Marco Maurizi | Attualità dell’utopia. Per una ricostruzione della Teoria Critica in Marcuse

I. La costruzione di un metodo: dalla storicità alla storia II. Quello che le qualità non dicono: Libertà e necessità; La contraddizione qualitativa fondamentale III. Lavoro e capitale: forme della socializzazione: Il lavoro come attività e il problema della mediazione; Universalizzazione e socializzazione; Il capitale come soggetto assoluto IV. Il disagio della civiltà socialista: La rivoluzione amministrata; Il socialismo non ancora esistente V. Il keynesismo reale e il problema dei “falsi bisogni” VI. Il comportamentismo realizzato: performatività e magia: La verità performativa del discorso sovietico; Il capitalismo come comportamentismo totalitario; L’operazionismo terapeutico e la dissidenza del concetto VII. Dialettica della razionalità tecnologica: La struttura della Ragione storica; La teleologia nascosta del meccanicismo - La qualità come resistenza nella natura VIII. Thanatos e civiltà: In-attualità di Freud; Eros e rivoluzione sessuale: La dialettica della repressione IX. Il circolo vizioso della rivoluzione: individuo e società: Note preliminari; L’individuo come sostrato della rivoluzione; Aporie della razionalità discorsiva. 1. Triebstruktur e razionalità; 2. Il ritorno del fascismo e la distruzione della verità X. Sensibilità, immaginazione e liberazione della natura: Godimento e abolizione del tempo; Paradisi perduti; Il futuro del lavoro; Ai confini della liberazione umana 

A oltre cinquant’anni dalla sovraesposizione mediatica che gli diede il ‘68, Marcuse resiste pervicacemente all’oblio. Colui che fu attaccato contemporaneamente dai repubblicani californiani di Reagan, dalla Pravda, da Irving Howe, dal Partito Comunista Francese e dal Papa come “il pifferaio che ha corrotto le menti, la morale e i costumi dei giovani”[1] non smette di provocare reazioni viscerali. Nonostante la sua “ossessionante assenza”[2] dal dibattito accademico, il suo nome, se non proprio le sue teorie, riaffiora ovunque risuonino i temi discussi nei suoi testi, sia che venga citato come ispiratore di un possibile “comunismo acido”[3], sia che assurga a simbolo dello “pseudo-intellettuale”[4] o venga attaccato come profeta di quel “marxismo culturale”[5] che tanto terrorizza i conservatori americani. Non è azzardato supporre che il suo pensiero abbia evidentemente colto dei tratti duraturi, se non essenziali, del presente.
Oggi come allora, infatti, la “razionalità tecnologica” di cui parlava Marcuse sembra annunciare al tempo stesso il mondo a una dimensione e la fine dell’utopia: la realtà può apparire come un algoritmo impazzito che permette a sistemi politici post-democratici di minacciare definitivamente la libertà umana; ma con lo stesso diritto, accelerazionisti e postumanisti possono invocare la celebrazione dell’automazione e la sintesi di fantasia e scienza auspicata da Marcuse e prometterci un futuro cyber, ibridato, infinitamente aperto al cambiamento. Oppure si pensi a come l’avanzare dell’Alt-Right abbia riportato in auge il tema marcusiano della “tolleranza repressiva”, cioè della necessità di operare una censura libertaria contro gli agenti della discriminazione e dell’oppressione. Non a caso qualcuno lo vuole alfiere ante-litteram della “cancel culture” [6].
Pur non trovandoci in un clima incandescente dal punto di vista della coscienza “militante”, come potevano essere i tardi anni ‘60, viviamo un periodo in cui la crisi in atto dal 2008 sembra giunta ad un punto di svolta, attraversata dal Black Lives Matter, dal ritorno del (trans)femminismo e dell’ambientalismo, dagli scioperi della logistica ecc. Non a caso, una violenta risposta irrazionalistica e complottistica alla crisi pandemica sta facendo affiorare fenomeni complessi e contraddittori che lasciano sgomenti, una crisi della razionalità comunicativa e della sfera pubblica senza precedenti. Ma alla teoria appartiene quell’ostinazione[7] che Marcuse coltivò e che la spingono a non farsi terrorizzare da ciò che vede. Ed è in questo senso che condivido l’appassionata difesa di Mike Watson[8] e ritengo che riflettere sul pensiero marcusiano potrebbe darci indicazioni utili per capire il presente e forse anche per evitare alcuni errori del passato. La grandezza e l’irrepetibilità di Marcuse stanno nella generosità del suo impegno, nella capacità di cercare una sintesi tra il livello della teoria e quello della militanza ma anche, e direi soprattutto, nella radicalità con cui sapeva interrogare entrambe.
Nel pensiero di Marcuse, infatti, soprattutto se osservato nei suoi ultimi sviluppi, troviamo forse l’articolazione teorica in grado di mettere nella giusta prospettiva processi che in certo qual modo riguardano anche noi: da un lato, i rischi connessi ad ogni idealizzazione della tecnica e delle sue potenzialità emancipiative, la chiusura dell’universo di discorso e l’anestetizzazione nei confronti della violenza e dell’autoritarismo, dall’altro, il feticismo della spontaneità, la centralità data alla critica “culturale”, la tendenza a vedere in uno “stile di vita” alternativo delle potenzialità di liberazione, un certo culto della natura incontaminata. Occorre soprattutto riconsiderare questi ultimi aspetti – la critica alla “reificazione”, la pratica di una vita “qualitativamente” diversa – perché sono quelli solitamente considerati più vicini al pensiero di Marcuse[9]. Vedremo che, in un certo senso, sono quelli che gli sono più distanti.
Per fare questo dovremmo operare una ricostruzione[10] del pensiero marcusiano che ne metta in luce i presupposti metodologici, facendo emergere la struttura che sta alla base della sua teoria dell’emancipazione. Questa struttura va anzitutto compresa nei suoi elementi essenziali, ovvero il rapporto tra capitale e lavoro, tecnica e bisogni. È solo sulla scorta di quest’analisi teorica che sarà possibile porre le questioni politiche relative alla attualità del pensiero di Marcuse senza cedere, come avverte Angela Davis[11], a tentazioni nostalgiche.
 
I. La costruzione di un metodo: dalla storicità alla storia
 
Cominciamo dal metodo. Come noto, il pensiero di Marcuse, negli anni giovanili, vede in Heidegger la possibilità di una filosofia “concreta”[12]. In questo periodo la filosofia come atteggiamento rivolto al disvelamento del senso dell’esistenza e il marxismo come teoria della rivoluzione politica esprimono per Marcuse una medesima esigenza di verità e giustizia[13]. La sintesi “dialettica”[14] dovrebbe giungere da una “teoria della storicità” che però verrà abbandonata nel momento in cui inizia la sua collaborazione con l’Istituto per la ricerca sociale.
Già in questa prima fase, seguendo le orme di Heidegger, Marcuse considera la filosofia trascendentale una pista non più percorribile. Nel saggio “Marxismo trascendentale” ciò appare in modo cristallino. Il soggetto trascendentale può definire l’universale solo in termini formali o di oggettività possibile[15]. Per poter fare ciò deve escludere o mettere tra parentesi la realtà empirica e concentrarsi esclusivamente su ciò che è determinabile a priori, dunque in modo universale e necessario. Ogni teoria trascendentale della società è, in tal modo, resa impossibile: “l’essere sociale non è mai puramente possibile, è ciò che è per essenza e per principio reale”[16]. Ogni volta che si afferma qualcosa di a priori sulla società quel che si dice, in realtà, non è affatto a priori ma una generalizzazione indebita del dato empirico[17].
Il problema è che il soggetto trascendentale si costituisce a partire dalla temporalità ma questa temporalità è di tutt’altro genere rispetto a quella in cui sorgono e si strutturano gli oggetti storico-sociali[18]. Questi ultimi emergono da quella che Marcuse qui ancora chiama “situazione concreta” ovvero da una socializzazione che è al tempo stesso un essere calati nella storia reale. Il tempo qui non è un “momento esterno” ma “appartiene piuttosto all’«essenza» stessa di ciò che determina: la connessione e l’unità della vita storica sono l’«attuazione del tempo» – la vita storica è essa stessa il suo tempo, fa accadere il suo tempo”[19]. La legalità degli oggetti per una coscienza universale a priori è sempre e solo la legalità di oggetti in generale, non quella di oggetti che emergono, vengono pensati e agiti già in comune nell’esperienza pratico-sociale[20].
Conseguentemente, l’universale appare qui non il prodotto di una coscienza pura ma del pensiero e dell’azione che incontrano nella storia la totalità delle forme di vita[21]. In questi primi scritti il problema della storia è ancora, heideggerianamente, formulato come problema della Geschichtlichkeit, della “storicità” e, dunque, come questione squisitamente filosofica da determinare in termini che non possono non apparirci teoretico-astratti. Marcuse esprime ancora la fiducia di una sintesi con Marx laddove al possibile trascendentale che costruisce il suo oggetto come modello a priori del dato contrappone il possibile esistenziale che si presenta come critica del dato[22]. Ma questa critica è apriori o a posteriori?
Qui sta il dilemma da cui Marcuse non saprà uscire se non abbandonando completamente la tematica ontologica di questi primi scritti e le aporie inevitabili di una teoria o filosofia del concreto. Egli vorrebbe determinare una possibilità, una temporalità e una universalità non vuote, formali, ma concrete e storiche. Marcuse interpreta infatti il Dasein – dunque la singolarità – come gettato in una struttura storica in cui si danno tuttavia forme di omogeneità (condizioni ambientali, gruppi sociali, classi ecc.)[23]. L’essere e le possibilità d’essere del Dasein appaiono forme originarie della sua interazione col mondo e dunque sono descrivibili da un’analitica esistenziale che precede e fonda l’analisi trascendentale. Qui l’universale appare presente concretamente nella singolarità che, attraverso l’azione, si fa spazio in un esistente che può negare e modificare in vista della propria essenzialità autentica[24].
In queste prime formulazioni, dunque, Marcuse vede nell’insegnamento di Heidegger un modo per riproporre la filosofia come atteggiamento critico-pratico rispetto all’esistente. Ma la sua vocazione politica, il socialismo rivoluzionario cui aveva aderito da tempo, dovevano ben presto rendergli evidente la problematicità di questo assunto. Nei Beiträge la tensione irrisolta si tocca con mano. Pensare il marxismo come “scienza”, scrive qui Marcuse, significa attribuirgli la “comprensione della propria necessità storica”, della “verità del suo essere”[25]. Questa verità non è intesa in termini conoscitivi ma come verità dell’accadere che quindi non può essere contestata da una logica formale, da considerazioni universali purificate dalle contraddizioni, né da qualsiasi legge storico-sociale che pretenda avere validità atemporale. Ma è chiaro che se ogni “atto di conoscenza” è a sua volta un “prodotto” dell’accadere storico la domanda sorge inevitabile: quali sono le condizioni di possibilità di questa teoria della storicità?
A questa domanda non c’è risposta neanche laddove Marcuse affronta in modo più sistematico il tema della storicità, ovvero nel testo giovanile sull’Ontologia di Hegel[26]. Anche qui Marcuse contesta il soggetto trascendentale attraverso la critica di Hegel all’io puro di Kant. La sintesi che dovrebbe essere garantita dall’io viene smascherata da Hegel come unità apparente nella sua staticità: in realtà essa implica sempre un raddoppiamento tra soggetto e oggetto che viene accolto da Hegel, e da Marcuse, come quella differenza assoluta, incancellabilmente collocata nel reale[27]. L’unità si dà quindi solo come movimento che dall’unità giunge al molteplice attraverso l’unificazione. Lungi dall’essere una forma del soggetto trascendentale questo movimento è un principio dell’essere e la struttura stessa della ragione[28]. L’essere appare “spezzato” e la sua negatività intrinseca è ciò che lo determina nella forma dell’accadere[29]. Marcuse compie un’analisi serrata della Logica di Hegel interpretandola così nei termini di un’ontologia in cui l’essere si dà sotto le vesti di una storicità costitutiva.
È attraverso l’analisi della Vita – all’inizio della Logica dell’Idea – che Marcuse tenta di delineare i caratteri essenziali di tale storicità. Vediamo quindi che la vita si dà come universale pur realizzandosi solo nei singoli viventi essendo dotata di una sua autonomia essenziale: vita è quello scambio tra l’individuo e l’ambiente attraverso il quale la vita si impadronisce del mondo e lo rende a sua volta vita[30]. Proprio l’analisi di questo rapporto mostra come la vita preceda e fondi l’atto conoscitivo, trovandosi quindi ad “operare” anteriormente ad ogni filosofia trascendentale[31]. Ma proprio qui nascono due problemi. Se L’ontologia di Hegel riesce, effettivamente, a dare coerenza al pensiero di Marcuse, ciò avviene sullo sfondo di una integrale accettazione del discorso hegeliano (e sia pure purgato dagli elementi teologici). Da un lato, Marcuse sottolinea come il processo di conoscenza avvenga in Hegel superando la filosofia trascendentale, senza regredire al dogmatismo pre-critico proprio in virtù del fatto che il soggetto conoscente non fa che ritrovare nell’oggetto la stessa struttura ontologica in azione: dunque la conoscenza si qualifica come ripetizione del movimento dell’ente[32]. Dall’altro, il problema dell’universale viene affrontato sul terreno della vita e qui riformulato come problema del genere[33]. Ma il genere, nell’ambito della Vita, se è il modo in cui l’universale effettivamente si genera e si realizza negli individui, lega questi individui al genere stesso (“l’individuo è mediato e prodotto dal genere”[34]), nonché l’essere dell’uomo alla sua essenza intesa come ciò che eternamente è.
Nell’analisi dei Manoscritti economico-filosofici, questa problematica subisce una importante metamorfosi, comincia ad emanciparsi da una teoria astratta della storicità, ma non sembra ancora completamente in grado di liberarsi dell’idea del valore sovrastorico della filosofia. Il tema dell’essere generico viene ripreso e specificato nel senso fornitogli da Marx: l’essere umano è Gattungswesen perché può porre sé stesso e gli altri enti come oggetto della propria attività e può farlo nella forma dell’universale[35], cioè, diremmo noi, in modo libero da ogni determinazione astratta, non ostacolata e limitata da interessi particolari. L’uomo agisce universalmente perché è libero ma tanto più è libero quanto più si libera da ciò che nella sua esistenza lo limita. Qui l’elemento della libertà e quello dell’universalità si coappartengono e sono entrambi caratteristici di una condizione non genericamente storica o trans-storica, ontologica, bensì storicamente determinata: è il capitalismo che produce realmente un processo di universalizzazione in cui è possibile articolare in modo nuovo la libertà individuale e sociale. Ma in questi passi Marcuse è ancora ambiguo. Da un lato, sembra troppo legato piuttosto ad una visione ontologica per cui l’essere generico dell’uomo “è ciò che questo essere è nella propria ‘origine’, è il ‘principio’ del suo essere che è comune a tutte le sue determinazioni particolari: è l’universale che permane identico attraverso tutti i particolari – l’essenza universale di questo essere. Se l’uomo può fare il proprio oggetto del ‘genere’ di ogni essere ne segue che […] egli può comportarsi liberamente verso ogni essere […], può riconoscere e cogliere le possibilità insiste in ogni essere”[36]. Dall’altro, riconosce esplicitamente che “non si tratta «del» compito «dell»‘uomo, ma di un determinato compito storico in una determinata situazione storica”[37].
L’uso del linguaggio astratto e antropologico di Marx appare a Marcuse una necessità all’interno di una battaglia teorica specifica, quella che vede l’economia politica borghese trasformare surrettiziamente condizioni di fatto in condizioni ontologiche: cedere il discorso sull’essenza umana al nemico significa impedirsi di criticarne le falsificazioni[38]. Tanto più, osserva Marcuse, che tale discorso permette, accanto e assieme alla critica di quelle falsificazioni, anche l’indicazione della direzione in cui deve muovere la prassi di trasformazione dell’esistente. In Marx, dice Marcuse, l’essenza e la fatticità si oppongono in modo dialettico. La storia effettiva è il mezzo per la realizzazione dell’essenza così che laddove esse divergono, l’essenza diventa eo ipso critica della deformazione dell’uomo nelle condizioni date. In questo discorso che ovviamente non chiarisce a sufficienza come sia da intendersi l’essenza e il suo rapporto con la storia – a meno di non volersi appoggiare a quella teoria della storicità hegeliana i cui presupposti vengono però in queste stesse pagine contestati – appare già saldo un punto che sarà una costante del discorso marcusiano successivo. Alla “catastrofe dell’essenza umana” diagnosticata da Marx nei Manoscritti può porre fine solo “la soppressione catastrofica dello stato di fatto”[39]. Ciò implica la necessità di una “rivoluzione totale” e l’impossibilità di ottenere la transizione ad uno stato di fatto opposto attraverso riforme o passaggi graduali. Svestita del suo linguaggio antropologico questa affermazione rimarrà un punto ferma del discorso marcusiano.
Marcuse aveva tentato una prima sistematizzazione di queste idee nell’abbozzo di una logica materialistica elaborato per l’Istituto per la ricerca sociale nel ‘39[40]. Anche in questo caso la riflessione sul soggetto e sul metodo dell’analisi è centrale, anche se irriducibile ad ogni istanza formalizzante, avulsa dal contenuto storico determinato da cui l’analisi prende le mosse. La teoria della soggettività appare un tentativo di circoscrivere l’ambito di validità del proprio discorso, non di ogni discorso possibile. Marcuse tenta così di descrivere il soggetto come costituito da una stratificazione di almeno tre livelli:
 
a) una forma più generale e astratta della soggettività, che corrisponde più o meno alla ‘coscienza trascendentale’ o all’’appercezione trascendentale’ di Kant e nella quale si formano le categorie più generali e astratte […]
b) […] l’unità e la totalità sociale, alla quale l’individuo di volta in volta appartiene e che predetermina già i suoi concetti più importanti ma nella cui coscienza e prassi si concretizzano anche, nello stesso tempo, le categorie menzionate al punto a) Questo soggetto della formazione dei concetti è la classe o uno ‘strato’ sociale specifico interno alla classe
c) […] l’individuo stesso, ma non come puro Ego cogito o come semplice portatore di sensazioni ecc. bensì nella sua piena concretezza di individuo socializzato, che agisce e patisce[41].
 
Questa concezione riprende il modello della Logica del concetto di Hegel con la sua teoria del sillogismo, ovvero l’intreccio di Universale, Particolare e Singolare. Scrive infatti Marcuse che la “formazione dei concetti” concepita come una relazione tra più livelli costituisce “la base fattuale” della dialettica tra universale e particolare “riportata da Hegel al centro della logica”; secondo Marcuse, “questo è anche uno dei punti in cui la logica materialistica può ‘superare dialetticamente’ [aufheben] i risultati della filosofia trascendentale: la forma trascendentale della costituzione delle categorie appare come una (prima e più generale) forma della costituzione dei concetti, che gradualmente si realizza e materializza in direzione della prassi sociale”[42]. Il discorso sarà ripreso sinteticamente ne L’uomo a una dimensione quando, discutendo il problema dell’universale, Marcuse spiega come intende il funzionamento della mente, sia nel suo essere condizionato dalla società, sia nella sua possibilità di sottrarsi tendenzialmente a questo condizionamento per esercitare una critica, senza tale possibilità, infatti, l’accesso all’universale sarebbe precluso.
 
La mente è qualcosa di più di più e di altro che non atti consapevoli e comportamento. La sua realtà potrebbe essere descritta in via provvisoria come la maniera o il modo in cui questi atti particolari sono sintetizzati, integrati da un individuo. Si potrebbe essere tentati di dire sintetizzati a priori da una ‘appercezione trascendentale’, nel senso che la sintesi integrativa che rende possibili i processi e gli atti particolari li precede, li configura […]. Ma simile formulazione farebbe ancor sempre violenza ai concetti di Kant, perché la priorità di tale coscienza sarebbe empirica ed includerebbe l’esperienza sopraindividuale, le idee, le aspirazioni di particolari gruppi sociali[43].
 
È solo attraverso l’autoriflessione di questo soggetto stratificato e plurale (un’autoriflessione che non può che essere il prodotto della teoria e della prassi), che può operarsi una distinzione tra coscienza vera e coscienza falsa e si comprende perché la teoria critica della società non è una forma di “sociologismo”. Anzi, cancellare questo riferimento alla società nella costituzione dei concetti (o ridurla alla generica apparizione dell’altro-da-me a partire dall’ego cogito, all’esistenziale essere-con-altri ecc.) significa “confinarne l’esperienza nel recinto accademico, restringerne il significato”. La coscienza è così sì orientata dalle dinamiche sociali, ma non in modo da esserne completamente determinata, da cancellarsi come coscienza[44].
È proprio la triangolazione di Universale-Particolare-Singolare[45] a rendere possibile la determinazione della propria posizione rispetto alla totalità sociale e, quindi, del proprio discorso: perché non c’è un’immediata determinazione della coscienza da parte di un essere sociale omogeneo, bensì la società appare nell’individuo e nella sua esperienza con tutte le contraddizioni e le irrazionalità che il conflitto di interessi divergenti vi introduce.
La rilettura di Hegel in America porta, infine, Marcuse ad evidenziare maggiormente i punti di rottura operati da Marx. Ciò si accompagna, non a caso, ad un definitivo riconoscimento del fatto che la svolta di Marx coincida con il rifiuto della filosofia[46]. Gli elementi di questa discontinuità sono tre: 1) lo scopo, 2) l’oggetto, 3) il metodo dell’indagine teorica. Da ciò emergono anche le diverse condizioni di possibilità e di validità, da un punto di vista epistemico, che vanno accordate al materialismo storico rispetto alle altre discipline storico-sociali, inclusa la filosofia.
1) Lo scopo. Laddove l’idealismo aveva lavorato ad una coincidenza tra libertà e Ragione, Marcuse sottolinea la centralità che in Marx assume il problema della felicità[47]. Non può esserci né razionalità, né libertà, in sostanza, se gli individui non possono essere felici – ovviamente per ciò che concerne le possibilità aperte dal loro essere sociale, sullo sfondo dei loro limiti in quanto esseri corporei, sensibili e mortali. Marcuse sottolinea con forza questo “individualismo” di Marx proprio per evitare un totale appiattimento burocratico tra l’universale e il singolare[48]. È solo l’effettivo superamento degli interessi particolari, antagonistici, che permette la reciproca, libera determinazione di Universale e Singolare.
La felicità è qui una misura negativa, registra lo spazio di autonomia effettiva grazie a cui gli individui possono ritrovarsi nell’etere sociale e realizzare così le proprie potenzialità. In questo senso, non è mai completamente possibile svincolarsi da una definizione circolare della libertà se non si include in essa l’idea dell’emancipazione dal particolare oppressivo: “è libera soltanto quella volontà che ha effettivamente per fine la libertà, o in altre parole, la libertà esclude ogni forma di oppressione e asservimento ed è un concetto realmente «universale»”[49].
2) L’oggetto. Marcuse riprende il concetto di analisi “bidimensionale” che ha caratterizzato tutta la sua produzione precedente dandole però un taglio specifico che, come dice Kellner, intende porsi al di là di “dicotomie tradizionali, come ad es., quella tra storicismo ed essenzialismo”[50]. L’essenza dà senso al fatto empirico solo negandone la forma limitata e parziale aprendo la possibilità del suo completamento in un orizzonte di senso che lo trascende. Questa trascendenza è però storica, esattamente come il fatto da cui prende le mosse. Il lavoro, ad es., appare alienato solo alla luce della possibile abolizione di tale alienazione[51]. L’analisi del lavoro non può mettere in evidenza le sue conseguenze negative sul lavoratore se non facendo emergere ciò che produce e riproduce tale fenomeno: l’essenza ideale fa così emergere il processo di costituzione del suo oggetto. Questa operazione non sarebbe possibile se i fenomeni sociali nel capitalismo non si accompagnassero sempre ad una teoria, un’ideologia o un’immagine che li fonda e li giustifica nella prassi esistente. Il punto di partenza dell’analisi marxiana sta nella discrepanza tra queste e il dato reale. La ricostruzione dell’essenza è correzione della loro falsità, smascheramento della loro falsa cosalità.
 
