazione dell’altro, l’accumulazione, l’espansione e la costante riproduzione della gerarchia. La critica dei costrutti filosofico-culturali che giustificano tale status quo non è sufficiente però a realizzarne il superamento pratico-politico. Anche se la critica dell’identitarismo in parte coincide con la critica dell’essenzialismo, l’antispecismo non vi si riduce. Non si tratta, infatti, di cadere in un relativismo irrelato, bensì di tenere ferma la struttura che ricorsivamente produce l’auto-posizione dell’umano e la negazione interna ed esterna dell’animalità.
A questo proposito risulta utile, proseguendo nel solco di Hegel e della Scuola di Francoforte, fare riferimento al concetto di “dominio”. Con “dominio”, soprattutto in Adorno e Horkheimer, si intende l’assoggettamento della natura all’umanità per mezzo dell’assoggettamento, per così dire, dell’umanità a se stessa. In altre parole, per emanciparsi dallo stato originario di assoggettamento alle condizioni e agli eventi esterni, l’umanità ha dovuto sviluppare gli aspetti tecnico-razionali - la cosiddetta “ragione strumentale” - fino a reprimere ogni sua altra facoltà e inclinazione. Questa repressione, che pure è stata utile alla liberazione dell’umanità dallo stato di bisogno e incertezza in cui era gettata, permettendole di sviluppare la scienza, la tecnica e il pensiero logico-matematico così essenziali per il miglioramento delle sue condizioni di vita[14], ha finito presto per ritorcersi contro di essa. “Il dominio dell’uomo su se stesso, che fonda il suo Sé, è virtualmente ogni volta la distruzione del soggetto al cui servizio esso ha luogo, poiché la sostanza dominata, oppressa e dissolta dall’autoconservazione, non è altro che il vivente, in funzione del quale soltanto si definiscono i compiti dell’autoconservazione, e che è proprio ciò che si tratta di conservare […] Con la negazione della natura nell’uomo diventa oscuro e impenetrabile non solo il telos del dominio esteriore della natura, ma anche quello della vita stessa. Dal momento in cui l’uomo si recide la coscienza di se stesso come natura, tutti i fini per cui si conserva in vita, il progresso sociale, l’incremento di tutte le forze materiali e intellettuali, e fin la coscienza stessa, perdono ogni valore, e l’insediamento del mezzo a scopo, che assume, nel tardo capitalismo, i tratti della follia aperta, si può già scorgere nella preistoria della soggettività”.[15] Specismo e sfruttamento animale sono fra i primi frutti dell’allontanamento degli animali umani da sé e dagli altri animali. In questo senso, l’idea e la pratica del dominio, che per quanto riguarda i rapporti con gli altri animali coincisero con la diffusione e la razionalizzazione dell’allevamento e di altri modi di domesticazione, sono forme di violenza e prevaricazione sì storicamente - e non semplicemente biologicamente - determinate ma comunque originarie rispetto a quella patriarcale e più sistemiche. Se è vero che il patriarcato opera fin dalla divisione del lavoro nelle società di raccolta e caccia, infatti, le ultime ricerche hanno messo in discussione che, in quelle società, tale divisione seguisse rigidamente le linee del genere.[16]
Ad ogni modo, non si tratta tanto di stabilire una precedenza cronologica dello sfruttamento animale rispetto a quello delle donne; quanto una concettuale. È sempre attraverso l’animale, infatti, che la donna - l’astrazione e la generalizzazione indebita qui sono volute -, assume concettualmente una posizione subordinata. È infatti l’altro animale, con la sua alterità irriducibile a ricordarci la “natura negata”, la “preistoria della soggettività”. Non è solo il fatto che la differenza sessuale e di genere risulti in qualche modo depotenziata rispetto all’alterità animale; come abbiamo detto, è proprio che la squalificazione simbolica dell’alterità si innesta in tutta la storia della civiltà sulla denigrazione dell’animalità cui ogni altra alterità finisce per ridursi: la sub-umanità della donna rispetto al maschio pienamente umano è resa possibile dalla preventiva squalificazione della sub-umanità. Per tacere del ruolo subordinato che la natura non-umana (e, segnatamente, lo sguardo animale con i suoi interessi e la sua autonoma esperienza del mondo) assume come gradino ultimo della catena di oppressione e sfruttamento, fondamento materiale di ogni società complessa, accumulatrice ed espansiva. Per il maschio patriarcale la “femminilizzazione” è una discesa nell’impotenza dell’animalità; ma la “femmina” rappresenta anche la sfrenata passione irrazionale, la sensualità che minaccia la purezza e l’onore della ragione guerriera. L’animale è il crocevia, il luogo dell’eccesso e della mancanza, dell’esuberanza priva di freni e dell’assenza di intelligenza e di iniziativa. È per questo che l’altro animale resta nonostante tutto il termine negativo di un paragone millenario da cui continuiamo a prendere le distanze.
Con il dominio della ragione sui sentimenti, l’umanità ha fondato il Sé (“il carattere identico, pratico, virile dell’uomo”[17]); mentre ha rinnegato - nell’immaginazione - l’irrazionale, il discontinuo, il caotico, l’istintuale, l’emotivo e il sentimentale, disconoscendoli come propri. Spinti fuori dalla storia e dal suo divenire, essi sono stati condannati all’immobilità dell’eterno presente che sarebbe proprio dell’altro animale; il quale, da quel momento, è diventato l’animale tout-court. E se è vero che alla donna, schiacciata dall’uomo sulla sua funzione biologica, diminuita nella sua razionalità, è toccata una sorte simile a quella dell’animale, non si è potuto però rifiutarle ogni cittadinanza nel consesso umano. Troppo simile, troppo vicina all’uomo sia in quanto ad aspetti fisici e psichici sia in quanto a modo di esperire il mondo, troppo familiare in virtù del vivere comune, la donna era troppo dissimile, troppo lontana dagli altri animali per potervi essere ridotta. “L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si mostra la dignità dell’uomo.”[18] Anche nell’attuale società patriarcale, insomma, è ancora e sempre l’altro animale a rappresentare la sub-umanità par excellence, l’oggetto del rancore dell’animale umano che disprezza se stesso e costantemente proietta sull’altro la violenza che esso stesso perpetra ma da cui sogna di essere immune. 
Ma la questione animale non ha solo il pregio di ricondurre la violenza a cause remote che finiscono per coincidere con il sorgere e la struttura profonda della civiltà stessa, essa contribuisce anche a spostare il discorso su un piano sistemico. Perché la questione animale, pensata come questione sociale e politica, ci costringe a riconsiderare l’intera organizzazione della società se vogliamo effettivamente fare spazio alla sua abissale alterità. Non è in altri termini possibile immaginare la liberazione animale, il superamento del giogo oppressivo dell’umano sulla natura interna ed esterna, nella forma di un semplice aggiustamento della società attuale. L’animale è l’elemento strutturalmente negativo, inconciliabile con la razionalità di una società oppressiva e sfruttatrice.
Questo ci dà un’indicazione fondamentale sul modo in cui va pensato il superamento di tale società oppressiva e, per conseguenza, anche come va impostato il problema della pace. Perché anche se gli attivisti animalisti sono ancora troppo legati ad un’idea di una lotta moralistica che chiede agli uomini di trattare meglio gli animali (riproducendo, invece di superare, la dicotomia su cui si fonda l’oppressione di specie) e all’assunzione di uno stile di vita cruelty-free (riproducendo, invece di superare, il sistema produttivo su cui si fonda l’oppressione di classe), l’antispecismo si muove in direzione diversa. Esso costringe a pensare la dialettica umano/animale in tutti i suoi effetti sistemici e pretende un cambiamento produttivo che ristrutturi dalle fondamenta la società umana e i rapporti di questa con le società non-umane.
Ora, la pace, come la liberazione animale, non può essere l’effetto di una “conversione” degli individui alla pace. Essa nasce certo “dal basso” ma non può diventare un sistema di vita se non colpendo e sostituendo le strutture economiche, sociali e politiche che rendono impossibile la pace. Anche quelli che vengono considerati elementi “psicologici” strutturali della guerra - l’aggressività, il conflitto ecc. - sono effetti di un sistema sociale dato, non caratteristiche psicologiche, soggettive, individuali (e anche quando lo fossero il loro effetto sistemico si produrrebbe altrove, in dinamiche sociali, oggettive, super-individuali). Non è possibile superare il “bisogno di guerra” se non cambiando l’intero sistema dei bisogni ma una tale rivoluzione, come già accennato, non passa per una ridefinizione dei consumi, bensì della produzione. Il bisogno di armi, come il bisogno di merci animali, ha la sua causa prima[19], strutturale, nella produzione per il profitto. Solo la conversione della produzione in un’organizzazione solidale (tra umani e tra umani e non-umani) può dischiudere l’orizzonte in cui è possibile porre fine alla guerra e realizzare l’ideale di non-violenza su scala globale. 
Ciò spiega perché la pace può essere senz’altro il fine della liberazione (animale/umana) ma non senz’altro il mezzo, cioè il mezzo “esclusivo” che pone in essere la sua realizzazione. Proprio perché la guerra è l’effetto di cause sistemiche e non individuali, psicologiche ecc. potrebbe essere necessario agire forzando queste cause e limitandone l’effetto distruttivo. In questo modo un mezzo non necessariamente e integralmente non-violento avrebbe la possibilità di aumentare lo spazio d’azione della non-violenza. Come è possibile affrontare e risolvere questo dilemma?
 