L’analisi marxiana della produzione capitalista suppone che la società capitalista abbia effettivamente emancipato l’individuo, che gli uomini entrino nel processo produttivo liberi ed uguali, e che il processo si svolga sulla base del suo intrinseco principio razionale. […] Le astrazioni che sono alla base del primo volume del Capitale (per esempio quella secondo cui le merci vengono scambiate secondo il loro valore, o quella secondo cui il commercio con l’estero rimane escluso, ecc.) suppongono che la realtà ‘si conformi al suo concetto’. Tale procedura metodologica è in armonia con al concezione dialettica. La discrepanza tra esistenza ed essenza appartiene alla più intima natura della realtà. Se l’analisi dovesse limitarsi alle forme in cui la realtà si manifesta, non potrebbe comprendere l’essenziale struttura dalla quale tali forme e le loro deficienze hanno origine. Lo spiegare l’essenza del capitalismo richiede che si prescinda provvisoriamente da quei fenomeni che potrebbero essere attribuiti a una forma di capitalismo imperfetta e contingente[52]
 
L’oggetto non si svela se non attraverso un duplice sguardo che, da un lato, tiene fermo all’idealità dell’essenza e, dall’altro, prende le mosse dalla prassi empirica nel modo in cui si manifesta agli attori sociali. A questo punto anche il riferimento all’opposizione tra essenza ed esistenza come collocata “nell’intima natura della realtà” cambia di significato perché l’essenza di cui si sta parlando non è più l’essenza umana ma l’essenza del capitalismo, cioè di una realtà interamente storica. In conseguenza di ciò accadono due cose fondamentali: a) il problema del rapporto tra essenza ed esistenza si riformula in quello dell’analisi sistemica e genetica del capitale; b) l’essenza del capitalismo appare, al tempo stesso, caratterizzata da contraddizioni che la rendono falsa, astratta.
Rispetto al primo punto occorre distinguere il piano storico da quello teorico, ovvero gli eventi che hanno permesso l’accumulazione originaria e lo sradicamento dei lavoratori dai mezzi di produzione dalla ricostruzione ideale dell’opposizione capitale/lavoro e delle sue conseguenze sistemiche. Come vedremo, la duplice natura del tempo è qui tolta e conservata: il tempo ciclico della valorizzazione del capitale accade in quel tempo-storia da cui è sorto geneticamente ma che manomette sistematicamente, in quanto è lo stesso modo di produzione capitalistico a riprodurre costantemente sé stesso e bloccare la possibilità della sua distruzione, del suo trapassare nella storia.
Rispetto al secondo punto, si tratta di identificare le astrazioni che agiscono nella realtà, come forze sociali: “il mondo delle merci è un mondo ‘falso’ e ‘mistificato’, e l’analisi critica di esso deve dapprima seguire le astrazioni di cui questo mondo è costituito, e in seguito deve partire da questi rapporti astratti per giungere al loro contenuto reale. Il secondo passo consiste nell’allontanarsi dall’astrazione, nell’abbandono di una falsa concretezza, così che possa essere ricostituita la vera concretezza”[53]. La critica dell’economia politica ricostruisce dunque questo mondo nel suo modo di rappresentarsi e ne smaschera le falsità, mettendo a confronto i concetti e i valori suoi propri con la realtà disumana che corrisponde loro. Concreta è solo l’esperienza che giunge a comprendere l’astrazione che la attraversa e la costituisce nella prassi.
3) Il metodo. La teoria, a questo punto, si trova di fronte non la società e la storia in generale o in senso empirico ma una “totalità negativa”[54] ben determinata dalle cui premesse storiche e teoriche muove per mapparne le falle e identificarne le condizioni di possibilità e di superamento. Questo la distingue da qualsiasi sociologismo o storicismo (attraverso il riferimento essenziale alla totalità), così come da qualsiasi scienza sociale di tipo generale (attraverso il riferimento fattuale alle condizioni presenti dell’oppressione di classe): l’oggetto della critica marxiana è il modo di produzione capitalistico, i suoi limiti e le sue potenzialità inerenti. Esso prende le mosse dalla situazione attuale e intende aprire lo sguardo oltre la struttura storicamente determinata che ne blocca oggi la trasformazione in altro (laddove questo “altro” va ovviamente inteso nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti oppressi[55]).
Quest’ultimo aspetto insegna un’altra cosa decisiva del metodo marxiano: esso è “diventato nella sua stessa natura un metodo storico”[56]. Ciò significa che la dialettica “storica” di Marx è storica anche e soprattutto nel senso che non è una legge eterna. Essa descrive quel negativo sociale la cui negazione da parte del proletariato ha senso solo all’interno del nesso di oppressione che lo genera e lo rende tale. La dialettica descrive il capitalismo –non le leggi generali dell’essere umano o dell’essere come tale – e con la catastrofe del capitalismo perde il suo oggetto dunque anche il proprio senso. La condizioni di possibilità della critica marxiana coincidono con l’emergere di un soggetto storico che universalmente rappresenta la possibilità di un altro ordine di cose. In questo senso le condizioni di possibilità coincidono con le sue condizioni di validità: la stessa teoria di Marx descrive un mondo la cui validità teorica e pratica è legata al destino del proletariato di cui annuncia la fine. I suoi nessi di verità sono nessi di verità della preistoria dell’umanità, ne circoscrivono l’orizzonte e la fine, l’ingresso dell’umanità in una storia in cui quei nessi e quelle verità non valgono più.
Non ci può dunque essere alcuna “fondazione” astratta del materialismo storico: esso formula teoreticamente i compiti di una prassi specifica rispetto ad un contesto che non solo la determina ma determina anche il soggetto cui questa teoria fa appello affinché prenda posizione all’interno di un conflitto altrettanto reale e specifico[57].  Il “sistema” filosofico è così sostituito dal sistema della realtà data e non è ciò che va fondato, bensì distrutto: qui veramente il Grund implica uno zugrunde gehen.
 
II. Quello che le qualità non dicono
 
Necessità e libertà 
La Teoria critica conosce, come noto, una svolta decisiva dopo la pubblicazione della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. A partire da qui è impossibile per i francofortesi porre il problema dell’emancipazione senza prendere in considerazione la civiltà, nel senso della Zivilisation, e dunque l’intreccio tra logos, techne e physis. Vedremo meglio come questi temi vengano sviluppati in modo originale da Marcuse ma è importante fin da subito fissare alcune questioni preliminari che rischiano troppo spesso di offuscare e rendere impossibile un’interpretazione adeguata della Teoria critica, facendola facilmente scivolare in una forma più o meno elaborata di primitivismo antiscientifico o antitecnologico. Particolarmente delicato, come vedremo, è il tema della cosiddetta critica “qualitativa” al capitalismo su cui dovremo tornare più volte per darne una corretta interpretazione e sottrarla all’abbraccio con posizioni egemoni nella sinistra antagonista (critica del mercato come celebrazione dell’autoproduzione, del locale, del “naturale”, inteso come idillio agreste ecc.).
Marcuse sottolinea costantemente come la civiltà della tecnica ospiti in sé delle possibilità emancipative ma anche come essa sia costretta a restare bloccata, per ragioni politiche, sempre al di qua di tali possibilità.
 
Non possiamo neanche chiamare questa una società tecnologica. Una società tecnologica sarebbe una società che opera in accordo all’uso più efficiente e più razionale delle risorse disponibili. Vorrei suggerire che l’espressione “società tecnologica” è di nuovo un’espressione ideologica che non descrive in modo adeguato la società presente. Sostengo che la società industriale avanzata non è definita dalla razionalità tecnologica ma dal suo opposto: ovvero dal contrasto, fino all’arresto e alla perversione della razionalità tecnologica – o, in una parola, dall’uso della tecnologia come strumento di repressione, come strumento di dominio[58].
 
La piena realizzazione di queste possibilità represse viene descritta da Marcuse utilizzando il linguaggio kantiano e marxiano che teorizza un salto dal regno della necessità al regno della libertà. In realtà, poiché il possibile è reso possibile proprio dallo sviluppo tecnologico, esso non deve apparire come un salto metafisico, bensì, appunto, come lo sviluppo di una potenzialità reale, già data. Dunque libertà e necessità non si trovano contrapposte staticamente ma si intrecciano dialetticamente in ognuno dei due “regni”. “Non solo il regno della necessità viene esteso nel regno della libertà, ma anche il processo opposto sta avendo luogo: il regno della libertà viene esteso nel regno della necessità”[59]. Si può e si deve parlare di una “libertà nella necessità” e di una “necessità nella libertà”. Ciò significa che la libertà oggi si trova non solo bloccata e perfino rattrappita da una necessità estrinseca che ne impedisce il fiorire (la miseria, la violenza dei rapporti di produzione ecc.) ma che essa emerge come possibilità sociale solo all’interno della macchina, dalla logica inflessibile dell’automazione; d’altro canto, ciò significa anche che l’immagine del regno delle libertà non può essere pensata senza dei limiti con cui fare i conti, senza una necessità che viene sì “compresa” o “ricompresa” dal lavoro umano ma mai cancellata del tutto.
Ora, la razionalità si definisce come progetto storico determinato proprio a partire dal modo in cui vengono identificati e gestiti questi limiti. Il problema della razionalità borghese sta infatti nel suo partire dall’individuale per poi fermarsi nel momento in cui la ragione dovrebbe investire la totalità come luogo in cui è possibile organizzare l’esistenza collettiva, ciò che gli mostrerebbe il rapporto privato di produzione come limite intrinseco del suo stesso sviluppo oggettivo. In altri termini, è la privatizzazione della ratio a portare alla sua deriva irrazionalistica. La società borghese è irrazionale perché vive un essenziale dissidio tra il tutto e la parte. Ma se la razionalità della società attuale è quella necessità che impone dei limiti arbitrari alla libertà – poiché è la razionalità parziale, interessata, ingiusta che costantemente assicura e riproduce il dominio della classe proprietaria – un mondo liberato non può che produrre una razionalità sui generis che possiamo determinare solo come negazione della particolarità borghese che apre ad una gestione solidale e condivisa della produzione.
Se non ci fosse un salto tra queste due forme della razionalità significherebbe che il progresso tecnico attraverso un incremento quantitativo potrebbe garantire tale passaggio all’universalità senza rimuove il particolare che lo determina. Nel regno della necessità il progresso tecnico e l’universale sono infatti distorti da quella parzialità che ne irretisce arbitrariamente l’espansione e la realizzazione: la loro forma nel regno della libertà dovrebbe essere diversa. Ma non è così agevole stabilire quali aspetti della necessità siano conseguenza del particolarismo e dell’irrazionalità del modo di produzione capitalistico: essi si manifesteranno mano a mano che la libertà permetterà il pieno dispiegarsi di una vera società tecnologica. Dunque, proprio perché non si può immaginare l’autonomia come mera prosecuzione di quella necessità nel regno delle libertà l’immagine utopica del futuro appare caratterizzata dal problema della qualità.
Infatti, il linguaggio si trova suo malgrado costretto ad alludere al qualitativo perché non può presentificare in modo rigoroso quell’al di là della necessità e non può farlo non perché nell’utopia viga una razionalità “qualitativa” – come se i fenomeni sociali potessero essere sottratti ai processi quantificanti – ma perché la forma stessa della razionalità sociale non è ancora dispiegata. Allo stesso modo, la libertà possibile non può realizzarsi senza emanciparsi dalla cieca necessità che oggi la frena. Se si potessero quantificare le caratteristiche di quel mondo ciò significherebbe che esso sarebbe realizzabile attraverso un semplice aumento delle potenzialità tecniche, quel passaggio sarebbe formulabile come esecuzione di un compito meccanico e dunque non ci sarebbe alcuna rottura logica e ontologica tra necessità e libertà. Per lo stesso motivo, come vedremo meglio, ogni volta che si tenta di determinare le caratteristiche essenziali di questo superamento ci si trova inevitabilmente alle prese con affermazioni contraddittorie e paradossali. La liceità dell’uso di categorie qualitative e dialettiche è un effetto di questa difficoltà oggettiva della critica, essa ha a che fare, come vedremo, con il problema della mediazione[60].
Il qualitativo appare come indice della negazione. Se non focalizza questo problema il discorso sulla qualità rimane indeterminato[61]. Il progresso quantitativo, infatti, cambia ciò che possiamo percepire come qualità (ad es. vivere in una grande metropoli o in un piccolo centro rurale, avere una connessione a 56k o a 5g ecc.). Espressioni come “cambiamento” o “miglioramento” rimangono politicamente vaghi pur quando possono essere esattamente misurati.
In termini preliminari possiamo dire che il problema reale è che anche se la vita cambia qualitativamente non cambia la sostanza, cioè la forma organizzativa della razionalità sociale. La critica “qualitativa” al capitalismo (mercificazione, tecnofobia ecc.) è reazionaria perché oppone un qualitativo dal lato del consumo invece che della produzione. Produrre in modo qualitativamente diverso significa invece identificare il problema della qualità nel meccanismo che regola i rapporti di produzione. “Una delle nuove possibilità in cui si esprime la differenza qualitativa tra una società libera e una società non libera consista precisamente nella ricerca del regno della libertà già all’interno del lavoro e non al di là di esso”[62]. Ma proprio qui, nella sfera della produzione, questa qualità assume forme paradossali.
 
L’abolizione dell’alienazione non può essere considerata come un cambiamento qualitativo nel modo di lavoro, come l’emergere di nuovi modi di lavoro “creativo” - questa è un’idea romantica, regressiva! Il processo lavorativo sarà sempre più meccanico, automatizzato, tecnologico, ovvero eliminare l’autonomia, la spontaneità, l’individualità. La differenza qualitativa si manifesterà piuttosto nella separazione dell’uomo dal processo del lavoro socialmente necessario - e proprio questa separazione gli darà la libertà di riorientare il processo di produzione[63].
 
Solo sulla base dell’esproprio e del riorientamento dei mezzi di produzione in base ad una gestione collettiva questa dialettica di qualità e quantità può articolarsi in modo razionale. Riferiti ai rapporti di produzione “sostanza” e “forma”, infatti, pur essendo termini qualitativi, assumo un significato tecnico ben preciso. Questo punto va approfondito teoreticamente.
 
La contraddizione qualitativa fondamentale 
Che sia possibile un cambiamento qualitativo dal lato della produzione è dovuto ad un fatto molto semplice. C’è un’opposizione qualitativa alla base del modo di produzione vigente: quella tra Capitale e Lavoro. La distinzione tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono i mezzi di produzione, tra chi lavora e chi comanda il lavoro altrui non è quantitativa, non è questione di “grado”[64]. Certo, è una differenza che opera e si traduce in termini quantitativi ma che resta irriducibile e, anzi, può operare quantitativamente proprio perché il suo nucleo si sottrae alla quantificazione: il capitale comanda il lavoro, il lavoro non comanda il capitale.
Tale opposizione opera quantitativamente poiché la differenza di potere sociale che promana da quei due poli è definibile in termini quantitativi: non solo la differenza di ricchezza esprime livelli di potenzialità sociali diversi ma tutte le caratteristiche di questa società sono dominate dalla quantità (l’uguaglianza “formale” tra salario e lavoro, la riduzione del lavoro alla sua forma astratta/omogenea, il denaro come equivalente universale, il processo di autovalorizzazione del capitale, l’efficientizzazione dei processi produttivi, la standardizzazione delle merci ecc.). L’intero edificio, tuttavia, poggia su una base che non viene intaccata da quelle operazioni, né può essere rimossa per via di trasformazioni quantitative. Quell’opposizione si traduce così in un sistema quantificante in cui i bisogni vengono modificati grazie all’influsso della scienza e della tecnica sia nella sfera della produzione che in quella del consumo. In questo modo, appunto, le qualità di cui è fatta la vita cambiano - salti locali della quantità in qualità - ma solo se l’opposizione qualitativa da cui si originano resta immobile. In altri termini, la vita, ovvero ciò che la governa al fondo, non cambia.
Il problema della “qualità della vita” va infatti posto distinguendo il tempo di lavoro e il tempo libero. In entrambe le sfere della vita c’è consumo di merci ma in relazione inversa. Nel tempo di lavoro siamo merci consumate dal capitalista, nella sfera del consumo siamo consumatori di merci. Ora, il cambiamento qualitativo dal lato del consumo non può avvenire se non attraverso l’antagonismo nella sfera produttiva dove avviene il consumo di forza lavoro da parte del capitale. Qui l’opposizione dei lavoratori al proprio sfruttamento non va semplicemente in direzione del rendere “migliore” la qualità della merce-lavoro per il capitalista (ciò che nei termini di questo consumo significherebbe piuttosto una sua maggiore disponibilità e malleabilità), bensì nell’opporre la non consumabilità di questa merce, pretendendo una riappropriazione del tempo di vita[65], fino all’abolizione del carattere di merce del lavoro tout court. È solo rendendo qualitativamente peggiore questa merce per il consumo capitalista che può realizzarsi un miglioramento qualitativo nella soddisfazione generale dei bisogni, sottraendo perciò anche le altre merci all’effetto distorsivo del profitto. Anche in questo caso, dunque, è fondamentale l’abolizione del carattere di merce dei beni consumati, cosa che non può avvenire direttamente nella sfera del consumo, attraverso il volontariato o la creazione di un mercato “alternativo” ad es., perché ciò non intaccherebbe lo scambio di merci generalizzato, rimarrebbe al di qua della dinamica di universalizzazione operata dal capitale, resterebbe cioè consumo privato, qualitativamente orientato, sì, ma indifferente allo sviluppo del modo di produzione capitalistico (oppure, ne verrebbe riassorbito come forma di mercato “alternativo”, come beni di “lusso”, vedi oggi il fenomeno del green washing ecc.).
L’accumulazione quantitativa è così alla radice di tutti i malesseri sociali che vengono percepiti qualitativamente dall’esperienza soggettiva ma che, proprio per ciò, sono così difficili da determinare oggettivamente. Pensiamo allo “spreco” o alla “distruzione delle risorse”. È chiaro infatti che per definire lo “spreco” c’è bisogno di un criterio che non sia a sua volta quantitativo o, che è lo stesso, sia definito a partire da criteri, anche quantitativi, ma antagonisti rispetto a quelli che determinano l’optimum della produzione vigente: ovvero ciò che garantisce il processo di accumulazione capitalistico[66].
Ma la questione ha un ulteriore aspetto paradossale. Perché l’origine del Capitale, in realtà, è geneticamente e sistematicamente, il Lavoro: il Capitale è lavoro accumulato, morto che succhia lavoro-vivo. Dunque, nell’opposizione tra Capitale e Lavoro, il Lavoro è la realtà, l’elemento ontologicamente prioritario, è cioè un’attività che si contrappone a sé stessa, ora come merce, ora come denaro, come capitale[67]. Ed è così riconducendo le diverse qualità delle merci e della soddisfazione dei bisogni alla radice comune nell’attività lavorativa che è possibile evidenziare la necessità di una ridefinizione di tutti questi bisogni a partire dalla sfera della produzione, togliendo l’opposizione qualitativa tra Capitale e Lavoro, un’opposizione fenomenica (cioè di un’apparenza che produce effetti reali) che distorce il funzionamento della società nel suo complesso. Considerare la libertà dal punto di vista dell’organizzazione della produzione, dunque del Lavoro come attività primaria, significa non solo rimuovere l’alterità illusoria del Capitale per permettere una reale auto-organizzazione del Lavoro, ma anche collocarsi nel punto di origine di tutte quelle opposizioni su cui si erge e si stabilizza la società del presente: non solo quella tra produzione e bisogni, ma la stessa opposizione tra quantità e qualità.
L’opposizione centrale tra Capitale e Lavoro può e deve essere articolata, ovviamente, in quelle tra denaro e forza-lavoro, tra profitti e salari, tra capitalisti e salariati a livello della loro incidenza nella popolazione mondiale. La configurazione dialettica dell’opposizione centrale si mostra qui in modo esemplare. Le opposizioni derivate profitti/salari e capitalisti/salariati, ad es., sono inversamente proporzionali, misurando la prima il dominio, la potenza sociale del capitale che si accompagna ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale stesso e, la seconda, il grado di “proletarizzazione”. Ora, nella nostra opposizione fondamentale la distinzione collettiana tra contraddizione e opposizione reale, Widerspurch e Realrepugnanz[68], cessa di essere rilevante. Il lavoro è una forza reale, materiale che, in questo processo di sussunzione da parte del capitale, viene contrapposta a sé stessa. La struttura della quantificazione che sorge da tale opposizione ha come telos (fine unico reale, come causa teleologica, benché non unico effetto) il processo di profitto e accumulazione (D-D’). Le decisioni politiche che regolano questo conflitto riguardano l’organizzazione del lavoro nella sfera della produzione, la sua direzione, intensità e finalità: questi elementi hanno la propria misura interna, sistemica, in quella struttura quantificante. Ciò è talmente vero che gli effetti delle politiche del lavoro sono quantitativamente calcolabili: andare, per es., in direzione di una riduzione dei salari o dei profitti produce un conseguente spostamento del potere di dominazione sociale del capitale. “Il cambiamento quantitativo può significare e può portare alla rivoluzione”[69], scrive giustamente Marcuse, ma solo se ha di mira l’abolizione dell’opposizione qualitativa fondamentale. Qualora infatti un governo tentasse una soluzione rivoluzionaria di quel conflitto e dunque la cancellazione del potere del capitale ciò potrebbe avvenire solo attraverso la catastrofe di quella struttura di quantificazione.
Proprio questa catastrofe, dunque, non può avvenire quantitativamente all’interno del sistema capitalistico, attraverso la piena automazione che viene costantemente impedita dalla stessa dinamica interna del Capitale che la favorisce[70], né avviene automaticamente con l’esproprio dei mezzi di produzione. E che non sia così lo dice lo stesso Marx quando teorizza il famoso passaggio dal socialismo al comunismo come superamento definitivo del principio di scambio sopravvissuto alla fine della “vecchia società”[71]. Come vedremo, infatti, tutta la problematica del “salto qualitativo” dal socialismo al comunismo è assolutamente speculare alla teoria marcusiana del “gran rifiuto” come tentativo di spezzare il totalitarismo della società capitalistica avanzata.
 
III. Lavoro e capitale: forme della socializzazione
 
Il processo di auto-valorizzazione del capitale ha dunque un punto di partenza (il lavoro individuale, concreto, vivente che produce valori d’uso) e un punto di approdo (il capitale, lavoro astratto e morto che si accresce attraverso il profitto). A questo proposito due diverse letture di Hegel e Marx si intrecciano nel testo di Marcuse. La prima è una lettura parallela della Fenomenologia e dei Manoscritti economico-filosofici; la seconda, una lettura parallela della Scienza della logica e del Capitale[72]. Esse ci restituiscono, da un lato, la questione del lavoro come attività e del capitale come prodotto; dall’altro, l’immagine di un capitale come soggetto e del lavoro come oggetto del suo movimento di autovalorizzazione. Vedremo come questa duplice lettura permetta anche una migliore concettualizzazione della dialettica tra individuale e universale, tra corporeità e socializzazione che sorregge il pensiero di Marcuse.
 
Il lavoro come attività e il problema della mediazione 
L’elemento attivo-produttivo del lavoro ha interessato Marcuse fin dai tempi del cosiddetto Heidegger-Marxismus. Già qui si trattava di ricondurre l’accadere (il Geschehen) alla dimensione dell’atto (Tat): il materialismo storico viene inteso come “teoria dell’azione storica”, pensiero di una “necessità” che attiene alla “verità del Dasein[73]. Il lavoro va quindi sottratto ad ogni riduzione a mero “fatto economico” e ricostruito nella sua natura di “atto” [74].
 
Il lavoro è ‘l’atto dell’autoproduzione’, e cioè l’attività con cui e in cui soltanto l’uomo diventa propriamente ciò che egli è come uomo, nella sua essenza, e ciò in modo che questo suo divenire ed essere esiste per lui stesso, che egli si sa e si ‘vede’ come ciò che egli è (il ‘divenire-per-sé’ dell’uomo).  […] Che l’uomo nel lavoro esista oggettivamente ‘per sé’, è una determinazione che è strettamente connessa con la seconda: che l’uomo è un essere ‘oggettivo’, o, più esattamente, ‘oggettivamente’. L’uomo può realizzare la sua essenza solo se si realizza come essere oggettivo, e cioè in quanto produce, con le sue ‘forze essenziali’, un mondo ‘esterno’, ‘materiale’, oggettivo, nell’elaborazione (nel senso più ampio del termine) del quale egli è reale[75].
 
Come si vede, l’essere umano è un essere oggettivo nel senso che oggettiva sé stesso nella sua azione[76]. E ciò accade perché è un essere sensibile, ma di una sensibilità che però non è solo e tanto passività bensì è anche e soprattutto attività. Ma questi rilievi, nota Marcuse, sono destinati a rimanere astratti se non vengono a loro volta dinamizzati, se l’antropologia, dunque, non viene vista come processo. Ora, se, come vuole Hegel, il lavoro è un “atto di autocreazione”, ciò diviene vero per Marx solo nell’economia politica. Marx sottolinea dunque la storicità dell’essenza umana[77], in quanto nell’uomo l’essenza non coincide con l’esistenza, anzi, essa va pensata come “Aufhebung della fatticità”[78].
Marcuse riconduce così il lavoro ad una determinazione dell’essenza umana, al­ rapporto con la realtà esterna e con l’altro umano. Generalizzando questo concetto Marcuse parla di prassi. Ma cos’è la prassi?[79] Nel lavoro l’uomo è legato al bisogno ma proprio il bisogno non è determinabile se non come prassi sociale.[80] Ciò fa sì che nel bisogno sia iscritta, per così dire, la sua natura universale e il legame con l’altro. La società infatti non è qualcosa di “esterno” all’individuo[81]. Ed ecco che il lavoro come attività e autoproduzione si apre alla sfera delle relazioni sociali che ne determinano le finalità. La centralità della sfera produttiva viene così scossa dal fatto che il telos dell’attività lavorativa non si costituisca in essa ma all’esterno.
Conseguentemente, il problema della prassi posto da Marcuse non si lascia risolvere né nelle relazioni vigenti nel mondo del lavoro, né, come sembra in questi primi tentativi, in quello più ampio dei rapporti sociali, cioè di una Lebenswelt ontologicamente o sociologicamente intesa. Il lavoro finisce per essere un momento della prassi[82], che ha a che fare più con l’accadere, col farsi storico-sociale dell’umano attraverso i propri atti che con il mondo “ristretto” dell’economia e dei suoi bisogni[83]. Nessuno dei due può essere completamente eliminato. Potremmo dire che in un caso si dà alla prassi un significato troppo ristretto (l’attività lavorativa rispetto all’oggetto), nell’altro troppo ampio (l’attività umana rispetto al mondo).
Questa difficoltà permane anche volendo intendere la prassi nel senso di azione trasformativa calata nel contesto del mondo contemporaneo. Nel primo caso si ricadrebbe infatti nell’azione delle organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio che si muovono all’interno delle relazioni industriali, nel secondo in tutta quella vasta mobilitazione di individui e gruppi che dalle battaglie per i diritti civili arriva fino alla testimonianza di stili di vita alternativi che riguarda in modo ampio e confuso tutti gli strati della società. A ciò ha anche corrisposto storicamente uno spostamento di accento nell’interesse politico da ciò che avviene nella sfera della produzione a ciò che avviene in quella del consumo[84]. Come vedremo, la posizione di Marcuse, pur sottolineando l’importanza di questa seconda forma di prassi dagli anni ‘60 in poi[85], si caratterizza per un continuo rimandare al rapporto che c’è tra questi piani: classe operaia tradizionale e resto della società, relazioni industriali e rapporti umani, produzione e consumo. Se, infatti, secondo l’analisi marxiana, cui Marcuse intende tenere fede fino in fondo, nel primo corno dell’alternativa siamo più vicini all’essenza della vita sociale e nel secondo ci muoviamo più nel suo aspetto fenomenico, la questione decisiva è non solo che essenza e fenomeno sono qui hegelianamente legati in modo indissolubile (l’apparenza è ciò che dell’essenza deve manifestarsi[86]) ma, soprattutto, questo legame è il vero arcano che l’analisi tenta di svelare e che è destinato a rimanere nascosto. In realtà, il bandolo della vita sociale nel suo complesso è sempre altrove rispetto al luogo in cui i soggetti cercano di determinarlo e di determinarsi nella prassi trasformativa, perché la natura processuale del modo di produzione capitalistico rende quel legame tra sfera produttiva e sfera del consumo, tra lavoro e stile di vita, un legame necessario ma ellittico, sfuggente, imprendibile. Il punto di passaggio decisivo tra l’una e l’altra, la loro mediazione non appare, è empiricamente elusiva, eppure c’è, agisce, funziona: la stessa circolarità del capitale si fonda su questo passaggio che però non è analiticamente determinabile.
Non a caso questo problema torna costantemente nella riflessione di Marcuse sul “circolo vizioso” in cui la teoria della rivoluzione incappa quando cerca un “punto di attacco” al sistema: la rivoluzione sembra sempre presupporre ciò che deve innescarla[87]. Il concetto marcusiano di prassi vuole alludere a questo punto cieco della teoria e farlo emergere senza abbandonare l’impianto dell’analisi di Marx ma, anzi, muovendo sempre dalle sue premesse e sviluppandole in modo conseguente. Come vedremo il concetto di mediazione assoluta che nella teoria sembra caratterizzare il modo di produzione capitalistico trova il proprio corrispettivo in quello di “Gran rifiuto” dal lato della prassi. La rivolta “totale”, qualitativa, contro l’intero sistema delle merci allude alla necessità di interrompere la circolarità senza uscita dell’accumulazione distruttiva del capitale. Ma ciò non può avvenire se essa non intercetta o innesca la negazione interna, nella sfera delle relazioni produttive.
 
Universalizzazione e socializzazione 
Per articolare meglio questa dialettica occorre affrontare il problema dell’universale e della socializzazione. Nella lettura marcusiana che accomuna l’Hegel della Fenomenologia e il giovane Marx, il lavoro “umanizza” il mondo-natura e crea, in un solo gesto, tanto l’oggetto quanto il soggetto[88]. Questo concetto del lavoro entra anche nella prima parte del Capitale[89] per poi essere superato dall’analisi del lavoro astratto nelle parti successive.
Il lavoro come produzione di valori d’uso è un tipo di attività che, di per sé, rimane nell’ambito del privato e del qualitativo. Esso riesce a mediarsi con altri lavori solo attraverso il mercato, in cui entra come valore di scambio e in cui, attraverso un quantificatore universale (il denaro), si realizza una soddisfazione dei bisogni generali che però risulta essere un sottoprodotto di un’altra causa reale e sistemica: l’autovalorizzazione del capitale. Questo processo che conduce dalla sfera della produzione a quella del consumo e torna alla propria origine è il corrispettivo sociale della “mediazione assoluta” hegeliana: uno sviluppo continuo (non un passaggio[90]) in cui l’individuale, il particolare e l’universale si mediano reciprocamente con un’interna necessità, senza salti e tornando ciclicamente al proprio inizio. Dal punto di vista socio-economico questo genera due elementi importanti: nella produzione si realizza un progresso incessante, seppure parziale e contraddittorio, dovuto all’antagonismo potenzialmente intrinseco alla classe lavoratrice; nel mercato si realizza una mediazione universale dei bisogni che è al tempo stesso reale ed astratta perché qui i beni e il lavoro, intesi come merci, trovano la propria determinazione quantitativa e qualitativa ma in funzione del profitto e dell’accumulazione di capitale.
Ora, qui il lavoro astratto in effetti disumanizza piuttosto che umanizzare ma solo perché imprime sul soggetto e l’oggetto il carattere della razionalità parziale, il particolarismo generale, della società borghese. L’economia politica non a caso opera con un concetto di lavoro che parte dal dato immediato del “bisogno” riducendo l’essere umano alla sua dimensione “organica”[91], in modo da far fuori tutto ciò che di storico e sociale è essenziale in esso[92]. Il lavoro esprime infatti sì una forza naturale ma che ha il carattere dell’universale. Qui anzitutto ancora nel senso che esso crea senza bisogno immediato, animale, che “forma” gli oggetti attraverso le potenze dell’astrazione e dell’idea: “il lavoro, come ‘attività vitale’ specificamente umana, si fonda su questo ‘essere generico’ dell’uomo: presuppone la capacità di rapportarsi all’’universale’ degli oggetti e alle loro possibilità in esso implicite”[93].
Questa “potenza” appare a Hegel e Marx ed è da essi teorizzata a partire dalla sua forma estraniata/alienata. È nel servo, nell’operaio sfruttato che, come immagini negative, si mostra un potenziale altrimenti nascosto[94]. La “vera” libertà del servo e la “vera” ricchezza dell’operaio si mostrano non come modi dell’avere ma dell’appropriarsi, dunque consistono non in una passività rispetto agli oggetti ma in un’attività creatrice[95]. Questo realizzarsi dell’uomo è sempre inconsapevole e parziale, non è autonomo, cosciente e, soprattutto, non è realmente universale.
L’universale non va infatti inteso, nel senso del realismo metafisico platonico, come un già in-sé essente, né, nel senso dell’empirismo nominalistico, come qualcosa di meramente soggettivo e convenzionale. Nella polemica contro la filosofia analitica del linguaggio condotta nell’Uomo a una dimensione, Marcuse chiarisce come la scepsi nominalistica verso l’universale finisca per falsificare l’esperienza della realtà. L’universale ha carattere sia negativo che positivo[96]. Da un lato, infatti, la “persistenza” dell’universale testimonia dell’irriducibile differenza tra potenzialità e realtà, non è solo un atto di protesta contro le storture del mondo dato ma anche la traccia di qualcosa che qui e ora si rivolta nel reale alle insufficienze del reale stesso[97]. Dall’altro, però, l’universale agisce anche nella realtà come un potere mistificatore, un “falso” universale e come tale va conosciuto, non negandolo astrattamente e nominalisticamente ma comprendendolo come tale.
Nel caso di enti generici come “nazione” o “università”, ad es., non vederne il carattere sovraordinato rispetto agli elementi che li costituiscono significa non comprenderne il funzionamento. Essi non indicano solo una collezione di elementi ma il modo in cui questi si combinano[98]. Il loro potere si realizza proprio attraverso la loro estraneità rispetto al piano che essi determinano e che ne sancisce l’intraducibilità sia nei termini delle istituzioni particolari che degli individui[99]. L’universale è così un movimento che si realizza attraverso la negazione del particolare[100]: la sua realtà sta in ciò che esso costituisce il luogo in cui la singolarità, l’individuo, può realizzarsi superando in modo cosciente quelle limitazioni che lo costituivano[101]. Reale, nel senso del wirklich hegeliano, è ciò che produce effetti. In tal senso è un processo, una dinamica che pone i propri presupposti nel mentre che avanza e, dunque, si costituisce: “autosviluppo di un soggetto che tutto include e tutto comprende”[102]. L’universale non si dà se non come processo di universalizzazione.
Questo movimento circolare auto-generativo è descritto tanto nel Soggetto che pone sé stesso della Scienza della logica quanto nel processo di autovalorizzazione del Capitale[103]. Questo “parallelismo” è posto esplicitamente anche da Marcuse in Ragione e rivoluzione: il concetto hegeliano in cui si esprime “il principio dello sviluppo autonomo del reale”, ovvero il “concetto dialettico” non trova “più adeguato” esempio che nel modo in cui Marx espone la “totalità reale del capitale”[104]. Secondo Marcuse, “i tre volumi del Capitale consistono nella trattazione del concetto di capitalismo, così come la trattazione del concetto occupa tutti i tre volume della Scienza della logica[105]. Allo Spirito, come al Capitale spettano infatti alcuni attributi specifici e per noi importanti. Il costituirsi come totalità ed ens realissimum[106], cioè la capacità di manifestarsi nell’individuale pur non essendo in nessun luogo specifico. Entrambe sono caratteristiche di un processo di universalizzazione reale, cioè di un’universale che si realizza circoscrivendo e attraversando tutto ciò che sussume.
Il lavoratore si connette alla totalità attraverso un processo che traduce la sua attività in passività, divenendo oggetto del capitale. Questo processo lega, nell’analisi, i due aspetti paralleli che caratterizzano il materialismo di Marx: quello naturale-corporeo e quello sociale-relazionale. Nell’analisi dei Manoscritti marxiani, Marcuse sottolinea infatti l’importanza del lavoratore come individuo, del suo essere corporeo e sensibile[107]. In questo c’è già un elemento di “passività” che, da Kant a Feuerbach[108], vuole opporsi ad ogni idealismo radicale, sottolineare l’importanza del non-io, come l’altro dal soggetto che non può essere annullato ma va materialisticamente riconosciuto come dato[109]. I sensi tuttavia a loro volta costituiscono delle attività, come abbiamo visto, hanno natura essenzialmente produttiva, non meramente recettiva: ciò avviene già in Kant, seppure in forma idealistico-trascendentale[110]. La critica di Marx a Feuerbach, di avere inteso i sensi – e dunque il materialismo – in forma essenzialmente passivo-contemplativa, puramente “teorica”, si muove su questa medesima linea, recupera dalla filosofia classica tedesca l’idea di attività, intendendola però a questo punto come prassi, ovvero come attività sociale. Si comprende allora come l’oggettivazione sia
 
per principio attività ‘sociale’, e l’uomo oggettivamente è per principio uomo ‘sociale’. Il campo di oggettività del lavoro è precisamente il campo di attività vitale comune; è con gli oggetti e negli oggetti del lavoro che ci si rivela l’altro nella sua realtà. Le ‘forme di comunicazione’ originarie, i rapporti fondamentali in cui l’uomo sta con gli altri uomini si manifestano nel comune uso, possesso, desiderio, bisogno, godimento ecc. del mondo oggettivo. Ogni lavoro è lavoro con e per gli altri, in modo che gli uomini mostrano ciò che veramente sono soltanto quando si trovano gli uni insieme agli latri e di fronte agli altri[111].
 
È questa sensibilità sociale a venire piuttosto passivizzata dal modo di produzione capitalistico[112]. Non solo, nel capitalismo i rapporti tra gli individui divengono strutturalmente antagonistici e tanto più questi rapporti sono antagonistici tra loro, tanto meno lo sono nei confronti del capitale, cioè della forza che li tiene tutti in stato di subordinazione. L’analisi del processo lavorativo individuale si compie solo nella forma del lavoro astratto, funzione del capitale. In senso proprio, quindi, l’individuo non esiste come tale ma solo come parte del processo, sussiste, in quanto lavoratore, solo per il suo valore di scambio. La “persona”, il culto della “creatività” sono tutte maschere con cui si cerca di tenere artificialmente in vita qualcosa che, se mai è esistito, non ha più alcuna sostanzialità[113]. Perfino l’idea del giovane Marx del comunismo come sviluppo di una personalità “onnilaterale” è considerata da Marcuse obsoleta, un retaggio di una forma della cultura ormai superata[114]. L’individuo non può che essere posto al livello dell’universale raggiunto dalla razionalità sociale. Per fare ciò deve mutare la forma della socializzazione, cioè di quella sfera di antagonismi particolari che si mediano dal lato della produzione e da quello del consumo.
In tal senso, il capitale costituisce un oggettivo fattore di socializzazione[115] seppure una socializzazione falsa. Non nel senso che non ci sia socializzazione reale attraverso il capitale, in tal senso essa è vera, effettiva-effettuale, wirklich, ma nel senso che si tratta di una socializzazione funzionale al processo di autovalorizzazione del capitale, dunque eteronoma, astratta. Da un lato, quindi, il lavoro come “autocreazione” diventa vero solo nell’economia politica[116]. Dall’altro, proprio qui esso assume una forma limitata e falsa, il lavoro viene pensato solo nella sua dimensione etero-diretta, come fatica, alienazione[117]. Cosa ancora più paradossale: tanto meno abbiamo individui autonomi, tanto più il capitale si erge a soggetto assoluto.
 