La non-violenza come fattore politico
 
“…Gandhi o Martin Luther King. Io ho infranto la legge con lo stesso spirito con cui l’hanno fatto loro: nello spirito della disobbedienza civile. La parola d’ordine del movimento di disobbedienza civile è l’esporsi, non il nascondersi; la nonviolenza e non la violenza”.[20]
Tom Regan
 
In questi tempi di guerra nel giardino d’Europa, in questi tempi in cui “il mondo occidentale” (se così possiamo ancora definire la poliedrica realtà in cui, fino a ieri, i sovranisti erano espressamente filo-russi e sembravano avere i loro nemici in casa, piuttosto che oltreconfine), riscopre la sua pur mai perduta vocazione imperialista, la nonviolenza può svolgere una funzione di guida a un tempo strategica e morale in molteplici aspetti del vivere comune. Eppure, essa è ignorata, ridicolizzata e trattata come cosa di poco conto, ridotta a vezzo sentimentale, idealistico e borghese che le persone “pratiche”, su cui pesa il destino del mondo, non possono concedersi. Allo stesso modo viene trattata la richiesta antispecista di una trasformazione radicale dei rapporti umani con il resto del mondo animale. “Abitando in città, non possedevo una reale conoscenza diretta delle condizioni degli animali d’allevamento e, prima di leggere Gandhi, nessun interesse a riguardo. Dopo che venni sedotto dal pensiero di Gandhi, capii che dovevo rendere visibile l’invisibile; dovevo, per così dire, entrare nelle stalle e vedere cosa vi succedeva”.[21] Il rapporto fra antispecismo e nonviolenza è di lunga data e quasi di affinità elettive. Nel virgolettato riportato qui sopra, uno dei primi e principali teorici antispecisti, Tom Regan, racconta di come fu la lettura del cosiddetto “profeta indiano della nonviolenza” - unita ad un’epifania personale che aveva a che fare con un suo animale “domestico” -, Gandhi, che lo indusse a interrogarsi sullo sfruttamento animale e, in seguito, a diventare attivista. Il caso di Regan non è, peraltro, unico. Per molti di coloro che sono impegnati nella lotta per i diritti e la liberazione animale, Gandhi è un riferimento e il celebre aforisma gandhiano “Grandezza e progresso morale di una nazione si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali” sfugge al destino di iper-semplificazione e distorsione del pensiero degli autori “pop” tramite la decontestualizzazione e la risignificazione delle loro affermazioni più celebri e simboliche: per Gandhi, la questione animale era davvero di quelle importanti. In effetti, Gandhi non solo era vegetariano (secondo alcuni vegano, almeno per un periodo della sua vita); ma aveva anche molti scrupoli riguardo l’uccisione degli altri animali, che riteneva accettabile solo in assenza di alternative. Benché il suo paradigma fosse ancora antropocentrico, la sua idea di fondo era infatti di perseguire il bene di tutti gli esseri viventi, al di là della specie di appartenenza. Da qui, il rifiuto del sacrificio animale (pratica comune nella tradizione vedica), dell’alimentazione carnea e la condanna del lavoro del macellaio, considerato intrinsecamente violento. Vedremo fra un attimo come la cornice di queste convinzioni fosse la comunanza di tutti gli esseri. Se l’animalismo gandhiano fu ben compreso da Regan, forse non possiamo dire altrettanto del suo pacifismo. “Non sono un pacifista gandhiano”, scrive il filosofo statunitense. “Non credo che il ricorso alla violenza sia sempre ingiustificato. In particolare, non credo che sia sbagliato utilizzare la violenza per difendere degli innocenti […] Ovviamente, non dovremmo utilizzare più violenza di quanta ne sia necessaria. E non dovremmo affatto ricorrere alla violenza finché non abbiamo esaurito tutte le possibili alternative nonviolente, consentite dalle circostanze e dal momento”.[22] Dalla comprensione (e dall’incomprensione) di questo aspetto del pensiero gandhiano e della nonviolenza in generale, che a Gandhi deve molto, dipende fra le altre cose la relazione fra antispecismo e pacifismo/nonviolenza.
Come l’antispecismo si definisce negativamente rispetto al suo positivo, ovvero lo specismo, e richiede pertanto di connotare quest’ultimo per connotare se stesso, così la nonviolenza si definisce in rapporto alla violenza. Qui iniziano i problemi, perché di violenza si danno definizioni diverse e perché attorno a cosa sia e cosa non sia violento si ingaggia uno scontro pluridecennale. In una splendida raccolta antologica di brani e articoli gandhiani, Giuliano Pontara, che di Gandhi è grande studioso, ne restituisce una definizione coerente con il pensiero -così frammentariamente esposto- del rivoluzionario indiano: la violenza sarebbe “l’uccisione di esseri umani o l’inflizione ad essi di sofferenze mediante l’impiego organizzato e sistematico (quindi intenzionale e a livello di gruppo) di mezzi coercitivi. Intesa in tal senso la violenza può assumere varie forme o dimensioni: diretta o indiretta, fisica o psichica, per omissione o per commissione, manifesta o latente, personale o strutturale, più o meno intensa, estesa, ecc..”.