Il capitale come soggetto assoluto 
Il secondo momento dell’appropriazione marxiana di Hegel ci mostra il Soggetto hegeliano come analogo del Capitale come “Feticcio automatico e Soggetto”[118]. O, forse meglio, ci svela il modo in cui il Soggetto assoluto hegeliano anticipa ma trasfigura, mistificandolo, il processo oggettivo di auto-posizione del capitale, mostrandone in forma speculativa la logica interna. Ora, il problema del rapporto tra il capitale e il Soggetto assoluto va posto avendo a mente le tre diverse componenti con cui l’idealismo, ma già come vedremo Kant, considerano essenziali nell’attività che costituisce il Soggetto: l’autoaffezione, l’autoposizione, e l’autoproduzione/autocreazione in senso proprio.
Già nella Critica della ragion pura Kant descrive il processo di autoaffezione dell’anima in un punto decisivo, all’inizio della teoria dello schematismo trascendentale, quando si tratta di stabilire la possibilità dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale. In gioco ci sono qui sia l’immaginazione – come facoltà intermedia e mediatrice tra sensibilità e intelletto – sia l’intelletto nella sua capacità di sintesi del molteplice, sia l’io come funzione suprema dell’intelletto stesso. Tutti e tre questi elementi vengono a saldarsi in quanto ruotano attorno alla capacità di determinazione del senso interno e, in ultima analisi, dell’autoaffezione del soggetto attraverso il tempo[119]. L’immaginazione, che qui viene intesa nel suo senso produttivo, non è solo la “facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua presenza” ma ha anche la possibilità di “determinare a priori la sensibilità”: la sua capacità di sintesi in questo caso è trascendentale[120]. Qui è l’intelletto stesso che produce un effetto sulla sensibilità. Proprio questa capacità di essere “modificati internamente” è alla base della possibilità di un’intuizione pura dell’io: non si tratta qui di una semplice apprensione di un oggetto indipendente dall’atto intellettuale poiché è lo stesso atto dell’intelletto che modificando il senso interno produce il suo oggetto[121]. È così data la duplicità tra l’io come pensante e l’io come pensato.
Questa duplicità, di cui abbiamo già parlato, viene meno, o è comunque fortemente ridotta, nella successiva speculazione idealistica di Fichte e Schelling che pongono maggiormente l’attenzione sull’identità del Soggetto e sul suo atto assoluto, privo di presupposti. Per Fichte “il porsi dell’Io per se stesso è la pura attività di esso – L’Io pone se stesso ed è in forza di questo puro porsi per se stesso e viceversa: l’Io è e pone il suo essere in forza del suo puro essere – Esso è in pari tempo l’agente e il prodotto del suo essere, ciò che è attivo e ciò che è prodotto dall’attività”[122]. Lo stesso Io penso risulta derivato e secondario rispetto a questa pura e infinita attività di cui costituisce, appunto, solo un’affezione[123]. È chiaro così che questa attività viene a porsi, a differenza di Kant, fuori dal tempo, anzi è la stessa autocoscienza pura a “costituire ogni tempo”[124].
La critica di Hegel a Fichte e Schelling riguarda, come noto, l’astrattezza di questo fondamento ma, soprattutto, la pretesa di pensare il movimento in forma statica, atemporale. “L’autocoscienza”, scrive Hegel, “è ogni realtà […] solo perché diviene questa realtà, o meglio, solo perché si dimostra tale lungo l’intero cammino già percorso”[125]. Hegel restituisce all’Io=Io la sua drammaticità: “L’autocoscienza è qui l’impulso [Trieb] (1) a conferire contenuto e oggettività all’astratto sapere di sé, e, per converso, (2) a liberarsi dalla propria sensibilità, a togliere l’oggettività data e a porsi come identica a sé”[126]. Definendo l’autoposizione dell’Io un movimento, addirittura un impulso a porsi uguale a sé, Hegel non solo lo restituisce a quell’attività originaria della Vita che Fichte e Schelling avevano sublimato nel cielo dell’astrazione, ma ne riconosce la realtà solo come effettiva realizzazione dell’Identità[127]. Esso deve essere pensato come al tempo stesso interno ed esterno al tempo, storico e astorico, movimento che ciclicamente torna nell’immediatezza dell’essere: è questa la vera “duplicità originaria nell’identità” e “identità originaria nella duplicità” di cui parlava Schelling[128]. Se da un lato, dunque, l’autoproduzione del Geist ha come fondamento l’Idea eternamente essente in sé, dall’altro, questo movimento di autoposizione non può realizzarsi senza produrre quell’Altro il cui attraversamento e superamento è l’unica reale dimostrazione dell’Assoluto: dunque il tempo/storia[129]. La Weltgeschichte come scenario di manifestazione e realizzazione dello Spirito non potrebbe esistere senza questo impulso: “la storia mondiale inizia solo in sé, ossia come natura, dal suo fine universale, che è quello di soddisfare al concetto dello spirito: questo fine universale è impulso interiore, l’impulso più profondo, inconsapevole, mentre tutto il lavoro della storia consiste nello sforzo di portare a coscienza questo fine”[130]. Rientrano non a caso in queste stesse pagine le note parole di elogio che Hegel riserva alla passione come motore fondamentale della storia[131]. L’universale, l’Ideale, la Necessità non possono esistere, non possono realizzarsi, se non come progressivo superamento della particolarità, dell’accidentalità e dell’arbitrario. Nel tribunale con cui Hegel identifica la storia del mondo, infatti, “il particolare […] nella sua universalità essente-in-sé-e-per-sé, non è altro che entità ideale, e il movimento dello Spirito in questo elemento della propria esistenza è l’esposizione di tale idealità”[132]. Ed ecco che la Ragione che si realizza nella storia appare come una potenza assoluta e invincibile:
 
La ragione, infatti, diversamente da qualsiasi agente finito, non sottostà a condizioni nel suo operare, non ha bisogno di materiale esterno, di mezzi dati, dai quali ricevere il nutrimento e gli oggetti della propria attività; la ragione si nutre consumando se stessa, è il materiale stesso sul quale lavora: la ragione ha se stessa come proprio presupposto, il suo fine coincide con il fine ultimo assoluto; così pure la ragione stessa è l’attività di estrarre questo fine dalla sfera dell’interiorità e tradurlo nel mondo fenomenico, non soltanto nell’universo naturale, ma anche in quello spirituale – nella storia mondiale. Ecco che cosa dimostriamo in filosofia e che cosa qui si presuppone dimostrato, come abbiamo detto: questa idea è l’eterno, il vero, essa ha potere assoluto e si manifesta nel mondo, anzi nulla si manifesta nel mondo fuorché questa idea, fuorché il suo onore e splendore[133].
 
Quando lo Spirito arriva a cogliersi come Spirito Assoluto esso finalmente “elimina il tempo”[134]. A questo punto completa il proprio movimento di autoposizione che allora consiste in un circolo che “presuppone il proprio inizio” [135].
Questa potenza assoluta di porre ogni particolare e assorbirlo nella propria logica interna, è ciò che, rovesciato di segno, diventa in Marx il potere del capitale come Soggetto assoluto[136]. In effetti, il capitale ha a che fare col tempo ma la sua natura intrinsecamente ciclica lo porta anche ad annullare tale dimensione temporale. Questo suo potere di autoposizione viene sintetizzato dalla formula: D-D’, denaro che torna a sé stesso e genera sé stesso aumentandosi. Dunque in un certo senso, nel punto zero di ritorno a sé stesso dopo il proprio ciclo di valorizzazione in cui ha messo in movimento gli elementi sociali necessari, il capitale assume una veste sovratemporale. Esso è il signore dei processi sociali che in esso, attraverso di esso e per esso si compiono. In secondo luogo, il capitale è essenzialmente furto di tempo attraverso questo asservimento del tempo altrui al proprio processo di autocreazione. In questa funzione di appropriazione del tempo la sua linearità e la sua circolarità si uniscono e si sintetizzano: il tempo deve darsi per sparire sublimato in un’attività che tutto fa senza fare nulla, motore immobile della produzione sociale complessiva. Infine, il capitale come Soggetto è storia, progresso, assoggettamento della natura e della società ad un ritmo crescente di produttività, innovazione e crescita, distruzione delle vecchie forme e invenzione incessante di nuove. Contestualmente, il tempo-storia del capitale appare stregato dalla sua potenza: anche se il capitale può essere ricondotto geneticamente alla sua origine nella storia (movimento lineare) esso nel momento in cui si costituisce e si impone toglie questa storia, la blocca, la irretisce nel suo farsi, impedisce il suo stesso superamento come fatto storico[137]. Ben prima di Fukuyama, per i liberali, il modo di produzione capitalistico ha sempre significato il ricongiungimento dell’uomo con la propria natura e, dunque, la fine della storia. La mediazione assoluta del capitale cancella le proprie tracce e scompare dietro l’apparenza ovvia e naturale delle cose. Il pensiero critico riattiva quel divenire per mostrare alla prassi la direzione del possibile.
 
Il disagio della civiltà socialista 
Una volta che sia stato spezzato il circolo della mediazione assoluta il regno della necessità non si rovescia necessariamente in regno della libertà. Non è sufficiente la socializzazione dei mezzi di produzione per orientare in modo nuovo la razionalità sociale. Il destino del socialismo sovietico è così, in un certo senso, la prova e contrario della correttezza del discorso di Marcuse sulla società capitalistica. Come noto, ciò che nel discorso di Marcuse provocò reazioni più scandalizzate a sinistra fu il suo tentativo di cogliere gli elementi di continuità tra il sistema americano e quello sovietico, pur senza negarne le sostanziali differenze. Oggi, soprattutto dopo il crollo del URSS, questo aspetto è passato in sordina: eppure, l’insufficienza del socialismo reale è strettamente collegata alla teoria della rivoluzione elaborata da Marcuse nel dopoguerra. Più che la cartina di tornasole ne è addirittura la premessa. Ciò che impedisce la rivoluzione in Occidente è, in un modo che va chiarito, ciò che impedisce la realizzazione del socialismo in Oriente. L’analisi di Marcuse è venuta anche biograficamente costruendosi su questo presupposto: è del tutto esplicito che Soviet Marxism altro non è che l’analogo de L’uomo a una dimensione nel blocco orientale[138]. La riflessione sull’uso politico della tecnica viene sviluppata prima qui, nell’analisi del socialismo sovietico e solo successivamente viene trasportata, con i dovuti adattamenti, nell’ambito della società capitalistica. È interessante che un movimento teorico inverso venga proposto da Marcuse negli ultimi anni della sua vita quando, dopo la lettura di Die Alternative del dissidente tedesco Rudolf Bahro, giunge a riformulare il problema dei bisogni e della liberazione a partire da ciò che accade nel blocco orientale, applicando poi questa descrizione alla società tardo-capitalistica.
 
La rivoluzione amministrata
Nel momento in cui l’antagonismo di classe ottiene dei risultati sul piano dell’organizzazione e della direzione del lavoro ciò può significare solo negazione dell’interesse opposto al profitto e alle leggi di mercato. Nel socialismo ciò significa che il progresso diventa totale e lineare – potremmo dire che è esso a porre i propri presupposti invece di trovarli già fissati dal capitale – e che il processo di universalizzazione nella soddisfazione dei bisogni attraverso il lavoro diventa reale e non più astratta perché l’organizzazione dei produttori la progetta in piena autonomia.
Che ne è dunque del problema della “qualità” che trovavamo posto nel dominio del capitale? Esso non è affatto scomparso, si è semplicemente trasferito nel problema del passaggio al comunismo. La tecnica può solo creare le premesse della libertà, dove questa possibilità non si realizza essa rinforza un asservimento la cui causa ultima risiede nei rapporti di produzione[139]. Infatti, benché questi rapporti in URSS non siano più leggibili in termini di lotta di classe è però qui ancora presente un antagonismo irrisolto tra società e individuo che spiega il mancato passaggio al regno delle libertà[140]. “L’industrializzazione”, scrive Marcuse, “assume una priorità sulla socializzazione, cioè sulla produzione e sulla distribuzione in accordo con le necessità di ciascuno”[141]. Già qui Marcuse osserva come i due sistemi antagonistici sembrino assimilarsi sempre più nell’espropriare gli individui da qualsiasi forma di controllo sulle proprie vite attraverso la disciplina del lavoro, la manipolazione mediatica e l’organizzazione del tempo libero. In queste circostanze, l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione si riduce a sua volta a differenza tecnica, più che realmente politica[142]. La tendenza oggettiva di lungo corso che sta al fondo di questa convergenza è il fatto che lo sviluppo tecnologico implica le due tendenze contraddittorie della libertà e dell’asservimento[143]. È in e attraverso la macchina che questo processo si decide. Essa libera senz’altro energie e tempo per lo sviluppo dell’attività individuale, ma impone, al tempo stesso, la necessità di aderire ai tempi e ai modi della macchina[144]. Se questo secondo movimento non è superato nella democrazia del lavoro, nel controllo dei produttori diretti sui fini della produzione, la conseguenza non può che essere un perfezionarsi dei modi della subordinazione. La necessità dell’industrializzazione competitiva durante lo stalinismo realizza questo processo di uniformizzazione in modo più cristallino e trasparente che in Occidente:
 
Le esigenze della macchina e l’organizzazione scientifica del lavoro rivestono carattere totalitario, e impegnano tutti gli aspetti dell’esistenza. La perfezione tecnica dell’apparato di lavoro domina parimenti chi guida e chi è guidato, pur conservando tra essi la distinzione. L’autonomia e la spontaneità restano ormai confinate al livello della più o meno efficiente prestazione entro i limiti di schemi prestabiliti. Lo sforzo intellettuale diviene compito soltanto di specialisti tecnici, di esperti, di ingegneri. Vita privata e tempo libero vengono strumentalizzati ai fini dell’esigenza dell’apparato, in quanto ridotti al rango di distensione dopo il lavoro e di preparazione ad esso. Ogni atteggiamento dissenziente o non integrato diviene, più ancora che un crimine politico, una vera e propria aberrazione tecnica, un cattivo uso della macchina se non addirittura un sabotaggio. La ragione altro non è che la razionalità dell’insieme, l’ininterrotto funzionamento dell’apparato e l’incremento del potenziale produttivo. Il realizzarsi di un’armonia tra l’interesse individuale e quello generale, fra le necessità umane e quelle della società, rimane allo stato di pura e semplice promessa[145].
 
Se la burocrazia sovietica impedisce il formarsi di una vera e propria classe dominante e realizza tramite negoziazioni una sorta di “interesse generale”[146] quest’ultimo rimane ideologico nella misura in cui la società è attraversata ancora da conflitti e disuguaglianze che continuano a pregiudicare la razionalità dell’intero. Così, il persistente contrasto tra individuo e società qui poggia su basi diverse che nei paesi capitalistici poiché lì esso vive il conflitto distorcente tra la razionalità oggettiva, tecnologica della produzione e l’interesse particolare di chi da essa trae profitto, mentre nella società sovietica questo conflitto è in teoria risolvibile sulla base delle potenzialità materiali create dalla Rivoluzione russa[147].
È qui che viene posto da Marcuse nuovamente il problema del salto qualitativo che dovrebbe operare la rottura in grado di realizzare pienamente il socialismo o, se si vuole, il comunismo[148]. Prima questo qualitativamente altro era determinato nella sua possibilità reale, come abbiamo visto, dall’antagonismo interno alla sfera produttiva. Ora esso risiede ancora qui ma come possibilità negata dell’antagonismo, ovvero come misura del livello effettivo di autonomia dei produttori diretti nell’organizzazione del lavoro cooperativo.
In che modo il marxismo sovietico viene a negare questa possibilità? Ciò accade sia da un punto di vista teorico che pratico. Dal punto di vista teorico si nota una trasformazione della dialettica da teoria critica a sistema di pensiero[149]. Il negativo si rovescia in positivo. Se la dialettica serviva prima a descrivere i conflitti della società capitalistica, nonché ad identificare, per mezzo di questi, il proletariato come forza sociale cosciente che emerge in un processo di liberazione in cui la “sostanza” del mondo alienato “può diventare ‘soggetto’ (secondo la nota tesi della Fenomenologia dello spirito) soltanto superando le condizioni che ‘contraddicono’ la sua realizzazione”[150], ora essa diventa esplicitamente “ideologia”, “visione del mondo”, “teoria della conoscenza”[151]. È molto interessante ciò che Marcuse scrive a proposito di questa trasformazione della dialettica – collegandola per altro allo sviluppo storico della “coesistenza pacifica” – ovvero che essa smette di essere una teoria negativa che ha ad oggetto la classe operaia per diventare, nel perimetro del “socialismo in un paese solo” (o del “blocco orientale”), una teoria che recupera l’idea di un soggetto universale, sovrastorico cui non a caso corrisponde un recupero della logica formale nei dibattiti sovietici[152]. Questo è essenziale perché ha come scopo, lo vedremo subito, un utilizzo della dialettica a fini gestionali, in cui la società viene controllata e diretta dall’alto in termini di efficienza e produttività: in modo non dissimile da quanto accade nel capitalismo.
Tuttavia, gli antagonismi soggettivi e le contraddizioni oggettive non si lasciano cancellare con un tratto di penna. Tutta l’analisi condotta in Soviet Marxism mostra come il discorso sovietico ne sia suo malgrado attraversato. Un altro elemento caratteristico di questa trasformazione della dialettica è il modo in cui si ripropone l’opposizione tra volontarismo e determinismo che ha attraversato tutta la storia del marxismo[153]. In genere, scrive Marcuse, questa opposizione che nasce dall’idea marxiana di una dialettica tra le forze oggettive del capitalismo e l’azione cosciente del proletariato, conosce oscillazioni nelle varie fasi storiche del movimento operaio. Nelle fasi acute di conflitto, scrive infatti Marcuse, le organizzazioni del movimento operaio si trovano a riconoscere l’impeto di forze oggettive che producono il cambiamento; nei periodi di stagnazione del conflitto, quando il proletariato sembra subire le “cieche” leggi del capitalismo, si fa strada la necessità di far crescere l’elemento soggettivo e il movimento operaio diventa “oggetto” del volontarismo dei suoi gruppi dirigenti[154]. La dirigenza sovietica si trova nella necessità di articolare questo dilemma in una società in cui all’assunto di un socialismo già realizzato (almeno nelle sue “fondamenta”) deve sovrapporsi un incessante movimento di progresso verso la meta finale (il comunismo). La dialettica viene rigidamente organizzata attraverso la sistematizzazione di materialismo dialettico (applicabile alla natura nel suo insieme) e materialismo storico (applicabile solo alla storia): il fatto che il primo sia caratterizzato da un rigido determinismo fa sì che anche il secondo, dove pure si colloca l’azione libera e cosciente degli uomini, finisca per essere risolto in un meccanicismo di fondo. Così, ogni vittoria sul capitalismo viene sì attribuita all’azione del proletariato ma questa si rivela vincente solo perché mossa dalla comprensione delle “ferree leggi” della storia[155], in base alla concezione - spinoziana prima, hegeliana poi - secondo cui la libertà sarebbe solo la necessità compresa.
La questione della contraddizione viene così a sua volta articolata nella distinzione tra “contraddizioni antagonistiche” che riguardano l’opposizione al capitale e che possono essere risolte solo attraverso la catastrofe di quest’ultimo e “contraddizioni non antagonistiche” interne al socialismo che possono essere risolte in modo graduale, attraverso un progresso lineare[156]. Questa opposizione a sua volta è riconducibile al modo in cui Marx parla della catastrofe del capitalismo, cioè delle forze cieche che lo spingono, e del suo superamento in un progresso che fa tutt’uno con l’azione cosciente del proletariato. È qui che si dovrebbe realizzare la traduzione della quantità in qualità e la radice di quel passaggio al comunismo che pone fine all’effetto di lungo periodo di quelle forze cieche. Ma la realtà dei rapporti politici in URSS, osserva Marcuse, va in direzione opposta. Qui il passaggio al comunismo continua ad essere teorizzato e praticato in forma “amministrativa”[157].
Per Marcuse l’individuo assume una funzione euristica rispetto alla totalità: è l’ente naturale, erogatore della forza lavoro, già socializzato dal capitalismo. Che forma assume questa socializzazione quando i mezzi di produzione vengono nazionalizzati? A questa domanda non risponde né la nazionalizzazione stessa, né il progresso tecnologico che continuano a rimanere premesse di una socializzazione posta su basi nuove rispetto al modo di produzione capitalistico. Se consideriamo il ruolo degli individui rispetto a piani che vengono predisposti rigidamente dall’alto non c’è alcun mutamento sostanziale nell’ambito dei rapporti di produzione: essi restano passivi. Per gli individui resi oggetti nel processo produttivo nessun cambiamento tecnologico può realizzare la gestione comune, autonoma, libera di tale processo.
Nello stalinismo e nell’epoca post-staliniana questo problema viene posto, curiosamente, come un allargamento in senso quantitativo e qualitativo della sfera del consumo a seguito (o parallelamente) ad uno sviluppo decisivo delle forze produttive[158]. Allargamento in che senso? Con quali criteri? Decisivo fino a che punto? Oltre quale soglia? In che senso il comunismo potrebbe sgorgare, come una sorta di maggiore “efficienza”, dal progresso lineare avuto finora? La questione dell’efficienza si propone qui in modo non dissimile dal capitalismo ma rovesciato dalla sfera del consumo a quella produttiva. Anche in questo caso, come nel caso dello “spreco”, della “sovrapproduzione” capitalistica, dovremmo chiederci come si misura la maggiore efficienza o, se vogliamo usare un termine meno tecnico, la maggiore razionalità in senso hegeliano-marxiano del sistema sovietico? In questo caso, il problema va posto in un modo che non lascia spazio ad una formulazione puramente quantitativa, a sua volta tecnica. C’è senz’altro una misura oggettiva di questo cambiamento ma essa riguarda l’oggettività dei rapporti sociali, la libertà, quindi l’autonomia degli individui all’interno dell’ordine sociale da essi stessi prodotto. L’eventuale quantificazione dei processi di passaggio al comunismo può avvenire solo dopo (o contestualmente, in una situazione sperimentale di trial and error) la liberazione dai ceppi burocratici.
È interessante, nota Marcuse, come l’enfasi posta dalla dirigenza sovietica sulla maggiore libertà da realizzarsi nella sfera del consumo finisca per obliterare la richiesta di una maggiore libertà nella sfera della produzione. Ma se c’è vera liberazione, se c’è vero salto nel processo graduale, interruzione della ripetizione, emergenza del nuovo esso avviene proprio qui. In modo non dissimile da quanto accade nel capitalismo: segno che la rottura decisiva, nonostante la socializzazione dei mezzi di produzione non è stata ancora realizzata. Tutto ciò è dunque maggiormente vero nel capitalismo. La concordanza tra i due sistemi denunciata da Marcuse non va vista in qualche reazionaria allergia allo sviluppo tecnologico, come strillarono i custodi del “vero” marxismo. Il senso di questa sovrapposizione casomai parte da un’analisi circostanziata dei processi post-rivoluzionari in URSS.
Il problema del rapporto tra determinismo e volontarismo trova ancora nella sfera produttiva il suo fondamento. Solo se la base cambia essenzialmente la sfera ideologica che su di essa sorge può trasformarsi e al determinismo può fare seguito una libertà che non sia  solo propaganda[159]. In URSS, nonostante tutto, non c’è alcun primato della politica[160], osserva Marcuse, poiché quest’ultimo potrebbe dirsi tale solo se realizzasse il passaggio al comunismo non in forma graduale, come compito meramente amministrativo. Ribadiamo: fino a quando è necessario che cresca la base economica? Se il quando e il quantum di questa crescita sono decisi tecnicamente siamo ancora nell’ambito del determinismo. La decisione deve essere politica, deve essere opera della libertà. È la libertà – le cui premesse sono certo già create nell’ambito della base economica – a produrre la libertà nella sfera ideologica. Si nota qui come l’analisi di Marcuse sia più circostanziata di quella di Pollock laddove non identifica affatto il primato della politica sull’economia con una generica, dunque piatta e adialettica, gestione “totalitaria” della società[161].
Il fatto che Marcuse affidi così tanto peso al problema della decisione cosciente non va ovviamente inteso in senso soggettivistico o volontaristico. La razionalità e la libertà non sono qui attributi individuali ma forze e strutture materiali operanti nella realtà storica. Qui trovano la propria misura operando “contro la società stabilita”[162]. Si tratta di una scelta, certo ma, precisa Marcuse, tra progetti storici alternativi di oggettivazione della libertà e della razionalità[163]. Scelte che sono senz’altro intersoggettive ma hanno la propria riprova nel livello di emancipazione di cui fanno godere gli individui. Ovviamente l’emancipazione qui non va intesa in senso doxastico ma oggettivo, ci deve essere qualcosa che si muove nell’orizzonte della verità[164]. Ora, al contrario di una visione coscienzialistica qui il tema è che se gli individui non si riconoscono senza coercizione nella struttura costituita dalle loro interazioni essi non sono liberi. E l’assenza di coercizione non si misura nell’adesione cosciente alla struttura, ma nel livello di autonomia individuale[165]. “L’autodeterminazione sarà reale nella misura in cui le masse saranno dissolte in individui liberi da ogni propaganda, indottrinamento e manipolazione, capaci di conoscere e di comprendere i fatti e di valutare le alternative”[166]. Finché non viene interrotto il rapporto eteronomo tra tempo di lavoro e tempo libero, quest’ultimo sarà sempre vissuto in forma alienata, come un “essere-per-altri”[167].
Felicità sarebbe il nome per l’unico criterio di misura oggettivo, ma non quantificabile, che ci farebbe uscire dal circolo vizioso di un’autonomia organizzata, dell’antinomia tra l’essere-per-sé e l’essere-per-altri. Essa ha a che fare con la sensibilità e la corporeità[168], ovviamente, ma non può esistere né isolata, né senza un limite. Felicità “matura” sarebbe la coscienza sviluppata del limite[169] che permette alla vita di esprimersi nel pieno delle sue potenzialità in un orizzonte di cooperazione. Una felicità condivisa nella diversità, quindi, che non è però a sua volta possibile senza universalità.
L’universale, come abbiamo detto, è l’attiva negazione del particolare ma anche il luogo di positivo di espressione/inveramento del singolare. L’universale, inoltre, abbiamo visto che non va inteso in senso statico ma come movimento di universalizzazione. In tal senso, l’universale si contrappone anche agli universali, che non possono che essere altre forme della particolarità. Violento e falso è allora l’universale quando pone piuttosto il particolare e nega la libera espressione del singolare[170]. Ora, sebbene Marcuse non escluda in linea di principio una possibile evoluzione della nomenklatura sovietica che la porti a cancellare il proprio interesse particolare all’autoriproduzione come corpo separato dalla società sovietica – in una dialettica complessa e non lineare che porta la stessa burocrazia di Stato, come abbiamo già visto, a porsi come luogo di mediazione di interessi particolari contrastanti – rimane il problema di come questo superamento possa e debba accadere. Perché anche qui: l’idea che ciò accada in forza di un movimento lineare e progressivo non fa che spostare il problema del salto qualitativo oltre l’orizzonte dell’amministrazione universale.
Occorre restituire al testo di Marcuse le sue importanti sfumature perché questo discorso sull’individuo e sulla libertà non vada frainteso. Nel nuovo orizzonte prodotto dalla Rivoluzione russa quei concetti si pongono in modo inedito e impongono soluzioni inedite, non certo il ritorno all’epoca liberale classica. Ma ciò non significa che queste soluzioni siano effettivamente operative nella società sovietica. Né che sia agevole intravedere una loro realizzazione, sicuramente non attraverso una mera prosecuzione della politica precedente. Quando Marcuse confronta l’etica occidentale e l’etica sovietica sottolinea come alla nozione naturale della libertà borghese, lo Stato sovietico abbia sostituito la sicurezza propria della libertà sociale o civile[171]. Ma immediatamente sottolinea la funzione positiva avuta dalla limitazione delle libertà liberali anche qui in netto contrasto con ogni lettura “nostalgica” della teoria della fine dell’età liberale classica di Pollock[172]. Nella società sovietica lo spazio dell’interiorità in cui dovrebbero valere i valori trascendenti dell’etica borghese viene esteriorizzato e la realizzazione dell’ideale si dà solo nella tensione tra il presente e la sua realizzazione nell’avvenire storico.
Al tempo stesso, però, questo stesso adeguamento avviene nella forma di una disciplina e addirittura di un’etica del lavoro che assomiglia molto all’etica protestante delle fasi storiche dell’accumulazione primitiva. Conseguentemente, la liberazione del tempo di vita nella società sovietica viene immaginata sempre nella forma di un rilascio di tempo ed energie non da spendersi liberamente, bensì in un processo regolato dall’alto di educazione al lavoro, recuperata quindi come fattore di maggiore efficienza del sistema complessivo.
L’adeguamento tra io e realtà che nell’industrializzazione capitalistica avviene in modo inconscio in quella sovietica è palese ed esplicita. Nel primo caso la libertà economica e la libertà interiore si trovano conciliate in uno stato di dipendenza dai meccanismi economici che riducono la prima ad una perenne insicurezza e la seconda ad una vuota impotenza. Nel caso della società sovietica la libertà economica viene sottomessa al controllo statale mentre la seconda viene “politicizzata”, cioè estroflessa in una morale oggettiva, funzionale al mantenimento dell’ordine sociale. Riferendosi a Marx, Marcuse ribadisce come il determinismo della sfera economica diventi “destino” per i lavoratori abbandonati ai processi ciechi di forze che non possono dominare – anche se sono poste in essere dalla loro stessa erogazione di forza-lavoro – e che solo ponendo queste forze sotto il controllo dei produttori associati tale destino può diventare qualcosa di razionale, accettabile, l’orizzonte di una libertà condivisa e reale[173].
Questo controllo nel socialismo è cosciente. Ora, come va intesa questa coscienza collettiva, questa soggettività che deve prendere il posto del cieco gioco di forze oggettive? Ecco il nodo del problema. Se essa non deve essere un semplice sostituto delle singole coscienze individuali (il Partito come pars pro toto della classe) evidentemente deve darsi in un modo – la forma della socializzazione, l’universalizzazione reale – che precede il suo realizzarsi come coscienza. Questa “coscienza”, parallelamente all’universale visto sopra, non va intesa né in senso metafisico, né nominalistico. Essa è nuovamente un processo. In questo processo accade la mediazione reale tra gli individui: questa mediazione è posta in essere e sviluppata, almeno embrionalmente, dal capitalismo stesso, in URSS dal processo di industrializzazione forzata. In tale processo, tuttavia, alla sussunzione della libertà economica nell’ambito della sicurezza garantita dallo stato non corrisponde una libertà individuale positiva. L’individuo è anche qui “parte dell’universale” ma di un universale ancora astratto, autoritario[174].  Non si è ancora realizzata “un’organizzazione libera e razionale del lavoro sociale, vale a dire il venir meno dello Stato come potere indipendente che si pone al di sopra degli individui e contro di essi”[175]. La socializzazione nel socialismo rimane un effetto meccanico della produzione industriale. Gli individui non hanno ancora alcun potere sugli standard della loro esistenza di massa, la loro attività è ancora sussunta in un processo che li rende oggetti.
 