[23] Possiamo già fermarci ad apprezzare l’apertura dell’universo del discorso sulla nonviolenza alla dimensione politica dell’esistenza, senza la quale non si avrebbe “impiego organizzato e sistematico” di mezzi coercitivi. La dimensione politica, organizzata e sistematica della violenza la distingue quindi dalla dimensione individuale ed evemenenziale su cui spesso si appiattisce sia il discorso a favore che quello contro la nonviolenza come teoria e pratica di lotta. Resta tuttavia problematica la definizione della violenza “in sé”. Nel loro libro This is an uprising. How nonviolent revolt is shaping the twenty-first century, i fratelli Mark e Paul Engler riassumono così la questione: “I pacifisti hanno sempre criticato i difensori della violenza rivoluzionaria sostenendo che bisognasse rifiutare l’utilizzo di metodi violenti per raggiungere i propri fini politici. Allo stesso modo, coloro che difendono il sabotaggio e la distruzione di proprietà come strumenti di lotta solitamente affermano che queste tattiche non dovrebbero essere considerate violente, perché esse prendono di mira oggetti inanimati e non sono concepite per ferire qualcuno”.[24] Escludendo i casi limite e quelli in cui un movimento o un’organizzazione rivendichino espressamente l’utilizzo e la liceità di tattiche violente, i due studiosi si pongono il problema di come considerare tutti quei casi in cui il giudizio sulla violenza o la mancanza di violenza di un’azione e di una tattica di lotta deve essere per forza di cose sfumato: ovvero tutti i casi davvero problematici e discussi. Da studiosi -e promotori- di un approccio relativamente nuovo rispetto a quello gandhiano, tuttavia, i fratelli Engler pervengono a una conclusione tranciante, che sembra avere il potenziale per sgomberare il campo da ogni dubbio. Infatti, proseguendo nel brano riportato pocanzi, leggiamo: “Per gli attivisti che utilizzano la nonviolenza strategica, tuttavia, non è questo il punto. La domanda importante è: quali tattiche aiutano a far crescere il movimento e ottenere il consenso dell’opinione pubblica? In quanto a questo, la definizione filosofica di cosa sia la violenza è completamente irrilevante. Ciò che importa è la risposta del grande pubblico ad una particolare tattica, e ciò che esso pensi sia violenza”.[25] Si tratta quindi di una definizione operativa che, se getta via il bambino della realtà fattuale con l’acqua sporca dell’impaccio e dell’incertezza che la domanda “filosofica” sulla violenza porta con sé, aprendo forse a un eccessivo relativismo, ha però il pregio di introdurre un elemento nuovo nell’equazione della violenza e della nonviolenza: l’elemento storico e culturale rappresentato dall’opinione pubblica. Così nuovo, peraltro, questo elemento non è: già il Lenin di “Che fare?”, che critica l’inserimento del terrorismo nel programma rivoluzionario, aveva iniziato a considerare l’umore del popolo perfino quando si trattava di comporre il programma rivoluzionario: “Un’organizzazione terroristica”, scriveva, “impedirebbe alle nostre truppe di avvicinarsi alla folla, che purtroppo non è ancora nostra e che purtroppo non ci domanda o ci domanda molto raramente quando e come bisognerà aprire le ostilità”.[26] Senza voler approfondire in questa sede la questione relativa alla “opinione pubblica” e al “grande pubblico” di cui si è detto di sfuggita, appare quindi evidente che la giusta e sensata definizione di Pontara vada perlomeno integrata e problematizzata.
Come accennato in apertura, c’è un motivo per cui Gandhi rifiuta la violenza sugli altri, che è relativo alla comunione universale degli esseri e che rimanda alle radici filosofico-religiose del suo pensiero. La distruzione dell’armonia universale operata dalla violenza (specificamente da un certo tipo di violenza, come vedremo in seguito), sarebbe esecrabile in sé perché contraddirebbe l’ordine naturale delle cose e offenderebbe la sacralità stessa del creato. Questo argomento in difesa della nonviolenza è considerabile come “a priori” e, come tale, è fra quelli più criticati della “filosofia” gandhiana della nonviolenza. In particolare, si sono esposte le radici mistico-religiose di questa particolare idea di comunanza universale; radici che affondano nell’induismo di cui Gandhi era seguace. Tuttavia, seppure volessimo intendere questo suo convincimento come di tipo prettamente mistico-religioso, Gandhi non è stato solo un induista, ma anche un uomo politico di grande intelligenza. Oltre a questo argomento a priori, esistono infatti una serie di argomenti “a posteriori”, enunciati da Gandhi stesso, utili a perorare la causa della nonviolenza. Fra questi, i principali sono che la violenza non conduca a soluzioni stabili dei conflitti; che brutalizzi chi vi ricorre, che lo abitui ad essa e che quindi si perpetui anche contro le sue intenzioni; che favorisca tendenze e personalità autoritarie; che favorisca istituzioni autoritarie che per loro natura si auto-preservano anche a conflitto finito; che sia intrinsecamente opposta al valore democratico dell’uguaglianza date le difficoltà oggettive al suo ricorso da parte, per esempio, di persone anziane o molto giovani, di persone disabili ecc… D’altro canto, non è difficile capire come le ragioni addotte da Gandhi per sostenere la nonviolenza come pratica di lotta efficace fossero speculari rispetto a quelle addotte per non sostenere la violenza. In particolare, cioè, che la nonviolenza nobiliti l’umanità; che favorisca tendenze e personalità democratiche; che favorisca istituzioni democratiche e che sia essa stessa intrinsecamente democratica ed ugualitaria. Fra gli aspetti più controversi del pensiero gandhiano rientra sicuramente l’enfasi sul sacrificio personale, ovvero la necessità di attirare a sé la sofferenza risparmiata al proprio avversario/nemico; cioè quel “sentire l’offesa nella propria persona” che Gandhi intendeva come essenza della nonviolenza e che sarebbe in grado di “convertire l’avversario e di aprire le sue orecchie, altrimenti chiuse, alla voce della ragione”.[27] Un tema che in Occidente è fin troppo facilmente identificabile con la morale cristiana del “Porgi l’altra guancia”, e che forse anche per questo appare respingente dal punto di vista di un’etica filosofica e di una filosofia politica secolari. Comunque sia, questi scrupoli non dovrebbero offuscare gli aspetti di pragmatismo nell’adozione gandhiana della nonviolenza come strategia di lotta. È appunto come strategia di lotta che, crediamo, la nonviolenza abbia molto da insegnare a prescindere dai propri imperativi morali e dalla propria fede religiosa.
Why Civil Resistance Works? The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, è la più grande raccolta e analisi dati sulle campagne violente e nonviolente dell’ultimo secolo. Prende in considerazione centinaia di campagne fra l’anno 1900 e i giorni nostri, e mostra l’incremento e la miglior riuscita delle campagne nonviolente e il decremento e la minor riuscita di quelle violente. La ricerca, che consta anche di un’analisi qualitativa e particolare delle campagne in questione, prosegue tuttora con l’accumulazione e l’elaborazione di sempre nuovi dati, consultabili sul sito dell’autrice principale del libro, Erica Chenoweth.[28] Stando allo studio, nel periodo analizzato le campagne nonviolente avrebbero avuto un tasso di successo doppio rispetto alle campagne violente. “Nel nostro studio”, scrivono Erica Chenoweth e Maria Stephan, “per considerare di successo una campagna abbiamo valutato se abbia o meno realizzato interamente i suoi obiettivi (cambio di regime, liberazione da forze straniere o secessione) entro un anno dal suo picco e se il cambiamento ottenuto sia un risultato diretto della campagna oppure no”.[29] In merito al problema della definizione di violenza e nonviolenza, le autrici adottano un approccio “empirico” e scrivono: “È possibile caratterizzare una campagna come principalmente nonviolenta in base ai metodi di resistenza più utilizzati e alla partecipazione a quei metodi […] Il termine resistenza implica che la campagna non sia “istituzionale” ma, anzi, solitamente conflittuale. In altre parole, si utilizzano tattiche estranee ai metodi convenzionali di confronto politico (il voto, l’organizzazione di gruppi di interesse, l’azione di lobbying…) […] La resistenza civile impiega metodi sociali, psicologici, economici e politici, come boicottaggi (sociali, economici e politici), scioperi, proteste, sit-ins, non cooperazione e altre forme di disobbedienza la fine di mobilitare il grande pubblico per opporsi o sostenere qualche politica, per delegittimare un avversario, e per sottrargli o indebolire le sue fonti di potere”.[30] È interessante notare che “anche quando le rivoluzioni violente hanno successo, è improbabile che questo conduca a governi democratici. Il 67% degli Stati considerati non liberi nel 2005 avevano avuto recenti transizioni politiche violente” […] Nei nostri dati, su 218 insurrezioni violente dal 1900, sono stati poi stabiliti governi democratici solo nel 5% dei casi”.[31] Considerate le sue conclusioni, non è strano che Why Civil Resistance Works sia stato accolto da un lato come la Bibbia dei movimenti sociali (per esempio è fra i testi di riferimento e fra i più letti in assoluto dagli attivisti del movimento “Extinction Rebellion”); dall’altro, come un roboante proclama basato su una metodologia di ricerca inaffidabile e una serie di bias. Resta che Why Civil Resistance Works rappresenta una pietra di paragone inevitabile per gli scienziati politici contemporanei e segna una presa di distanza dagli afflati “spirituali” del pensiero di Gandhi. Con questo libro, il movimento nonviolento inaugura definitivamente la sua fase “strategica”, e lo fa su basi empiriche, su dati controllabili e su teorie previsionali. Ironicamente -e nonostante essa sia indubbiamente più pragmatica e quindi più “attraente” per il lettore occidentale rispetto a quella da lui teorizzata-, è probabile che Gandhi avrebbe chiamato questa forma di nonviolenza così innovativa come “nonviolenza del debole”, in opposizione alla “nonviolenza del forte”: cioè quella agita non soltanto per calcolo politico, ma anche per intima convinzione e disposizione d’animo.