Il socialismo non ancora esistente 
Questi problemi vengono ripresi da Marcuse in uno degli ultimi scritti: un commento al testo Die Alternative di Rudolf Bahro, un dissidente politico della RDT che affrontava proprio la questione del “salto” ad una forma di socialismo non più autoritario alla piena realizzazione delle potenzialità intrinseche della società di tipo sovietico. Marcuse, a partire dalle analisi finora condotte, esplicita il suo rifiuto di distinguere in modo netto il socialismo dal comunismo[176]. Abbiamo infatti visto come sia inutile “spostare” la soluzione della contraddizione nel futuro. In analogia con le proprie istanze, Marcuse loda il “rovesciamento del metodo” operato da Bahro che radicalizzando l’idea di socialismo pretende che vengano innescati subito i processi necessari alla sua realizzazione. “Il rovesciamento metodologico di Bahro traspone la meta finale al principio”, scrive Marcuse[177].  
 
Il socialismo si dà come possibilità reale solo se è la sua definizione estrema, integrale, «utopica», a costituire il modello dell’analisi, e allora la base dell’utopia si mostra nell’esistente. Non è, infatti, l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione che determina, come tale, la differenza essenziale tra i due sistemi - per quanto essa rimanga il presupposto irrinunciabile del socialismo - ma il modo in cui sono utilizzate le forze produttive materiali e intellettuali.[178] 
 
L’elemento “utopico” indica la necessità di intravedere, da un lato, il salto essenziale verso una forma di organizzazione diversa, dall’altro, la capacità di evidenziare le tracce di questo cambiamento nell’hic et nunc. Il socialismo non ancora esistente all’interno del socialismo esistente. In questo movimento Marcuse ravvisa “il recupero dell’elemento originariamente idealistico nel materialismo storico: la liberazione dall’economia, che il materialismo storico prospetta. Questo rimane intatto: è la stessa dinamica della base, l’organizzazione della produttività del lavoro, in continuo aumento, che fa dell’opera della soggettività che viene emancipandosi il baricentro del mutamento”[179]. Marcuse parla qui dell’idealismo come “telos del materialismo storico”[180], altrove di un “nucleo idealistico del materialismo dialettico”[181]. Questo elemento “idealistico” ha a che fare lo sviluppo della soggettività libera ma essa rappresenta al tempo stesso l’insorgere di “qualità, abilità, modalità di immaginazione, facoltà di agire e di godere”[182] incoraggiate dallo sviluppo materiale, cioè dal progresso tecnologico e dalla crescita produttiva della società industriale avanzata. Queste qualità vengono al tempo stesso incoraggiate e frustrate dall’attuale assetto societario.
La questione della soggettività, del qualitativo ecc. viene infatti riformulata da Bahro come il problema della «coscienza eccedente»[183] ovvero dell’effetto che la crescita a livello della base tecnologica della società produce nella soggettività in termini di ampliamento dei suoi bisogni e dunque dei suoi orizzonti esistenziali e politici. Nella soggettività della coscienza eccedente si trovano infatti unificati tanto “interessi compensatori” che “interessi emancipativi”, ovvero tanto bisogni legati alla riproduzione dell’esistente, quanto bisogni che aspirano al trascendimento della condizione di subordinazione: “i primi riguardano essenzialmente la sfera dei beni materiali: maggiori e migliori capacità di consumo, carriera e concorrenza, profitto, «status symbol», ecc.”. Sono però gli interessi emancipatori che “costituiscono una forma di aspirazione alla felicità e di appagamento” [184]. Marcuse ribadisce come la trasformazione radicale dei bisogni, la rottura con la «coscienza subalterna», la catastrofe della sua forma di soggettività non possa avvenire né con l’automatismo della crescita della produzione, né con la spontaneità, benché entrambi siano momenti necessari[185]. Anche qui si ripresenta il problema della circolarità che va teoreticamente posto come il problema della loro congiunzione, la mediazione, o se vogliamo, la sintesi di determinismo e libertà.
La rottura con l’orizzonte attuale della riproduzione economica deve qualificarsi come una nuova economia del tempo[186]. Quest’ultima deve garantire che già nel regno della necessità inizi a realizzarsi ciò che è proprio del regno della libertà, dunque una inversione del rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero. Tale processo, sottolinea Marcuse, ha come scopo quello di diffondere a livello dell’intero corpo sociale i privilegi che l’esenzione dal lavoro materiale produce nel gruppo dirigente: il superamento dell’organizzazione repressiva del tempo di lavoro diventa qui necessario proprio per abolire la distinzione tra la massa subordinata e l’intellighenzia e dunque rendere sempre più effettiva la direzione della produzione da parte dei produttori diretti[187].
Felicità, autonomia e nuova economia del tempo trovano però la propria sintesi negativa nella questione aperta dello Stato. Non è immaginabile infatti alcun cambiamento da questo punto di vista senza affrontare la della dialettica tra Stato e anti-Stato che è un elemento strutturale per l’instaurazione del socialismo. Come aveva già ricordato in Soviet Marxism[188], Lenin aveva previsto che il ruolo dello Stato dovesse iniziare a cambiare con l’instaurarsi del potere rivoluzionario: ogni atto del nuovo Stato avrebbe dovuto comportare un passaggio di poteri alla base operaia nella forma di una progressiva capacità di autodeterminazione dell’indirizzo politico nell’erezione del socialismo[189].
 
La concezione di Bahro sembra implicare che ancora nella società socialista dispiegata, l’universalità sarà istituzionalizzata: anti-Stato in quanto Stato. Questo è anti-Stato, nella misura in cui promuove l’ulteriore sviluppo dei bisogni emancipativi e dilata lo spazio della spontaneità e dell’autonomia individuale; è Stato, in quanto organizza tale sviluppo nell’interesse dell’intera società - con la definizione di priorità, la distribuzione del lavoro, l’educazione, ecc. - e lo fa con un’autorità vincolante legittimata dal popolo. Si riproduce, nell’anti-Stato, la dialettica di autonomia e dipendenza dei bisogni: lo Stato socialista «registra» i bisogni propri degli individui, come essi si presentano nel sistema dei bisogni predominante, e li «supera» in nuove forme emancipative, che a loro volta divengono poi bisogni degli individui[190].
 
Come abbiamo già avuto modo di vedere Marcuse segue da vicino la concezione hegeliana e marxiana dell’universale come negazione attiva del particolare che produce un positivo ad un livello superiore e un conseguente ampliamento dell’ambito di possibilità del singolare. Di fronte al pericolo di una verticalizzazione e autonomizzazione del ceto dirigente, Marcuse incoraggia, anche qui in accordo con Bahro, una dialettica tra il centro regolatore e una diffusa “democrazia dei consigli”[191]. Rimane però interessante l’osservazione che i due autori fanno, a partire dall’analisi di ciò che accade di fatto nel socialismo reale, circa l’insufficienza della democrazia consiliare intesa come mero espediente tecnico. Anzi, proprio il fatto che essa sia radicata nel mondo della produzione facilita l’emergere di tendenze e interessi particolaristici che contrastano con la necessaria universalizzazione dei processi produttivi e di consumo della società emancipata[192].
In questo senso, l’idea che il rivoluzionamento della società socialista debba passare per una “rivoluzione culturale” non sembra più un semplice attardarsi su posizioni umanistiche pre-marxiste. Ha dalla sua proprio l’impossibilità di un passaggio tecnico, amministrativo al comunismo. Anche quando le basi economiche della società sono state poste in direzione della collettivizzazione ciò non basta a orientare la produzione nei termini di una libera associazione dei produttori. Seppure, come abbiamo visto, dall’alto e dal basso si ponesse mano ad una riorganizzazione della produzione su base razionale (Stato) e democratica (consigli) mancherebbe di nuovo l’anello di congiunzione tra i due estremi e la contraddizione finirebbe per sdoppiarsi. Da un lato, l’universalismo senza libertà, dall’altro la libertà senza universalismo.
Bahro sottolinea come un altro fattore che incide sulla rilevanza della soggettività per il mutamento sociale sia la progressiva “intellettualizzazione del processo di produzione”; come sottolinea Marcuse, infatti, “le informazioni sui meccanismi tecnico-scientifici, economici e psicologici che riproducono la società industriale sviluppata, conferisce a quanti le posseggono la conoscenza delle possibilità oggettive del mutamento” [193]. La “coscienza eccedente” è un fenomeno sociale e diffuso, seppure essa si incarni prevalentemente nello strato intellettuale della popolazione. È certo, comunque, che il contenuto trascendente della coscienza eccedente si mostri ancora in piccoli gruppi; esso deve perciò essere incoraggiato ed ampliato perché possa mettere in discussione, scuotere e portare alla catastrofe quella soggettività subalterna che impedisce l’universalizzazione della libertà e la libertà dell’universalizzazione. Quello che Bahro definisce “viaggio interiore” è quindi tutto l’opposto di una “evasione”, della “privatizzazione della politica”, di un “viziato gingillarsi con l’Io”: esso coincide piuttosto con la “politicizzazione della coscienza eccedente e dell’immaginazione”[194].
L’elemento “elitario” della concezione di Bahro, il suo insistere sul ruolo di tecnici, ingegneri, intellettuali nella trasformazione sociale viene difeso da Marcuse anche laddove rischia di suscitare il “ridicolo”[195]. Addirittura, il suo apparente recupero della dittatura educativa degli intellettuali di Platone o l’idea di Rousseau secondo cui occorre costringere gli uomini ad essere liberi, diventa l’indispensabile crocevia del superamento della contraddizione produttiva al centro della crisi del socialismo reale. Piuttosto che arretrare di fronte a queste conseguenze paradossali, occorre spingerle oltre il punto di auto-superamento. “Si tratta”, scrive infatti Marcuse, “di indurre la ‘sovrapproduzione’ di coscienza, per rimettere l’intero accadere della storia ‘sulla testa’, e fare delle idee una potenza materiale decisiva.  […] Ci attende e, in realtà, ha già avuto inizio, una rivoluzione culturale nel senso più proprio della parola: un rovesciamento della totalità delle forme della vita soggettiva delle masse[196]. Tale rivoluzione, sulla base di una riorganizzazione della produzione che riorienti il consumo eliminando le sacche di privilegio e riducendo il contrasto tra lavoro intellettuale e materiale, direzione e subalternità, emancipa gli individui da una libertà meramente amministrata nello spazio della sicurezza e, riaprendo la dimensione dell’interiorità, la rende pubblica in modo nuovo, portando a compimento il socialismo come realizzazione cosciente e creativa di un’umanità restituita a sé stessa. Si tratta, infatti, di un processo che è già in corso: è infatti un presupposto dell’analisi che sia lo stesso processo industriale a realizzare questa possibilità. Ci si può spingere anche oltre: Marcuse accenna addirittura al fatto secondo cui ci sarebbe un potenziale di liberazione nella tecnologia stessa, da intendersi qui nel suo operare immanente, come un elemento “ludico” [197], un gioco di forme e materie che anticipa quel superamento della distinzione tra gioco e lavoro che ci occuperà più in là.  Siamo così giunti al punto in cui l’analisi marcusiana del marxismo sovietico si congiunge con quella della società a capitalismo avanzato.
 