I conflitti nonviolenti aiutano gli attivisti ad evidenziare la violenza sistemica della società, portandone alla luce le contraddizioni esistenti: dall’incapacità di distribuire equamente risorse e ricchezza alla guerra come paradossale prosecuzione della diplomazia tramite la violenza organizzata, fino alla pretesa democraticità di Stati liberali che dichiarano fuorilegge i partiti avversari e perseguitano le minoranze etniche, linguistiche e culturali. D’altra parte, gli attivisti nonviolenti possono evidenziare queste contraddizioni tanto più quanto se ne emancipano. In altri termini, dal fatto che gli attivisti cerchino di prefigurare il mondo liberato -dalla violenza e, per quanto riguarda l’antispecismo, dallo specismo e dal dominio-, dipende almeno in parte sia come penseranno e come agiranno, sia come verranno giudicati dal resto della società, come verranno accolte le loro istanze e, quindi, che efficacia avrà la loro azione. Non è un caso che le aziende dello sfruttamento animale cerchino di dipingere gli attivisti per i diritti e la liberazione animale come violenti: la lotta per la trasformazione sociale passa anche per il ricatto degli argomenti ad hominem. “Avendo adottato una strategia d’attacco”, scrive Tom Regan sempre in “Gabbie vuote”, “una delle cui fondamenta è la descrizione degli ARA [animal rights activist, Ndt] come dei terroristi fuorilegge, le grandi industrie di sfruttamento animale devono ora affrontare una sfida enorme. Perché la loro strategia funzioni, è indispensabile che ci siano attività illegali e terroristiche da parte degli ARA. E non poche, ma molte”.[32] Esemplare è il caso di Leon Hirsch, ex presidente della US Surgical Corporation di Norwalk, Connecticut, che inscenò un attentato terroristico alla propria vita da parte di un’ARA. Hirsch fu poi sbugiardato, ma ottenne titoli sensazionalistici dai giornali dell’epoca, come questo: “Terroristi animalisti attentano alla vita di una persona perbene”. Coerenza e credibilità personale degli attivisti, che di per sé hanno un valore prevalentemente simbolico e di ispirazione per gli altri, sono oggi usate strumentalmente non solo dagli avversari e dai nemici giurati degli antispecisti; ma anche, ed è davvero ironico, all’interno dello stesso variegato mondo dell’attivismo antispecista. Qui capita spesso che i conflitti e le antipatie personali conducano a reciproche accuse, non importa se basate su fatti e prove oppure no, basta che la voce giri, di non essere “veramente”, “sufficientemente”, “coerentemente” vegan. Senonché si tratta di una falsa obiezione. Quando la coerenza personale appare -appare soltanto: non c’è consumo antispecista sotto il capitalismo- inattaccabile, ci pensano i Cruciani di turno ad accusare per la “eccessiva” coerenza. Chi appare “eccessivamente” coerente, fino al punto da non lasciare fianchi scoperti che l’avversario riesca a vedere, viene allora tacciato di rigidità, di intolleranza, di “nazi-veganismo”. A proposito di violenza e false retoriche, Chenoweth e Stephan scrivono: “Noi pensiamo che molti dei gruppi che presentano la violenza come ultima spiaggia potrebbero non avere mai tentato una strategia di azione nonviolenta, giudicandola troppo complessa fin dall’inizio. Max Abrahams identifica molteplici gruppi terroristi, per esempio, che hanno deciso di utilizzare la violenza fin da subito nonostante usino la retorica della violenza come ultima spiaggia (2008, 84-85)”.[33] Pur non trattandosi di gruppi terroristici ma di governi democraticamente eletti, non sfuggirà il parallelo con l’esecutivo russo e con quelli occidentali - compreso il governo ucraino dell’improvvido Zelensky - per i quali, fra riarmo e aiuti militari diretti o indiretti, pace, negoziazione e dialogo (e/o disobbedienza civile organizzata e sostegno ai pacifisti russi e ucraini) sembrano non essere mai stati un’opzione.
“A rigor di termini nessuna attività e nessuna occupazione è possibile senza un certo grado, per quanto limitato, di violenza. La stessa vita è impossibile senza una certa misura di violenza. Ciò che dobbiamo fare è limitare questa violenza quanto più possibile”.[34] Per Gandhi, il rifiuto della violenza non è di tipo assoluto. Il suo esempio del folle omicida armato di spada, che andrebbe fermato anche a costo, se necessario, di ucciderlo, è ormai celebre e viene citato anche a sproposito e strumentalmente, cioè quando si vuole strappare l’endorsement dei pacifisti. Ahimsa (nonviolenza) significa infatti astenersi dal causare sofferenze per ira, per un fine egoistico e per volontà di fare del male; non astenersi dal causare sofferenze in generale e in assoluto, che sarebbe impossibile e forse anche ingiusto dato che esistono e possono esistere situazioni in cui compiere -o lasciar compiere- un male è necessario per evitarne uno maggiore. Per Giuliano Pontara, la nonviolenza gandhiana si configura quindi non come principio morale assoluto o dottrina religiosa, ma come contestazione attiva e permanente dello status quo come violento e ingiusto. In quanto tale, la nonviolenza sarebbe intrinsecamente creatrice di conflitti. Questa sua dimensione dialettica, presente in tutta la speculazione sulla nonviolenza da Gandhi in poi (con alcune eccezioni relative perlopiù ai pacifisti integrali à la Tolstoj), apre alla nonviolenza stessa le porte dell’azione politica, che è l’azione mediata -in particolare, di mediazione fra interessi diversi e potenzialmente contrastanti- per eccellenza. Il carattere conflittuale della nonviolenza la configura espressamente come “lotta”, non semplicemente come dottrina o stile di vita. Questo tratto particolare della tradizione nonviolenta informa anche le teorizzazioni moderne, come quella di Gene Sharp circa la nonviolenza strategica, che per alcuni aspetti prendono le distanze dalla nonviolenza gandhiana. La riflessione più recente ha addirittura iniziato a superare un certo individualismo metodologico storicamente -ma non costitutivamente- insito nel pensiero della nonviolenza, fornendo le basi per una nonviolenza propriamente e finalmente “politica”. “L’idea dei pilastri che sorreggono il potere”, scrivono Mark e Paul Engler nel succitato This Is an Uprising, “è utile in molti modi. Come affinamento della teoria sharpiana del potere, tale idea evidenzia il fatto che le persone non interagiscono con un regime semplicemente come individui. Piuttosto, le loro decisioni circa come e quando cooperare prendono la forma delle loro identità professionali e sociali. L’idea dei pilastri che sorreggono il potere permette a chi sfida quel potere di pensare in maniera strategica, permettendo agli attivisti di prevedere più chiaramente cosa serve per far cadere il potere stesso. Essi potranno determinare, per esempio, su quale o quali fonti di supporto sociale concentrarsi – per esempio agire sul basso clero, o spingere la stampa su posizioni più critiche verso il regime”.[35] Nei fratelli Engler perfino la questione del sacrificio personale viene posta in maniera secolare e “scientifica”, abbandonando ogni irrealistica pretesa di aprire le “orecchie” e la mente dell’avversario all’ascolto della “ragione”: “[Il sacrificio, NdR] avrà poco a che fare con il cambiare l’opinione dei propri avversari; e molto a che fare con il coinvolgimento dei propri amici. Quando le persone decidono di mettere a rischio la propria incolumità o di affrontare l’arresto, le loro decisioni mobilitano le loro comunità”.[36]
Queste considerazioni, riassumendo, da un lato aprono la strada dell’azione politica nonviolenta; dall’altro agiscono sulla dimensione politica stessa per come è stata finora intesa, e la modificano. La politica contemporanea dei grandi Stati-nazione imperialistici e delle predatorie alleanze atlantiche, infatti, si basa sulla distinzione luterana -e dicotomica- fra il regno spirituale e quello mondano. Il primo, il regno spirituale, sarebbe il regno dell’individuo e dell’etica, dove vigerebbero i principi evangelici di carità, amore, perdono, nonviolenza e sacrificio di sé; o almeno, dove questi principi potrebbero vigere e dove hanno la possibilità di agire efficacemente. Il secondo, il regno mondano, sarebbe invece il regno dei gruppi mossi esclusivamente da ragioni egoistiche, da interessi economici sostenuti e preservati tramite l’esercizio del potere e dal dominio sull’esistente. Secondo tale distinzione, che nel regno mondano viga uno stato di guerra è la normalità; che per lungo tempo, almeno nella parte più filo-atlantista dell’Europa, non abbiamo avuto guerre, è invece l’eccezione. La nonviolenza politica rivoluziona e supera la dicotomia luterana (e con essa tutta la scuola del “realismo” di matrice machiavelliana e bismarckiana) facendo irrompere sulla scena non già un idealismo fatuo e ingenuo, e nemmeno l’individualismo metodologico della conversione dell’avversario; ma la consapevolezza della falsità della separazione netta fra regno “mondano” e regno “spirituale”. In questo senso, il principale apporto teorico della nonviolenza che abbiamo chiamato “politica” trascende il suo apporto pratico, cioè la sua efficacia strategica e quindi il fatto che potrebbero essere utilizzate tattiche nonviolente anche nella gestione del conflitto in corso, dall’insubordinazione degli eserciti alla non-cooperazione dei funzionari pubblici e altro ancora; e consiste proprio nella critica del predominio di un mondano materialisticamente inteso, meccanicista, calcolante, iper-razionale e predatorio. Questo mondano non viene fuso misticamente in un’unità indistinta, primordiale e a-storica con lo spirituale. Piuttosto, esso viene liberato dalle catene cui l’ha costretto la politica borghese e capitalistica dello scontro fra grandi interessi contrastanti per la dominazione del vivente ai fini dell’accumulazione indefinita. Non più alienato, esso viene restituito a una dimensione dell’esistenza solidaristica, ugualitaria e compassionevole. Come la scandalosa rinuncia dell’antispecismo ai privilegi del dominio sulle altre specie recupera la possibilità di un incontro reale con sé e con gli altri, compresi gli altri animali, così la scandalosa rinuncia della nonviolenza all’imposizione della propria volontà di dominio tramite la guerra apre la strada a un avvenire di pace. La realizzazione di questa pace dipenderà però non solo e non tanto dalla buona volontà, dalla dedizione di chi si impegna per costruirla; ma da se saremo in grado di superare il modo di produzione che ne impedisce la possibilità stessa.