Il keynesismo reale: il problema dei “falsi bisogni” 
Poche opere come L’uomo a una dimensione sono state fraintese, apprezzate e contestate per i motivi sbagliati[198]. Lo stile marcusiano, sempre chiaro ed efficace, nonostante la popolarizzazione, non ha colpe: è vero però che non era possibile nell’estrema sintesi compiuta da Marcuse far emergere la reale complessità della riflessione che l’aveva prodotta. Alla restituzione di questa complessità sono dedicate le successive pagine.
L’opera esce nel 1964 quando gli USA sono ormai entrati in un’epoca di “keynesismo reale”, in cui le politiche portate avanti nei decenni precedenti hanno dato come frutto un incredibile sviluppo economico e militare. Marcuse inizia il discorso lì dove lo aveva lasciato con Soviet Marxism, cioè dal problema del rapporto tra libertà e sicurezza[199]. Anche qui, come già osservato nella realtà sovietica, l’intervento statale nell’economia e l’aumento vertiginoso della produzione e delle possibilità di consumo sostanzialmente riducono il bisogno di libertà, nel senso liberale classico del termine, senza che questo rappresenti di per sé un male. Quella libertà, come abbiamo visto, costituiva una realtà duplice, poiché implicava l’apertura di uno spazio interiore di critica e autonomia soggettiva, al prezzo di una perenne e potenzialmente distruttiva incertezza e dipendenza oggettive sul mercato. Il progressivo “controllo” sull’intera economia, che secondo Marcuse è il fine stesso della “razionalità tecnologica”[200], dovrebbe garantire un’esistenza pacificata ma avviene invece il contrario: la corsa agli armamenti e le prospettive di distruzione[201], una mobilitazione totale nel tempo di lavoro e nel tempo libero, la crescente dipendenza dall’apparato politico-economico, l’impossibilità perfino di immaginare un ordine di cose diverso segnalano che qualcosa dietro la promettente razionalità tecnologica lavora in senso opposto alle speranze di una nuova era di progresso e benessere.
È sintomatico che, laddove Marcuse in Soviet Marxism abbia scelto di non usare la categoria di “totalitarismo” come strumento di analisi della società sovietica, la usi invece espressamente per la società americana: “in virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria” alludendo al fatto che tale organizzazione sembra precludere “l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema”[202]. Ovviamente, non si può negare l’esistenza di un “pluralismo” e di istituzioni rappresentative “democratiche” negli USA ma il discorso di Marcuse muove ovviamente dal punto di vista di un’alternativa di sistema, alternativa – fondata quindi sul superamento della contraddizione Capitale/Lavoro – che è invece immanente al sistema stesso. Ciò non accade solo perché il comunismo rappresenta il “nemico” ideologico da combattere dentro e fuori la società americana ma, come ora vedremo, per motivi intrinseci.  In entrambi i sistemi, per motivi speculari ma convergenti, il “contenimento” del pericolo esterno è legato a quello del pericolo interno, all’emergere di un potenziale cambiamento politico che inverte la logica di sistema: “il Nemico è lo spettro reale della liberazione”[203].
Tra le cause di questa situazione bloccata, Marcuse sottolinea la progressiva riduzione del ruolo del lavoro manuale e un aumento del peso del lavoro intellettuale nelle sue varie componenti. Quest’ultimo viene tradizionalmente definito anche “improduttivo” ma è una definizione problematica, osserva Marcuse, perché la valorizzazione del capitale è un processo che attraversa tutta la catena dalla produzione al consumo e in cui il ruolo del nuovo ceto di tecnici, impiegati e lavoratori dei servizi risulta essenziale. Ciò non costituisce però una “proletarizzazione” di questi ceti, poiché nel suo complesso tanto i lavoratori manuali quanto i tecnici, gli amministrativi e i lavoratori del terziario nei paesi industrializzati migliorano la propria condizione. Si potrebbe forse parlare di una proletarizzazione senza proletariato. Tuttavia, la quasi totalità della popolazione entra gradualmente a far parte della classe dei lavoratori subordinati[204]. L’intensità dello sfruttamento, d’altro canto, non diminuisce necessariamente, sia perché cambia il modo in cui il lavoro viene erogato, sia soprattutto perché vaste parti del secondo e terzo mondo vivono livelli di oppressione ancora disumani. Nella sua analisi di una estensione generalizzata della condizione di “lavoro subordinato” per cui la classe operaia finisce per comprendere tutti gli “esclusi dal potere decisionale sui mezzi di produzione”[205], Marcuse aveva perfino pronosticato l’avvento di un populismo dai caratteri ambigui[206].
La produzione incessante, come visto, “mobilita la società nel suo insieme, al di sopra e al di là di ogni particolare interesse individuale e di gruppo”[207]. Ora, dal punto di vista di questa mobilitazione generale, la macchina, in tutti i suoi aspetti e declinazioni, si estende all’intera società, costituendo il sostrato del potere[208]. Ciò avviene anche attraverso una trasformazione della base sociale. Anzitutto, la macchina perde la sua “unità” e diventa una struttura aperta in ogni direzione, verso i suoi elementi costitutivi e le relazioni dentro e fuori la fabbrica, ciò rende sempre meno “specifico” il lavoro dell’operaio e dunque diminuisce anche il suo potere sull’apparato, gli impedisce quella negazione specifica, quella interruzione della macchina che coincide con una affermazione della propria vita[209]. In secondo luogo, sulla scorta di alcuni passi dei Grundrisse[210] Marcuse sottolinea il cambiamento della “composizione organica del capitale”, la diminuzione del plusvalore erogato dal lavoro vivo a favore degli effetti combinati della scienza e della tecnica[211]. La forza-lavoro oggettivata nella macchina diventa sempre più “produttore indipendente”, una sorta di “soggetto autonomo” ma questo processo di reificazione[212] potrebbe aprire la possibilità di una rivoluzione sociale, in quanto “la reificazione della forza lavoro umana, portata alla perfezione, spezzerebbe la forma reificata tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo”[213]. Per la stessa ragione, dunque, che produce l’asservimento, la reificazione potrebbe mutare di segno politico e realizzare l’automazione completa. In quanto la macchina a sua volta non è che lavoro accumulato, proiezione di un potere umano che avrebbe la possibilità di ridefinire l’ambito della libertà sociale e individuale, l’inversione sarebbe un processo di riappropriazione. Come abbiamo visto, però, non c’è automatismo che conduca alla conquista dell’autonomia, c’è anzi un incremento della dipendenza dall’apparato.
Che nel nuovo orizzonte così costituito le libertà tradizionali debbano scomparire o subire una completa metamorfosi non è uno scandalo ma solo il segno della loro limitatezza storica[214]. Il problema è che, allo stato attuale, le nuove libertà non possono che definirsi negativamente come libertà dall’economia, dalla politica e dall’opinione pubblica intese, ovviamente, nella forma ridotta assunta nella società presente: dunque un’economia che è dominio dell’interesse privato e del lavoro alienato, una politica-spettacolo che è asservita a questo interesse, una sfera informazionale che falsifica la percezione del mondo e rende impossibile una definizione degli interessi delle classi subalterne.
L’ordine sociale delle nuove libertà dovrebbe fondarsi su un diverso modo di soddisfazione dei bisogni, come abbiamo visto. Infatti, i bisogni sono “storici” e “sociali” e in ogni configurazione socio-storica sono determinati e imposti dall’interesse particolare che guida il mondo della produzione. In questo sta la possibilità di definirne la falsità: ciò che è falso nel bisogno non è il fatto di non essere soddisfatto ma che nella sua soddisfazione esso riproduce uno stato falso[215]. Veri sarebbero solo i bisogni che potessero corrispondere ad un interesse universale[216], dunque non parziale, che desse forma al mondo della produzione. Allo stato presente questa universalità non può apparire che come possibilità inespressa, anzi negata dalla società attuale. Ma la falsità del bisogno aderisce alla soddisfazione stessa perché la felicità che si muove sui binari di una dipendenza intrascendibile non può che essere apparente, che è poi ciò che le conferisce i suoi tratti di “euforia”[217].
Non si tratta di descrizione di stati psicologici e soggettivi, ma politici e oggettivi. Non ci può essere felicità nell’eteronomia – i due concetti nella filosofia occidentale si richiamano implicitamente[218] – né una felicità reale può convivere con la miseria e la sofferenza altrui. In tal senso, scrive Marcuse, la verità e falsità dei bisogni va giudicata dal punto di vista di un’oggettività storica[219] ovvero della possibilità che si dischiude nel momento in cui il presente appare nella sua forma limitata, parziale e distorta.
Su questo Marcuse dice cose molto precise e per noi interessanti. Anzitutto, ogni società soddisfa i bisogni ma al tempo stesso reprime la possibilità di una loro migliore soddisfazione che è sempre ipotizzabile non solo nel senso di un aumento dei beni prodotti ma, ovviamente, anche di una loro più giusta distribuzione. In tal senso, si danno delle priorità (porre fine alla fame ecc.) ma anche la necessità di una soddisfazione generale, che coinvolga in modo equo tutti. Ciò significa due cose: da un lato, che questo discorso rientra nell’ambito di ciò che è calcolabile ma anche che l’universalità di questa soddisfazione non può apparire che come negazione, contraddizione della sua forma attuale, falsa. Come abbiamo visto, infatti, questi due aspetti sono legati a doppio filo e non ci potrà essere mai alcuna calcolabilità senza che l’universalità le faccia da sfondo oggettivo, già posto.
Tale universalità è l’esito di individui che giudicano liberamente dell’organizzazione della propria vita. Tuttavia qui sorge un’altra contraddizione: l’autonomia non è l’immediata spontaneità, poiché gli individui nella situazione vigente agiscono, anzi pensano e sentono, come “parti” del tutto funzionale che li fa essere[220]. Dunque il giudizio libero presuppone quell’autonomia che va prima creata e abbiamo già visto all’opera questo paradosso del rapporto tra determinismo e libertà, anche se qui possiamo articolare meglio la cosa nel senso che la libertà individuale presuppone anzitutto un’autonomia collettiva, poiché è chiaro che essa è resa possibile 1) dalla rimozione del falso particolare che muove gli interessi dominanti e 2) da una conseguente riorganizzazione materiale della produzione, qualcosa che non può essere realizzato individualmente: “non è l’ambito delle scelte aperte all’individuo il fattore decisivo  nel determinare il grado di libertà umana, ma che cosa può essere scelto e che cosa è scelto dall’individuo”[221].  Questo ambito oggettivo dell’autonomia va ulteriormente chiarito.
La condizione in cui si articola l’autonomia nel mondo sovietico e americano è grossomodo opposta. In URSS si trattava di recuperare la possibilità di un antagonismo rispetto al potere di controllo che avrebbe potuto rendere effettiva la partecipazione popolare alla gestione dell’economia e, da lì, al cambiamento della vita nel suo complesso[222]. Occorreva introdurre una molteplicità dove vigeva una sostanziale uniformità e unità imposta dall’alto. Negli USA il movimento è inverso, l’autonomia passa dal riconoscimento che la possibilità di scelta è apparente, pre-determinata, dunque dal vedere l’unità che si cela dietro l’illusoria molteplicità del mercato. Anche qui essa non può realizzarsi se non nella sfera della produzione ma non può farlo senza passare anche necessariamente dal riconoscere la falsità della sfera del consumo. Il problema dei bisogni, come abbiamo detto, si articola nel punto di mediazione nascosto tra le due sfere.
La condizione per una richiesta di libertà è il riconoscimento del proprio stato servile[223], ma proprio questo non appare nella sfera del consumo che è sostanzialmente eterodiretta dagli interessi della produzione. Marcuse chiarisce infatti che non si tratta di denunciare l’effetto dei “mass media” sulle scelte degli individui. In realtà, l’accordo tra i bisogni soggettivi e le esigenze strutturali della società costituita avviene prima che i mass media arrivino a confermarlo[224]. L’appiattimento tra ciò che si ha e ciò che si potrebbe desiderare, tra l’esistente e il possibile, si rispecchia nell’appiattimento delle scelte al consumo che, attraverso un generale innalzamento del livello di benessere e di abbattimento dei costi di produzione, fa sì che le distinzioni di classe finiscano per non apparire in modo così evidente come prima[225]. Ciò è indizio del modo dialettico in cui i rapporti di classe vengono a occultarsi, senza ovviamente sparire, nella dinamica espansiva della società affluente[226].
Inoltre, il fatto che il rapporto funzionale tra produzione, bisogno e consumo vada colto nella sua valenza oggettiva significa anche l’impossibilità di distinguere in modo determinato non solo ciò che è effettivamente oggetto di scelta e ciò che viene subito dall’individuo, ma anche e soprattutto distinguere il soddisfacimento del bisogno dal suo aspetto distruttivo: il mezzo di comunicazione dalla propaganda che veicola, l’automobile come comfort e come iattura ecc.[227] In questo sta la natura razionale dell’irrazionalità sociale[228]. Non c’è alienazione, l’identificazione tra l’individuo e la società è reale, non è illusoria: ogni pretesa di contrastare questa soddisfazione negandola o denunciandola in modo astratto e moralistico, come spesso faranno alcune frange della Nuova Sinistra, è dunque destinata a fallire e a provocare delle comprensibili e razionali reazioni di rigetto[229].
La realtà stessa, il suo offrirsi così com’è senza qualcosa che ne indichi una possibile alternativa come totalità, è diventata ideologia[230]. Essa non ha bisogno di altra giustificazione rispetto al suo essere-così e non c’è alcuna discrasia tra il soggetto e l’oggetto: da un lato, la pervasività della merce, l’intrusione nello spazio privato, l’estroflessione dell’anima nel mondo della socialità annulla lo spazio privato, la possibilità di chiudersi e ritirarsi dalla produzione incessante che avanza senza ostacoli, rimuovendo ogni alterità; dall’altro, le merci non vendono più solo sé stesse ma la totalità di cui sono momenti, non hanno un altro “lato”, non offrono vie di fuga[231]. In un tempo in cui la protesta studentesca è ancora in embrione, Marcuse scrive quindi che l’alienazione reale è solo l’impotente nevrosi del beatnik o del giovane disadattato. Nella società affluente vige piuttosto una “falsa coscienza immune dalla propria falsità”[232].
 
 
Il comportamentismo realizzato: performatività e magia 
L’immunizzazione della falsa coscienza avviene attraverso il blocco della situazione politica, la “desublimazione repressiva” (l’allentamento dei tabù e delle repressioni libidiche che produce un minore tensione tra individuo e società), ma soprattutto attraverso quella convergenza di operazionismo e comportamentismo che costituisce il meccanismo teorico-pratico attraverso cui ciò che è disfunzionale nei termini della razionalità vigente viene aprioristicamente respinto o adattato. Anche in questo caso una lettura parallela di Soviet Marxism e dell’Uomo a una dimensione è chiarificatrice.        
 
La verità performativa del discorso sovietico 
Il marxismo ufficiale sovietico definisce la “Rivoluzione d’Ottobre” l’atto di instaurazione del socialismo in Russia. Ciò significa 1) che la Ragione come conciliazione di universale, particolare e singolare, viene data come realizzata e, conseguentemente, 2) la capacità di superare idealmente l’antagonismo tradizionalmente incamerato nel linguaggio e nella cultura, cioè il loro valore trascendente[233], viene abolito. In conseguenza di ciò, non esiste criterio di verità che possa essere fatto valere al di fuori della società sovietica. “Questa società”, scrive Marcuse, “diventa il solo criterio di misura del vero e del falso; non vi può essere spazio per alcuna trascendenza nel pensiero e nell’azione, né per alcuna autonomia individuale, dato che il vero nomos è il nomos dell’insieme”[234]. A partire dall’affermazione secondo cui il socialismo, o almeno le sue basi, sarebbero già state realizzate in URSS, il marxismo sovietico produce una trasformazione della razionalità in termini imperativo-predittivi. Marcuse sottolinea, infatti, come nonostante sia senz’altro facile smascherare alcune menzogne “fattuali” della cricca dirigente del PCUS, questa confutazione non è affatto conclusiva nei termini della razionalità oggettiva, storica affermatasi in URSS. Perché lo stesso statuto di verità del discorso ufficiale sovietico cambia quando riflettiamo sul fatto che esso si riferisce ad una realtà in corso di trasformazione. La razionalità di tale discorso ha carattere essenzialmente performativo: “le proposte-chiave del marxismo sovietico hanno la funzione di enunciare e imporre una certa pratica, capace di muovere l’attuazione dei fatti definiti dalle proposte stesse. Quest’ultime non intendono rivendicare immediatamente valori di verità loro propri, ma piuttosto prefigurare una verità che deve essere realizzata mediante determinati orientamenti e comportamenti”[235]. Ogni smentita puntuale dei fatti che sono oggetto di questo discorso viene automaticamente risolta facendo riferimento alla tendenza verso cui muove l’azione politica “nella prospettiva di un processo storico dove una determinata azione pratica, politicamente diretta, proverà l’accadere dei fatti auspicati”[236].
Marcuse dimostra questo assunto attraverso un’analisi linguistica che troverà, come ora vedremo, una controparte nell’Uomo a una dimensione. È importante sottolineare la continuità ma soprattutto la differenza tra i due ordini di discorso. Da un lato, c’è senz’altro un certo appiattimento nella comunicazione pubblica, un “logorio del linguaggio e della comunicazione in generale, proprio della nostra epoca, che è caratterizzata da una società massificata”[237]. Ricordiamo che l’accenno alla “società di massa” non costituisce per Marcuse un disvalore o una critica, poiché la massa, perfino la massificazione è, in senso neutro, la conseguenza necessaria dei processi di centralizzazione economica propri di qualsiasi società industriale[238]. “Non vi è nulla”, ribadisce anzi Marcuse, “negli aspetti tecnici ed economici dell’industrializzazione totale, che usurpi necessariamente la libertà umana”[239]. I discorsi sulla “cultura di massa” sono ideologici: il punto è piuttosto comprenderne le cause reali e il significato politico[240].
Dall’altro lato, c’è però lo scopo direttivo di questo linguaggio all’interno del sistema. Le formule del discorso ufficiale sovietico, infatti, non hanno valore di verità ma pretendono essere efficaci, cioè produrre effetti sul comportamento di massa. Qui sta il loro imparentamento con la magia, il loro muoversi su un piano di razionalità che apparentemente è superato dal contesto sociale dell’industrializzazione avanzata ma che invece gli si adatta perfettamente:
 
Il divario tra illusione e realtà, quanto quello tra vero e falso, finisce per annullarsi, quando le illusioni promuovano un comportamento capace di modellare e trasformare la realtà. […] Il linguaggio ufficiale stesso assume così un carattere magico. Il ritorno, riscontrabile nel mondo contemporaneo, a una utilizzazione dei poteri magici nell’ambito della comunicazione, non va comunque interpretato come una reviviscenza del ‘primitivo’. Gli elementi irrazionali della magia si trovano assunti in un sistema sociale scientificamente pianificato e diretto, divenendo dunque parte integrante dell’organizzazione scientifica della società[241].  
 
In questa ritualizzazione del linguaggio che dona un nuovo potere alla parola[242] non in quanto compresa ma in quanto produttrice di comportamenti attesi, si gioca però come ora vedremo un elemento decisivo per la differenziazione tra le strategie discorsive dei due sistemi politici antagonisti. Perché la distinzione tra il piano della teoria e quello della fattualità nel discorso sovietico – una distinzione che trova appunto la propria mediazione nella prassi sociale coordinata dall’alto – opera come uno “strumento di ricupero della verità”. Paradossalmente, è proprio la rigidezza delle formulazioni teoriche della nomenklatura, con la loro statica e meccanica organizzazione di soggetto e predicato a conservare “in forma ipostatica, la loro sostanza storica”, ovvero il contenuto teorico-pratico del marxismo[243]. La “purezza” della teoria viene così preservata dalla commistione, e dalla falsificazione, con la realtà fattuale: in un certo senso la sua storia si ossifica e si immunizza dalla storia reale. Al tempo stesso, le masse organizzate del socialismo devono agire come se credessero all’ideologia ufficiale, alla piena realizzazione di fatto della democrazia e della libertà, perché è dalla conformità della loro azione al suo diktat che il marxismo sovietico che le guida attende la propria verificazione nella prassi[244].
 
Il capitalismo come comportamentismo totalitario 
Torniamo ora a L’uomo ad una dimensione. Dopo aver dimostrato, come abbiamo visto, la razionale-irrazionale soddisfazione dei bisogni nel keynesismo reale, nonché l’identificazione, la mancanza di alienazione, tra l’individuo e la società americana, Marcuse parla ironicamente di coscienza felice[245]. Il riferimento è ovviamente alla coscienza infelice hegeliana che vede la verità sempre oltre il proprio orizzonte, destinata a non ritrovarsi mai in essa. Il superamento della coscienza infelice avviene, nella Fenomenologia, con il passaggio alla Ragione, dunque attraverso l’identificazione di l’Io e Realtà; questa identificazione, come noto, vedrà presto entrare in crisi la propria felicità immediata[246] e subirà diverse vicissitudini prima di compiersi effettivamente nello Spirito Assoluto. Marcuse, invece, intende riferirsi ad una condizione storica in cui ogni dinamica è stata risolta in anticipo e quindi cancellata: la coscienza felice vive un’identificazione piena, reale con la razionalità sociale che fornisce sempre più soddisfazioni e cancella sempre più le occasioni di dissonanza cognitiva in grado di metterne in questione l’efficienza.
Tutto ciò è realizzato anzitutto attraverso l’opulenza, la crescita produttiva e la distribuzione incessante di beni e servizi. Si potrebbe dire che questa società è talmente razionale da sembrare un’incarnazione pressoché insuperabile della razionalità. Essa fornisce un’immagine credibile, benché non un concetto, del più razionale dei mondi possibili.
Questa razionalità cela dentro di sé una contraddizione mortale e mortifera, non importa quanto si cerchi di nasconderla. La sua stessa necessità di distruggere, lo spreco che definisce il suo stile di ricchezza, sono elementi che vengono armonizzati con il concetto della sua efficienza[247]. Un concetto che indica una misura – l’efficienza – si trova così costitutivamente intrecciato con uno che indica la dismisura – l’opulenza. Vedremo come ciò sia tipico e, in un certo senso, necessario alla sopravvivenza di questo sistema economico-politico. Anzi, vedremo che esso procede, a livello discorsivo, in modo fondamentalmente antagonistico e contraddittorio.
Da un lato, infatti, abbiamo il piano della sfera politica, della comunicazione mediatica e commerciale in cui il linguaggio assume spesso quei caratteri “magici” che abbiamo già visto all’opera in Soviet Marxism ma con uno stile diverso, se non opposto: all’uniformità, al grigio meccanicismo del linguaggio sovietico corrisponde qui una creatività multiforme e suggestiva, alle rigide distinzioni ereditate dal marxismo ortodosso corrisponde la tendenza a operare con contraddizioni anche scioccanti, la fusione di elementi linguistici diversi e inconciliabili. Dall’altro, vediamo a livello accademico il diffondersi di una filosofia improntata all’analisi linguistica e di scienze sociali che scimmiottano criteri epistemologici operazionistici e positivistici in cui ci si preoccupa di cancellare ogni possibile ambiguità, vaghezza e contraddizione dalle proposizioni in modo che, come osserva Marcuse, la contraddizione, bandita dal pensiero critico, sparisca anche dalla realtà, incoraggiando un tendenziale conformismo o comunque una fondamentale passività.
È la stessa “opulenza” che, secondo Marcuse, permea i mezzi attraverso cui la comunicazione dall’alto al basso finisce per impedire all’impotente “felicità” dei subalterni la formulazione negativa e dunque la coscienza del proprio stato di subalternità. Il positivo diventa il marchio di fabbrica di una comunicazione assertoria, in cui ciò che conta è l’effetto prodotto piuttosto che la descrizione in termini veritativi, ovvero includenti la realtà nel suo divenire, nelle sue fratture interne, in ciò che potrebbe accennare ad una trasformazione verso qualcosa di realmente altro.              
 
I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione[248].
 
Marcuse cita a questo proposito anche l’insofferenza verso questo tipo di comunicazione nella parlata popolare che “sferza con ironia maliziosa e spavalda il discorso ufficiale”[249] anche se ovviamente rimane ai margini senza poter incidere sulla realtà[250]. La “creazione linguistica” che avviene negli uffici governativi, nei media, nelle grandi aziende e nell’esercito non teme confronti: “una sintassi in cui la struttura della proposizione è abbreviata, condensata in tal modo che non rimane alcuna tensione, alcuno ‘spazio’ tra le parti della proposizione. Questa forma linguistica si oppone ad ogni sviluppo del significato”[251]. Si tratta di quelle “proposizioni analitiche autovalidantesi, che funzionano come formule magico-rituali” in cui l’universo del discorso descrive in modo politicamente fazioso la realtà così da “chiudere” qualsiasi possibilità di trascendimento[252] (ad es. quando si parla del “mondo libero” per descrivere i paesi sotto la guida americana o di “misure socialistiche” per le ricette economiche redistributive). Non sarebbe difficile trovare degli usi analoghi e forse peggiori anche nel linguaggio contemporaneo in cui parole come “riforma”, “posto fisso” e “immigrato” assumono automaticamente una valenza negativa, mentre “mercato”, “libertà” e “sicurezza” una positiva, impedendo di fatto qualsiasi articolazione critica a livello di dibattito pubblico.
Anche in questo caso Marcuse parla di un effetto magico della parola nel senso di un segnale che, in forza della sua potenza sociale, deve indurre un comportamento atteso. Qui la struttura del discorso è però diversa da quella analizzata in Soviet Marxism poiché la riduzione operata a livello sintattico e linguistico ha come compito la cancellazione del negativo rispetto ad una sfera pubblica che non è dominata da un solo punto di vista, bensì dal pluralismo. È esattamente questo pluralismo che va ricondotto ad unità, appiattito, reso omogeneo e innocuo. La risposta comportamentale “standardizzata” viene ottenuta riducendo prioritariamente tutte le opzioni in campo a variabili addomesticate: “in questo universo di discorso pubblico, il linguaggio procede per sinonimi e tautologie, di fatto esso non procede mai in direzione di una differenza qualitativa. La struttura analitica isola il sostantivo dominante da quei contenuti che potrebbero invalidare o quantomeno disturbare l’uso accettato del sostantivo stesso nei programmi politici e nell’opinione pubblica. Il concetto ritualizzato è reso immune alla contraddizione”[253].
Al tempo stesso, e di converso, proprio l’esibizione sfacciata della contraddizione diventa uno degli strumenti per la chiusura totalitaria dell’universo di discorso, per la normalizzazione del pluralismo. Marcuse analizza espressioni come “bomba pulita” o i rifugi antiatomici “di lusso” per mostrare quale potenza anestetizzante riesca a giungere il discorso pubblico (ma si potrebbero aggiungere numerosi esempi della storia più recente dalla Infinite Justice di G. W. Bush al “Presidente operaio” di Berlusconi). Ciò testimonia
 
il trionfo della società sulle contraddizioni che albergano in essa […]. La sintassi dell’abbreviazione riduttiva proclama la conciliazione degli opposti saldandoli insieme in una struttura solida e familiare. […] Considerata un tempo l’offesa principale contro la logica, la contraddizione appare ora come un principio della logica della manipolazione – caricatura realistica della dialettica. È la logica di una società che può permettersi di far a meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in grado di dominare con mezzi tecnologici la mente e la materia. […] Come possono protesta e rifiuto trovare la parola giusta quando gli organi dell’ordine costituito ammettono, dando pubblicità alla cosa, che la pace consiste realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra, che le armi definitive hanno un prezzo foriero di profitti e che il rifugio antiatomico può avere una sua aria domestica? Nell’esibire le proprie contraddizioni come contrassegno della sua verità, questo universo di discorso si chiude in sé escludendo ogni altro discorso che non si svolga nei suoi termini. E, grazie alla capacità di assimilare tutti gli altri termini ai propri, esso promette di combinare la maggiore tolleranza possibile con la maggior unità possibile[254].
 