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[1] Anna Fischhaber, Flucht mit Haustier: Nicht ohne meinen Kater, “Süddeutsche Zeitung”, 28 marzo 2022.

[2] Cynthia Cockburn distingue movimento contro la guerra, movimenti antimilitaristi e movimenti per la pace: “Quando si combatte o sta per scoppiare una guerra è probabile che gli attivisti che vi si oppongono si definiscano come un movimento contro la guerra. Quando le persone si oppongono a un governo militare, a spese militari elevate o all’imposizione di basi straniere nel loro paese possono scegliere di definirsi attraverso la parola antimilitarismo. Se il problema che si presenta è la tendenza del governo a preferire la guerra alla diplomazia in politica estera, o una situazione di stallo a lungo termine tra le potenze armate, è probabile che il movimento venga definito movimento pacifista o per la pace”. Cynthia Cockburn, Anti-militarism. Political and Gender Dynamics of Peace Movements, Palgrave Macmillan 2012, p. 2 [traduzione di Marco Maurizi]. A prescindere dalla precisione di questa distinzione (il nodo del rapporto tra pacifismo e non-violenza, ad es., non viene affrontato) cercheremo di tenere legati questi tre aspetti e proveremo a mostrare come la questione animale la renda in buona parte problematica.

[3] Per una recente critica di queste posizioni cfr. R. Brian Ferguson, “War Is Not Part of Human Nature”, Scientific American, 1 settembre 2018.