A questa forma regressiva di uso della contraddizione si aggiungono altri meccanismi come rendere il discorso “familiare”, annullare la distanza, attraverso l’uso dei pronomi personali (“tu”, “voi”, il “vostro” ecc.): in questo caso si tratta di umanizzare lo svuotamento della sfera privata, l’estroflessione dell’esperienza dipingendola con colori che intendono coprire il vuoto e la disumanità[255]. Anche se i soggetti non credono a questa intimità è l’effetto complessivo della comunicazione che conta, potremmo quasi dire il suo fungere come una sorta di lubrificante umano della macchina sociale. Ribadiamo che il punto in questione qui non è mai il contrasto tra un’esperienza moderna, massificata e anonima e una premoderna, individuale e personale: nella misura in cui la modernità capitalistica spezza i legami della comunità arcaica essa ha un carattere progressivo. Il problema - politico, non antropologico - sorge nel momento in cui la nuova libertà non riesce a prendere forma e soppiantare l’illusoria libertà antica che viene anzi sostituita da una nuova, scintillante, efficiente illibertà. Il declino della logica costituisce un requisito della manipolabilità sociale: “le persone che parlano e accettano un tale linguaggio sembrano immuni a tutto – e suscettibili di tutto”[256]. Anche da questo punto di vista il panorama politico odierno, avendo sdoganato praticamente qualsiasi forma di violenza, autoritarismo e razzismo, sembra essersi spinto in modo vertiginoso nella direzione diagnosticata da L’uomo a una dimensione[257].
Secondo Marcuse, il potere di fascinazione di questo linguaggio risiede nel suo imporre “senza tregua delle immagini” che militano “contro lo sviluppo e l’espressione di concetti[258]. Vedremo in seguito quanto è complesso questo rapporto tra immagine e concetto. Per ora accontentiamoci di questa osservazione preliminare che ci servirà ancora una volta per distinguere la logica del discorso pubblico sovietico da quella del discorso pubblico americano, questione cruciale perché questo rapporto chiarisce, come vedremo, il problema del qualitativo per come è posto da Marcuse e per come viene recepito o praticato dalla Nuova Sinistra. Riferendosi alla teoria del linguaggio di von Humboldt, Marcuse scrive:
 
Il concetto, infatti, non identifica la cosa e la funzione. Tale identificazione può bene essere il significato legittimo e forse anche il solo significato del concetto operativo e tecnologico, ma le definizioni operative e tecnologiche costituiscono usi specifici di concetti per fini specifici. Inoltre esse dissolvono i concetti in operazioni ed escludono l’intento concettuale che si oppone a tale dissoluzione. Prima di venire usato in senso operativo, il concetto nega l’identificazione della cosa con la sua funzione; esso distingue ciò che la cosa è dalle funzioni contingenti della cosa nella realtà stabilita. […] Il soggetto […] nomina il concetto di una cosa, un universale che la proposizione definisce essere in un particolare stato o funzione. Il soggetto grammaticale regge quindi un significato che eccede quello espresso nella proposizione. […] Il nome come soggetto grammaticale denota qualcosa ‘capace di entrare in certe relazioni’ ma non si identifica con le relazioni stesse[259].
 
L’esemplificazione di Marcuse rende evidente le implicazioni politiche di questo discorso filosofico, in un modo che non lascia distinguere questi due aspetti in modo netto. E anche questo, contra la falsa neutralità della filosofia positivista, è un tratto tipico del pensiero che tenta di criticare e superare dialetticamente ciò che si offre come “fatto”, “immediato” ecc.
 
Il Manifesto comunista fornisce un esempio classico. In esso ciascuno dei due termini chiave, borghesia e proletariato, ‘governa’ dei predicati contraddittori. La ‘borghesia’ è il soggetto del progresso tecnico, della liberazione, della conquista della natura, della creazione di ricchezza sociale, e della perversione e distruzione di questi risultati. In modo simile, il ‘proletariato’ regge gli attribuiti dell’oppressione totale e della sconfitta totale dell’oppressione. Tale relazione dialettica di termini opposti che si attua entro e per mezzo della proposizione è resa possibile dal riconoscimento del soggetto come agente storico la cui identità si costituisce in e contro la sua pratica storica, in e contro la sua realtà sociale. Il discorso sviluppa ed esprime il conflitto che esiste tra la cosa e la funzione, ed il conflitto trova espressione linguistica in frasi che uniscono predicati contraddittori in un’unità logica, controparte concettuale della realtà obbiettiva. In contrasto con ogni tipo di linguaggio orwelliano, la contraddizione è dimostrata, resta esplicita, spiegata e denunciata[260].
 
Questa eccedenza del concetto rispetto a ciò che esso designa nella realtà empirica (anzi, diciamo meglio: nell’immediatezza dell’esperienza sociale che costruisce un rapporto al soggetto in cui ciò che appare “empiricamente” è in realtà mediato) gioca un ruolo diverso in Soviet Marxism e nell’Uomo a una dimensione. “Bloccando lo sviluppo del concetto”, scrive Marcuse, “militando contro l’astrazione e la mediazione, arrendendosi ai fatti immediati, il comportamento linguistico respinge il riconoscimento dei fattori che operano dietro ai fatti ed in tal modo rifiuta di riconoscere i fatti ed il loro contenuto storico”[261]. Al tempo stesso esso riduce la tensione tra “essere” e “dover essere”, tra “essenza” e “apparenza”, tra “potenza” e “atto”: “sopprimere codesta dimensione nell’universo sociale della razionalità operativa significa sopprimere la storia, e questa non è una questione accademica bensì politica. Significa sopprimere il passato stesso della società ed il suo futuro, nella misura in cui il futuro invoca il mutamento qualitativo, la negazione del presente”[262]. Dunque il linguaggio unidimensionale con il suo blocco nella produzione di trascendenza a livello del significato rinforza un blocco nella realtà stessa, l’impossibilità di giungere a intravedere le cause del presente che viene così destoricizzato e presentato come un essere, immutabile e fisso.
In Soviet Marxism, al contrario, abbiamo visto come la rigidezza del linguaggio servisse a “salvare” la storia accumulata nei concetti marxiani. Allo stesso modo, se il capitalismo avanzato produce una progressiva riduzione del discorso e della realtà che gli corrisponde all’essere, cancellando ogni traccia di negatività e dunque di dover-essere, il discorso sovietico opera invece una fusione tra queste dimensioni: ciò che è va inteso sempre come una tensione, un movimento, dunque un dover-essere diretto alla realizzazione del comunismo. Se il discorso capitalista esorcizza il passato, per esorcizzare il futuro e “naturalizzare” il proprio modello sociale, quello sovietico esorcizza il futuro come rottura rivoluzionaria attraverso un uso strategico del passato, volto a giustificare un progresso lento e graduale verso la meta (mentre invece non esiste una “meta finale” nel keynesismo reale ma solo l’infinito sforzo di raggiungerla[263]). È chiaro che le due strategie convergono nello stabilizzare la società e la loro opposizione ideologica e militare finisce per intensificare questi processi di consolidamento e neutralizzazione delle contraddizioni. È però interessante mostrare come Marcuse tenga accuratamente distinti questi due processi.
 
L’operazionismo terapeutico e la dissidenza del concetto
Incredibilmente attuali sono le pagine che Marcuse dedica all’analisi della ricerca sociale orientata in senso operativo, laddove per operativo si intende la riduzione del concetto alla funzione e la tendenza a tradurre sempre il contenuto concettuale in operazioni chiaramente determinabili[264]. Potremmo definirlo un antesignano dell’algoritmo che trova a sua volta un padre nobile nella teoria di Turing e nelle “sequenze” in cui è possibile scomporre l’attività della mente. Ora, nel caso della ricerca sociale applicativa, osserva Marcuse, la “traduzione” dei problemi e la loro riduzione a sequenze di operazioni o stati di fatto determinati finisce non solo per falsificare il reale contenuto razionale di quei problemi (in senso critico-negativo rispetto alla razionalità sociale presente) ma ne rende anche impossibile una formulazione adeguata. Quando, per venire incontro alle proteste dei lavoratori, si organizza un gruppo di lavoro e questo, come prima cosa, chiede che le richieste vengano formulate in modo specifico, empiricamente determinato e controllabile, riducendone la “generalità”, ecco che il risultato guadagna in termini di operatività ma perde ogni riferimento ad una situazione universale in cui l’esperienza da cui era partita la protesta originariamente e in realtà tuttora si colloca. Quando si protesta per “condizioni di lavoro migliori” o “salari più adeguati” la traduzione di queste richieste nel contesto della singola azienda o come esigenza dei singoli lavoratori non fa che scindere la trascendenza implicita in quei concetti, il loro valore universale, e permetterne una traduzione che, non importa quanto efficace, ha come conseguenza l’immutabilità del contesto dato, anzi la sua accettazione preventiva. Non sono i “bagni sporchi” o le “difficoltà economiche di Tizio e Caio” che vengono espresse in quelle proteste o, meglio, non sono solo questo. Nella misura in cui la traduzione riesce, invece, tutto ciò che prima era contenuto in quei concetti universali, l’elemento assente delle relazioni societarie ma ben presente nella configurazione empirica data, scompare, il loro valore critico-negativo viene curato[265].
Ovviamente Marcuse non nega che questo tipo di ricerche possa essere utile e portare effettivamente miglioramenti nelle condizioni di vita dei lavoratori: resta però il fatto che la razionalità espressa in questi processi mostra tutta la sua ambiguità e contraddittorietà, poiché proprio ciò che, da un lato, produce un vantaggio particolare, dall’altro sembra contribuire a cementare la sciagura del tutto: la “razionalità ambivalente del progresso”, scrive infatti Marcuse, “soddisfa nel mentre esercita il suo potere repressivo e reprime mentre soddisfa”[266].
Altrettanto interessante e attuale è il riferimento alla valutazione dei “processi democratici” e dei meccanismi elettorali. Quando la democrazia smette di essere un concetto/processo universale e trascendente la realtà data per venir definita in termini funzionali desunti da questa stessa realtà, in modo da poterne testare l’efficienza, ecco che incorriamo in una bizzarra dinamica che quanto più rende “precisi” i termini del discorso, tanto più cancella ogni significato che potrebbe entrare in contraddizione con tale contesto.
 
Vincolata a questo quadro, l’indagine imbocca un circolo vizioso e tende a convalidarsi da sola. Se il senso di ‘democratico’ viene definito nei termini limitati ma realistici del processo elettorale in atto, allora tale processo appare democratico prima che si sappiano i risultati dell’indagine. Il quadro operativo, certo, permette ancora (ed anzi richiede) che si distingua tra consenso e manipolazione; l’elezione può essere più o meno democratica a seconda del grado di consenso e di manipolazione che viene rilevato. […] In altre parole essa non può formulare una domanda cruciale: se il consenso stesso non fosse opera di manipolazione. […] È precisamente un tale concetto non operativo che viene respinto dagli autori come ‘irrealistico’, in quanto definisce la democrazia in modo troppo avanzato, come il completo controllo del sistema di rappresentanza da parte dell’elettorato – il controllo popolare come sovranità popolare. E questo concetto non-operativo non è affatto un concetto estraneo. Non è per nulla un prodotto dell’immaginazione o del pensiero speculativo, ma anzi definisce l’intento storico della democrazia, le condizioni per le quali si combatté la lotta per la democrazia e che restano ancora da realizzare[267].
 
Anche l’attuale crisi della democrazia rappresentativa è stata spesso affrontata in termini operazionali, attraverso riforme volte a garantire “l’efficienza” del sistema a prescindere, anzi, talvolta, in netto contrasto con l’idea di una maggiore partecipazione popolare ai processi decisionali. Il che non significa, ovviamente, che il concetto di democrazia debba rimanere iperuranico e metafisico ma, al contrario, che il suo emergere dalle lotte storiche dell’umanità implica la necessità di collocarne il significato non all’interno del contesto dato, né in un’astratta trascendenza, quanto precisamente nel movimento che dal dentro conduce al fuori, nel divenire in cui secondo l’hegelismo interpretato materialisticamente da Marcuse, consiste il farsi della libertà reale della società e degli individui.
  
VII. Dialettica della razionalità tecnologica
 
Veniamo alla parte centrale, quella teoreticamente più complessa di One Dimensional Man. È probabilmente la parte più esposta, quella in cui i problemi della quantificazione, della scienza e della tecnologia vengono affrontati da Marcuse in modo che ha fatto fin da subito pensare ad un atteggiamento fondamentalmente “romantico” e “antimoderno”. Cercheremo di mostrare perché questa lettura è non solo errata, ma occulta gli aspetti teoreticamente più raffinati e politicamente più rilevanti della proposta marcusiana.
Lo sfondo teorico della teoria di queste pagine è la teoria del dominio elaborata da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo. Il nodo centrale di questa teoria non è l’elaborazione di un concetto “generico” di dominio (come ancora oggi troppo spesso accade in certi discorsi militanti che intendono la Critical Theory come teoria intersezionale della discriminazione e dell’oppressione) bensì una teoria della rottura inaugurata dalla modernità e alla razionalità tecnologica nel continuum storico che evidenzi 1) come i rapporti di classe vengano occultati dalla e nella stessa neutralità del metodo[268]; 2) come, in conseguenza di ciò, la base dello sfruttamento resti la dominazione della natura non umana come strumento per un perfezionato dominio sugli umani. Il dominio, cioè il controllo e lo sfruttamento dell’altro, può assumere così forme diverse e benché lo studio analitico di queste forme sia necessario esso non deve distrarre dal compito di vedere e comprendere anche la continuità che si dà al di sotto di quelle forme. Non per giustificare un qualche “pessimismo” circa la natura umana quanto, al contrario, per mostrare che l’essenza stessa di quel dominio è storica e quindi può essere trasformata, posto che si rimuova non solo la gerarchia di classe della cui perpetuazione esso si incarica, ma anche la riduzione della natura a pura materia a disposizione dell’uomo, presupposto della stessa riduzione dell’uomo a ente manipolabile a piacere[269].
 
La struttura della Ragione storica 
Marcuse ripercorre le tappe fondamentali della logica antica, dalla dialettica di Platone alla formalizzazione aristotelica, fino alle moderne filosofie analitiche del linguaggio, mostrando il passaggio da ciò che chiama “pensiero negativo” al “pensiero positivo”. Contrariamente a quanto sostenuto, ad es. da Colletti, questa dicotomia non può essere sovrapposta a quella tra metafisica ed empiria, ragione e intelletto, Vernunft e Verstand, filosofia e scienza[270] ecc. Come abbiamo già visto, infatti, la Ragione esprime “la struttura antagonistica della realtà e del pensiero che cerca di comprenderla. Il mondo dell’esperienza immediata – il mondo in cui ci troviamo a vivere – deve essere compreso, trasformato, anzi sovvertito al fine di diventare ciò che realmente è”; è a partire da questa concezione che Marcuse identifica “l’universo totalitario della razionalità tecnologica” come “l’ultima incarnazione dell’idea di Ragione” [271]. Ma in che senso il mondo compreso dalla ragione deve diventare ciò che realmente è? Marcuse sintetizza la questione dell’essere e del non-essere (dell’on e del me on) come la capacità del pensiero di non accettare il dato, il fatto, l’esperienza immediata ma cercare ciò che li spiega, li produce, la sintesi dell’esperienza che trova un senso al di fuori di una passiva accettazione dell’esistente. Che sia l’arché, il numero pitagorico o l’eidos platonico la dimensione epistemologica della filosofia – la ricerca del mondo vero - ha originariamente a che fare con la sua dimensione etica – la denuncia del mondo falso, la ricerca della buona vita[272].
Ciò che Marcuse definisce come Ragione e che vede all’opera già nell’antichità rappresenta ovviamente una costruzione a posteriori. È a partire dagli esiti della razionalità nell’occidente capitalistico che Marcuse ripercorre questa storia cercando di evidenziarne le caratteristiche strutturali, così come i conflitti interni. E questo vale per tutte le figure che attraversano le pagine di Marcuse – il filosofo greco, il chierico medievale, l’artista borghese – si tratta sempre di operare una ricostruzione critica della Ragione che faccia salve, a un tempo, la molteplicità delle sue forme ma anche la sostanziale continuità del suo operare in quanto potenza che agisce nella società e che è definita dalle relazioni di potere della società stessa. Il passaggio, ad es., dalla “dialettica ontologica” alla “dialettica storica” va inteso nel senso di comprendere a partire da Hegel e Marx ciò che si annuncia già in Platone. Questo passaggio, quindi, guida Marcuse nel momento stesso in cui schizza il pensiero antico e la dialettica platonica come pensiero del negativo, laddove si intende un pensiero che cerca la verità di questo mondo al di fuori del mondo o, che è lo stesso, un pensiero che pensa non si possa esprimere la verità sul mondo con i termini, le esperienze e le apparenze che questo mondo presenta al soggetto. Contrariamente all’operazione tutta ideologica di Popper – da Marcuse ferocemente demolita[273] – non c’è qui pretesa di affermare “ciò che ha veramente detto Platone”, a meno che con “veramente” non si intenda ciò che il suo pensiero può offrire allo svelamento della verità e alla realizzazione della libertà oggi[274].
La Ragione è la struttura dinamica del rapporto tra uomo e natura, nonché della società che media e sviluppa quell’antagonismo a partire dai propri conflitti interni. Dunque la “filosofia” di cui qui parla Marcuse non è il puro filosofare, né il Denken heideggeriano, né tanto meno un pensiero formale e anonimo. Come abbiamo visto, il pensiero si dà dentro una realtà conflittuale e prende posizione a partire dai conflitti che lo formano e lo attraversano. Il momento dell’universale, che pure lo costringe a rendere comprensibili le proprie istanze, se viene preso astrattamente tende a cancellare quei conflitti e quelle contraddizioni, mentre esso ha il compito di incamerarli ed esprimerli. La loro soluzione è ravvisabile solo attraverso una razionalità pratica che si ponga oltre l’orizzonte del presente, oltre ciò che produce quei conflitti. In tal senso, scrive Marcuse, il giudizio è parte essenziale e ineliminabile del pensiero[275].
La ragione dialettica si colloca nel punto di indistinzione tra la razionalità pretecnologica e quella tecnologica per determinarne la mediazione irrisolta, la continuità del dominio sotto mentite spoglie. Lo stesso giudizio storicamente determinato costringe infatti a condannare la falsa coscienza che si accompagna all’intera storia della razionalità e dunque anche alla filosofia che pretende farle da interprete. Perché la realtà che viene trascesa dal pensiero filosofico classico è una realtà di bisogno – l’ananke – quindi di ingiustizia e oppressione. E la scelta della filosofia per un mondo trascendente e metafisico in cui quei mali vengono compensati e salvati in un’esistenza più vera non dice solo che il pensiero abdica alla propria funzione critica e lascia il mondo così com’è. Dice anche che esso è espressione di un privilegio, che nella sua “purezza”, nel suo “disinteresse”, nella sua “indifferenza” nei confronti del mondo empirico si sostanzia anche la divisione del lavoro sociale e la violenza di classe. Nel pathos della trascendenza, nella sua indifferenza verso il particolare e il sensibile che dovrebbe garantire una maggiore verità all’universale si anticipa quell’indifferenza meccanica verso l’individuale che si fa spietatezza quando questo non ha potere sull’universale che sotto di sé lo sussume. È solo tenendo fede alla propria vocazione per la verità tutta intera, per un universale realizzato e, dunque, con un rovesciamento auto-critico anche rispetto alla propria dipendenza dal tutto sociale che la filosofia può emanciparsi da questa colpa.
 
La teleologia nascosta del meccanicismo 
Questa continuità tra “lo stadio tecnologico e quello pretecnologico”[276] è essenziale per intendere il discorso di Marcuse. Il passaggio dal “pensiero negativo” al “pensiero positivo”, infatti, si compie già all’interno dell’epoca pretecnologica, non coincide affatto con il passaggio dal mondo premoderno al mondo moderno[277]. Anzi, è proprio da quella che sopra abbiamo chiamato “falsa coscienza” della filosofia che doveva trarre vigore la aperta dal pensiero scientifico moderno. La sintesi filosofica tra verità e bene, infatti, non poteva che apparire in tutta la sua miseria reale: “il pensiero scientifico doveva spezzare tale unione tra giudizio di valore e analisi, poiché divenne via via più evidente che i valori filosofici non guidavano l’organizzazione della società, né la trasformazione della natura. Essi erano inefficaci, irreali. Già la concezione greca contiene un elemento storico: l’essenza dell’uomo è differente nello schiavo e nel libero cittadino, nel greco e nel barbaro”[278]. In questo modo, la maggiore efficacia garantita al pensiero dalla scienza e l’universalità del pensiero illuministico dovevano rovesciare di segno quell’irrealtà, salvo realizzarsi in un contesto sociale ancora caratterizzato dalla stessa violenza e oppressione. L’elemento di continuità tra il pretecnologico e il tecnologico, mai tematizzato o tematizzato solo in modo formale, sta proprio nel dominio che struttura alla radice la società, inclusa l’organizzazione del sapere in tutte le sue forme. “La linea divisoria tra lo stadio pretecnologico e quello tecnologico è piuttosto da vedersi nel modo in cui viene organizzata la subordinazione alle necessità della vita – il ‘guadagnarsi da vivere’ – e nei nuovi modi di libertà e non libertà, verità e falsità che corrispondono a tale organizzazione”[279].
La breve analisi che Marcuse riserva alla formalizzazione della logica in Aristotele intende proprio evidenziare come questa continuità si produca dal lato del pensiero. Qui, l’impotenza reale della filosofia si traduce in una sua sublimazione che “procede a costruire un regno della Ragione purgato da ogni contingenza empirica”[280]. In un certo senso, e paradossalmente, il realismo aristotelico, qui in senso politico non ontologico, corrisponde perfettamente all’esigenza di una maggiore formalizzazione della Ragione, di una sua traduzione in compiti e fini determinati.
 