[4] Paola Rivetti, “Di fronte alla guerra, rivolgiamoci al femminismo Il pensiero femminista”, Micromega, 1 Marzo 2022 Di fronte alla guerra, rivolgiamoci al femminismo (micromega.net)

[5] Ibid.

[6] V. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori riuniti, Roma 1974, p. 120.

[7] K. Marx, Il capitale, Newton, Roma 1996, pp. 86-88.

[8] Lenin, L’imperialismo, cit., p. 128.

[9] Sul paragone dello sfruttamento animale con la Shoah, si veda Viaggi senza ritorno. Realtà e ideologia nel confronto tra Auschwitz e il mattatoio, su Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo, Novalogos, anno 11 numero 5 novembre 2013

[10] Cfr. Jason Hribal, Paura del pianeta animale

[11] Cfr. David Nibert, Animal Rights/Human Rights; e Marco Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà

[12] Cfr. Jeremy Rifkin, Ecocidio, in particolare paragrafo 5: “La vacca sacra”; e Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari

[13] Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Jaca Book, 2018, pag. 89

[14] Osserviamo come diversi studiosi mettano in dubbio che i primi Sapiens vivessero davvero così male (cfr. già il concetto di “società affluente” di Sahlins) e suggeriscono che lo sviluppo umano sia stato dovuto più a cause accidentali che strutturali. Va altresì sottolineato che lo stesso Adorno non escludesse l’ipotesi di un’origine contingente della civiltà: Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 287. 

[15] Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi 2010, pag. 62

[16] Cfr. Randall Hass - James Watson et al., “Female hunters of the early Americas”, in Science Advances, vol. 6, Issue 45.

[17] Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 41.

[18] Ivi, p. 236.

[19] “Prima” in senso ontologico, non cronologico. L’errore degli animalisti è considerare il bisogno di prodotti animali delle società umane pre-moderne e il bisogno di prodotti animali delle società capitalistiche come forme diverse dello stesso bisogno. Non è così. Il sistema dei bisogni nella società attuale è funzione dell’apparato produttivo. Non solo non è un bisogno “naturale” ma socialmente, artificialmente prodotto e indotto; ancora più interessante è che il processo di razionalizzazione (conflittuale) portato avanti dal capitalismo costringe ad una messa a tema dell’intero sistema dei bisogni e ci permette di pensare il superamento del capitalismo come la realizzazione di un ordine sociale in cui per la prima volta “quanto”, “come”, “cosa” e “per chi” produrre diventano oggetto di una decisione consapevole e collettiva.

[20] Tom Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Casale Monferrato, Sonda 2016, p. 281.

[21] Ivi, p. 139.

[22] Ivi, p. 274.

[23] M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Torino, Einaudi 1996, Prefazione (“Il pensiero etico-politico di Gandhi”, a cura di G. Pontara), pp. XLV-XLVI.

[24] Mark Engler, Paul Engler, This is an uprising. How nonviolent revolt is shaping the twenty-first century, New York, Bold type books 2016, pag. 236. [traduzione di Dario Manni]

[25] Ibid.

[26] V.I. Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, Roma, Editori Riuniti 2019, pp. 172-173.

[27] M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, cit., p. 6.

[28] https://www.ericachenoweth.com/research

[29] Erica Chenoweth, Maria Stephan, Why civil resistance works. The strategic logic of nonviolent conflict, New York, Columbia University Press 2011, p. 14.

[30] Ivi, p. 12.

[31] Ivi, p. 209.

[32] Tom Regan, Gabbie vuote, cit., p. 43.

[33] Erica Chenoweth, Maria Stephan, Why civil resistance works, cit., p. 227.

[34] M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, cit., pag. 77.

[35] Mark Engler, Paul Engler, This Is an Uprising, cit., p. 92 [traduzione di Dario Manni].

[36] Ivi, p. 150.