Nella logica formale, il pensiero è indifferente verso i propri oggetti. Siano essi mentali o fisici, pertengano alla società o alla natura, essi vengono assoggettati alle medesime leggi generali di organizzazione, calcolo, e conclusione. […] La Metafisica di Aristotele afferma la connessione tra concetto e controllo: la conoscenza delle ‘cause prime’ è – come conoscenza universale – la più efficace e sicura delle conoscenze, poiché disporre delle cause significa disporre dei loro effetti. […] Sotto il governo della logica formale, la nozione di conflitto tra essenza ed apparenza è del tutto inutile se non priva di significato; il contenuto materiale è neutralizzato; il principio di identità è separato dal principio di contraddizione (le contraddizioni sono la macchia di un modo di pensare scorretto); le cause finali sono rimosse dall’ordine logico[281]
 
Si possono certo contestare storicamente alcune di queste affermazioni di Marcuse rispetto ad Aristotele ma non la correttezza generale del suo ragionamento, ovvero 1) il ruolo svolto dal formalismo logico, inaugurato dallo Stagirita, nel disinnescare – attraverso la costituzione di un soggetto puro, monadologico e disincarnato – le pretese di una Ragione che si pone come metro di misura e di giudizio della realtà sociale[282]; 2) l’importanza che questa formalizzazione ha per un pensiero che si concepisce come organizzazione, manipolazione e dominio di un contenuto indifferente: ovvero la sua rilevanza nell’emergere di una prassi tecnologica universale sotto forma di mathesis. La logica è la techne che costruisce il pensiero a prescindere dai suoi fini, intendendo la correttezza delle sue concatenazioni formali come unico criterio di validità. Una forma della razionalità che circoscrive il proprio ambito e condanna come irrilevante o erroneo tutto ciò che ad esso non si conforma. Un pensiero che per la sua stessa forma impedisce di parlare di una contraddizione reale, nelle cose, attribuendola ad un auto-inganno del soggetto[283].
Questo svuotamento di contenuto che accompagna il passaggio dal pensiero negativo al pensiero positivo si rivela così analogo a quello tra Ragione oggettiva e soggettiva in Eclipse of Reason di Horkheimer[284]. A questo punto, infatti, Marcuse riprende il tema dei paradossi che si legano al progresso nella civiltà industriale avanzata. È come se, laddove nella Ragione classica la verità e il bene, rimanendo trascendenti, finivano per assolvere il male del mondo, in quella moderna verità e bene una volta posti in un piano di immanenza e tradotti in validità/esattezza ed efficienza, risultino al tempo stesso più produttivi e più distruttivi, leghino inscindibilmente il benessere e la repressione, la libertà e la manipolazione. Inoltre, sembra non ci sia fine alla possibilità di giustificare ogni arbitrio e crimine nei termini della razionalità vigente, come se non esistesse più un fuori da cui poter misurare l’orrore. È troppo semplicistico, scrive Marcuse, spiegare tali fenomeni come un’errata “applicazione” di un modello di Ragione in sé senza difetti: forse qualcosa di irrazionale a livello teorico finisce per ritrovarsi in quell’irrazionalità pratica.
L’analisi di Marcuse svela la natura intrinsecamente dialettica di questo passaggio. Solo la dialettica permette quell’autoriflessione della Ragione che chiarisce, come abbiamo visto, tanto la continuità quanto la discontinuità tra la razionalità pretecnologica e quella tecnologica. A cominciare dal problema della distinzione tra fatti e valori. La forma teorica della scienza moderna, infatti, è strutturalmente impermeabile alle questioni etiche. Marcuse sintetizza questo passaggio alludendo all’eliminazione delle “cause finali” dall’orizzonte della fisica[285]. Qui il discorso sulla teleologia va inteso soprattutto in senso storico, più che naturale, dunque come tendenza a porre un orizzonte dei fini. Ancora una volta, notiamo come Marcuse ribadisca che questa scissione tra il piano teorico e quello etico trova un suo corrispettivo nella filosofia classica e precisamente in quella natura elitaria e disincarnata del soggetto filosofico che tanto più si eleva in una sfera teorica posta al di sopra del mondo tanto più lascia intatto quel male sociale cui, tra l’altro, deve la sua stessa possibilità di elevazione. Il regno dei fini trascendente è l’altra faccia di un regno della necessità abbandonato alla sua illibertà. Quando dunque nel meccanicismo natura e società finiscono per assolvere i propri compiti al di là di qualsiasi finalità, come mero movimento di materia non libero, la necessità propria di questo mondo che la ragione freddamente registra, non si distingue da quella del mondo pretecnologico. Inversamente, la sfera della libertà e dei fini viene qui salvata ma in una dimensione interiore o trascendente – la differenza è inessenziale – cioè come “valori”, qualcosa di strutturalmente soggettivo e irreale. Al di là della razionalità tecnologica è possibile quindi coltivare solo una ragione soggettiva che però soffre della propria impotenza, della propria impossibilità a tradursi in termini oggettivi senza dissolversi di nuovo in compito tecnico.
Un analogo rovesciamento dialettico concerne anche la natura di quella “oggettività” prodotta dalla scienza che non sembra potersi costituire senza continuamente scivolare verso una paradossale riduzione al soggetto. Tanto la traduzione delle leggi fisiche in formule matematiche quanto le espressioni che caratterizzano gli “oggetti” della fisica teorica – “avvenimenti”, “relazioni”, “proiezioni”, “possibilità”[286] – non sembrano avere senso se non in relazione ad un soggetto, tanto che Marcuse parla di un “elemento idealistico”[287] contro cui si scontra l’epistemologia contemporanea. Anche quando, come nel razionalismo popperiano, si parte dall’assunto di una realtà indipendente dall’osservatore, l’elemento scettico-soggettivo non viene scalzato: che ne è della realtà se l’oggetto si dissolve nelle sue relazioni, se la scoperta disvela strati ulteriori dell’essere senza che vi sia alcuna certezza dell’esistenza di un nucleo centrale al di là di essi? Laddove l’idealismo hegeliano aveva ancora posto una tensione tra il soggetto e l’oggetto, la scienza procede a revocare il carattere “contestatorio”[288] della materia, l’autonomia dell’oggetto: perfino il dualismo tra res cogitans e res extensa finisce per risolversi in un processo monodimensionale mano a mano che l’estraneità della res extensa viene ad assimilarsi al soggetto che ne indaga le leggi e se ne appropria.
Al centro di questo processo c’è ciò che Marcuse chiama a priori tecnologico, l’idea, suggerita da Bachelard, secondo cui il soggetto pone la tecnica al centro della natura stessa, nel senso che già a livello teorico la natura è pensata nella forma della techne, cioè ha in sé un nucleo strumentale, si costituisce come oggetto – e dunque si volatilizza come alterità – tramite l’azione trasformativa dell’uomo. La civiltà delle macchine, da questo punto di vista, non è che un effetto di uno strumentalismo teorico; a sua volta l’a priori tecnologico corrisponde ad un a priori politico, è la messa in esecuzione di un progetto storico, di un “mondo”. Marcuse intende così mostrare che esiste una strumentalità intera alla scienza che si costituisce nel suo stesso modo di fare esperienza della realtà.
Per dimostrare questo assunto occorre compiere un doppio movimento teorico. Da un lato, come abbiamo detto, si registra come la “materia” sembri “esistere”– nei termini della fisica – solo per come essa si manifesta nel contesto sperimentale, dunque in una specifica forma di interazione tra il soggetto e la natura, fatta di costituzione matematica dell’oggetto e di intervento operativo su di esso, ciò che permette di parlare di una sorta di intuizione tecnologica a priori della fisica. In che modo e in che senso quest’ultima si distingue dall’intuizione dell’esperienza mondana? Come vedremo questo punto è centrale e andrà approfondito. D’altro lato, fa parte di questo a priori anche la mancanza di qualsiasi telos, di una originaria “neutralità”, tanto del soggetto quanto dell’oggetto. Ora, la questione decisiva, osserva Marcuse, è che proprio questi due aspetti non solo hanno reso storicamente la scienza adeguata alle esigenze di una certa organizzazione sociale ma hanno contribuito e contribuiscono a riprodurre quest’ultima. Che tale evoluzione del sapere tecnologico sia andata di pari passo con l’evoluzione della società borghese, in cui gli individui, rotti i legami “personali” finiscono per essere identificati e determinati socialmente dalla legge dello scambio di equivalenti con la conseguente quantificazione degli aspetti principali della vita sociale, non è probabilmente un caso[289].
Proprio qui Marcuse mostra quanto la sua analisi sia avanti anni luce rispetto ad ogni critica astratta o apocalittica della scienza, purtroppo comune anche a sinistra. Perché Marcuse ribadisce che non esiste un dominio in-sé. Dunque non è possibile pensare che l’esigenza di dominio che si esprime nella tecnica sia qualcosa che si aggiunge ad essa o, peggio, una qualità innata dell’essere umano. Il dominio è sempre un dominio specifico, di un certo gruppo o di una certa classe sul resto della società e sulla natura. L’avventura della scienza non avviene in un “vuoto” sociale e storico, ma a partire da un contesto con una sua teleologia intrinseca. La questione è se la nuova forma della Ragione respinga questa teleologia o la confermi. In altre parole, se la scienza e la razionalità tecnologica nascono e confluiscono strutturalmente in questo “universo di controllo produttivo mosso dal proprio stesso impulso” [290] oppure se lo contestano. Abbiamo visto che non è proprio di questa forma della razionalità operare una negazione della realtà data, nessun progresso tecnologico arriva a contestare e sovvertire l’ordine sociale in cui questa forma stessa di progresso storicamente e socialmente sorge. La razionalità tecnologica che si afferma in una società finalizzata al dominio quanto più si svuota del problema dei fini tanto più contribuisce alla realizzazione di quelli della società in cui si sviluppa. La storicità della ragione spinge a pensare che “il concetto di ragione tecnica è forse esso stesso ideologia”[291]. In un certo senso, una razionalità tecnologica non si è ancora data esattamente come una società tecnologica che potrebbe disporre liberamente delle proprie potenzialità tecnico-scientifiche. Viceversa, la scienza contribuisce piuttosto con i suoi successi a dimostrare l’impossibilità “tecnica” di una libertà che pretenda di contestare razionalmente questa società, poiché una Ragione che non si traduca nella forma tecnica che cancella i fini trascendenti, si riduce eo ipso ad un’impotente e inconsistente desiderio.
L’argomentazione di Marcuse vuole mostrare che questo accordo tra la Ragione teorica e quella pratica avviene a partire da una certa forma specifica dell’astrazione. Respingendo la teoria di Piaget – che vorrebbe fissare nella biologia umana l’origine dei concetti matematici alla base delle nuove scienze della natura – Marcuse si volge alle pagine della Krisis di Husserl dedicate alla matematizzazione della fisica operata da Galilei. L’argomentazione di Husserl interessa Marcuse non solo e non tanto perché mette in campo una considerazione di tipo storico-sociale, ma perché trasla questo piano dell’azione sociale e storica nella struttura stessa del soggetto della scienza. Husserl stabilisce una correlazione tra l’esperienza empirica e la sua idealizzazione matematica scorgendo nella pratica pre-scientifica il presupposto taciuto della matematizzazione. Un’operazione che, come noto, Husserl definisce di “occultamento”. La matematizzazione non ha quindi un “valore assoluto” o, meglio, lo ha ma solo in quanto idealizza un’attività pratica che ha la sua origine storica e il suo senso ideale-trascendentale nella Lebenswelt. La “misurazione” è così la pratica empirica che attraverso un’astrazione specifica – quella che nell’algebra e nella logica produce un’attività ideale di misurazione “perfetta”, “esatta”, “assoluta” – finisce per tornare ad agire sulla Lebenswelt in forma nuova, simbolizzata e nascosta. Ma questa “idealizzazione della Lebenswelt” non fa altro che riprodurre in modo inconsapevole una pratica della “anticipazione” e del “progetto” che lì aveva ed ha la propria origine. Ecco che quindi la “precisione” e la “fungibilità” che acquisiscono ora un valore universale non sono effetti della scienza quanto parti costitutive del suo nucleo teorico ereditate dalla prassi empirica. La costruzione metodica e sistematica di un universo di oggetti matematizzati non fa che riprodurre a livello ideale una forma specifica dell’anticipazione. Che la riduzione quantitativa della natura e degli uomini costituisca la premessa di un migliore dominio su di essi non è un caso ma una necessità che la ragione teorica eredita dalla pratica sociale.
È importante notare come Marcuse rifugga da un’ipotesi di soluzione “filosofica” del problema posto dalla Krisis il che non riguarda solo il suo interesse politico alla rivoluzione dell’esistente – evidentemente assente in Husserl – ma un diverso e perfino opposto interesse teorico. Laddove il testo di Husserl è costellato di espressioni che fanno riferimento alla “attualità” e alla natura “vivente” della conoscenza, con frequenti riferimenti alla necessità di “riempire” gli schemi ideativi della matematizzazione, lasciando così intendere che il problema (e dunque la soluzione) risieda a livello della Sinngebung, nel testo di Marcuse tutto questo è programmaticamente assente. Anche laddove sarebbe agevole per Marcuse tradurre questo discorso nel linguaggio a lui familiare della reificazione, è significativo che ciò non avvenga. Ciò viene spiegato da Marcuse nella conferenza Sulla scienza e la Fenomenologia. Husserl arriva a sfiorare il problema della reificazione – cioè di un’analisi del soggetto-oggetto che arrivi a dischiudere nell’oggetto l’attività perduta del soggetto – ma non la porta a compimento[292]. L’analisi husserliana non viene infatti seguita da Marcuse fino alla sua conclusione tramite la doppia riduzione dell’ideale e dell’empirico e la conseguente costituzione del soggetto trascendentale: questo compimento è piuttosto illusorio e ricade nella stessa falsa idealizzazione che ha preteso criticare nella scienza.  È chiaro infatti che Marcuse, come abbiamo visto, muove da una teoria del soggetto non riducibile alla coscienza pura, perché la soggettività si costituisce al di fuori di una concezione monadologica e neutrale – ovvero come umanità sempre collocata storicamente e socialmente nei conflitti che definiscono il suo orizzonte di senso e di libertà – dunque inevitabilmente sempre determinato anche dalla prassi. L’attività costituente, come abbiamo visto, la vera sinngebende Leistung non può che essere l’attività di un soggetto storico collettivo[293].
Ora, occorre prendere in parola Marcuse quando dice che il suo interesse per la critica husserliana non è “sociologico” e quando mette in guarda da una interpretazione sociologistica, “esterna” del nesso società-scienza[294]. Mentre l’analisi di Husserl vuole essere filosofica, collocarsi al centro della costruzione dell’oggetto scientifico per evidenziarne la genesi storica e, tramite una regressione, arrivare alla costituzione genetica pura di ogni oggetto possibile in un soggetto trascendentale[295], Marcuse considera l’orizzonte del conflitto di classe storico – in cui tanto la scienza, quanto la fenomenologia si collocano – il piano su cui va posta l’analisi critica. La teoria marcusiana del soggetto non è o comunque non vuole essere, a sua volta, sociologistica o storicistica perché pretende correggere l’idealismo fenomenologico attraverso la teoria critica della soggettività che abbiamo già discusso.
 
La qualità come resistenza nella natura 
Per quanto concerne il problema del rapporto tra qualitativo e quantitativo possiamo osservare come si ritrovi qui lo stesso argomento visto in precedenza: la qualità è un modo di darsi della negazione, ha un valore e un significato in termini di antagonismo. Potrebbe infatti sembrare, ed è lo stesso Marcuse a dirlo, che il suo discorso voglia incoraggiare un ritorno della fisica “qualitativa” o addirittura di una forma di aristotelismo o tomismo. Marcuse bolla tutto questo come “oscurantismo”[296].
In effetti, a livello della costituzione della scienza il problema della qualità si mostra in modo essenzialmente diverso da come esso viene posto in senso eminentemente politico-economico. Non è un caso che ciò che l’analisi di Husserl definisce problema delle “qualità specifiche di senso”[297]– ovvero della traducibilità dei plena dell’esperienza nelle oggettività ideali della matematica – non venga ripreso da Marcuse. Ciò che interessa Marcuse è piuttosto, come visto, la possibilità negata: la qualità è ciò che nell’oggetto resiste all’assimilazione del soggetto dominatore. La qualità è dunque come sempre una forma della contraddizione, un modo di darsi della negazione, il corrispettivo di un antagonismo. La natura è ciò che resiste alla sua riduzione quantitativa ed emerge come tale solo in questa resistenza, non come un mondo pretecnologico di qualità perdute.
Sarebbe stato agevole per Marcuse legare il tema della quantificazione a quello della perdita di qualità della Lebenswelt, il problema dell’oggettivazione matematica a quello della reificazione e quindi della costruzione di un mondo astratto al di sopra del mondo reale empirico per tradurre la sua critica alla scienza in termini politici, in modo non dissimile da ciò che accade spesso nella sinistra antagonista o nei suoi omologhi reazionari. È decisivo che non sia così. Il problema della qualità si pone qui non tanto a livello di ciò che viene dimenticato dalla ricerca scientifica quanto piuttosto di ciò che viene precluso da essa. Non il passato, ma il futuro, quindi.
Inoltre, non è mai la qualità di un mondo prescientifico ciò che impedisce la costruzione integrale dell’oggetto matematizzato quanto, al contrario, l’orizzonte del mondo-della-vita con le sue qualità storicamente determinate che finisce per installarsi nel cuore nella quantificazione scientifica. In altri termini, ciò significa una persistenza del qualitativo, il suo riflesso in una logica della quantificazione orientata al dominio che non può essere spezzata da una quantificazione che sorga dalla logica del suo stesso soggetto istituente, poiché questo soggetto non è altro che una superfetazione della soggettività sociale al cui servizio si pone. La quantificazione è effetto di una qualità rimossa. E così, ogni “rottura epistemologica” opera una nuova sintesi che riproduce l’identico come una coazione a ripetere.  
È in questo senso che Marcuse, interpretando in modo volutamente forzato un passo di Husserl, sostiene che la matematizzazione della natura lascia intatto lo “stile causale” dell’esperienza empirica. La mathesis universalis, nonostante ogni “rivoluzionamento” della vita, non altera la struttura sociale e quindi non permette ma anzi impedisce il sorgere di un mondo qualitativamente altro rispetto a quella struttura sociale. Se la quantificazione fa sparire le qualità individuali è perché esse sono ciò che si oppone alla manipolabilità, alla traduzione integrale del mondo-della-vita in una sfera dell’essere infinito di oggetti a disposizione della teleologia sociale del dominio. Allo stesso modo, delle “nuove” qualità sorgono solo dalla resistenza alla sussunzione in questo meccanismo sociale. La scienza impedisce di vedere nuovi rapporti qualitativi nel senso della negazione del mondo dato, non delle “qualità” pre-scientifiche che erano legate all’orizzonte del dominio pre-tecnologico. È questo che sta alla base dell’affermazione secondo cui la scienza non può trascendere la Lebenswelt da cui si origina.
Marcuse sostiene perciò che il progresso tecnologico rappresenta un movimento circolare, uno strumento della stasi e della conservazione, poiché perfino la sua più incredibile potenza costruttiva e distruttiva avviene sempre in accordo ad un’esperienza e ad un’organizzazione specifica della realtà. Questo non significa negare oggettività e validità alla scienza ma mostrare come solo il sovvertimento della Ragione[298] come operazione politica possa liberare la stessa scienza dai suoi limiti interni e dare un senso determinato a quella svolta “qualitativa” della stessa scienza che sembra altrimenti condannata a vagheggiamenti mistici. Nelle ultime visionarie ma conseguenti pagine dell’Uomo a una dimensione, Marcuse si spinge a dire che un cambiamento nella base sociale della razionalità tecnologica potrebbe portare ad un superamento di quel dissidio tra scienza ed etica da cui abbiamo preso le mosse. Già oggi, seppure in forma distorta, la metafisica tende a diventare fisica, si prepara cioè la “traduzione dei valori in compiti tecnici[299], una materializzazione dei valori che non a caso ricorda l’esteriorizzazione dell’etica di cui aveva parlato in Soviet Marxism. Una scienza liberata dal capitale rende di nuovo possibile le cause finali. La calcolabilità della buona vita è un obiettivo possibile una volta che la tecnica diventi finalistica, politica in modo consapevole. La “misteriosità” e “vaghezza” dei valori è conseguenza della incompletezza della tecnica nella configurazione sociale attuale, il limite al suo universalismo determinato dagli interessi particolari che la condizionano. Verrebbe finalmente superata l’antinomia fra finalità formali e materiali[300].
È possibile mostrare un esempio lampante di cosa questo voglia dire – e, come vedremo, sarà una delle intuizioni più profonde di Marcuse – se pensiamo a come la ricerca scientifica influenzi il nostro rapporto con la natura non-umana e, segnatamente, col mondo animale. Analogamente a quanto sostenuto da Marx, secondo cui Descartes guarda gli animali con gli occhi “del periodo della manifattura”, la concezione meccanicistica del vivente ha caratterizzato secoli di sviluppo tecnologico, di crescita del benessere perfino di conoscenza oggettiva della natura animale che sarebbe sciocco negare o svilire. E tuttavia si mostra qui una contraddizione nella struttura stessa della scienza che non può essere risolta nei suoi termini poiché attiene ad un rapporto qualitativamente diverso col vivente stesso. E quest’ultimo ha piuttosto a che fare con un cambiamento nell’organizzazione della vita sociale che con la ricerca in laboratorio. È ormai noto quanto una concezione meccanicistica dell’animale abbia ritardato scoperte importanti in sede etologica, riducendo in modo sconsiderato e pregiudizievole la complessità della mente, del comportamento e della cultura animali. Alla base di quel meccanicismo c’era e c’è, infatti, un antropocentrismo che non si distingue di fatto da quello dello spiritualismo che lo ha preceduto. Ma la stessa cosa accade quando, nella linea che da La Mettrie conduce all’odierna neuromania, si pretende di vedere nell’estensione all’umanità degli stessi schemi interpretativi il superamento di quell’antropocentrismo, come se la riduzione macchinica della mente e dell’agency umana fosse la soluzione. In realtà è parte del problema perché non solo non rimuove l’antropocentrismo pratico che caratterizza alla radice tutte le società umane ma addirittura ne rende impossibile la diagnosi e la demolizione. Non c’è sostanziale differenza tra la dissoluzione dell’umano in natura operata dal cinico positivista e quella dell’hippie mistico, entrambi incapaci di concepire l’unità e la differenza tra l’umano e il suo altro non in termini statico-cosali ma come divenire e come relazione e rapporto. Si preferisce infatti silenziare la mente umana piuttosto che elevare quella animale al rango di soggetto perché in tal modo si sarebbe costretti ad affrontare i paradossi e le abissali conseguenze che ciò comporterebbe per la razionalità sociale in cui viviamo. È meglio cancellare ogni contraddizione e ogni conflitto piuttosto che ammettere che solo essi danno un senso alla libertà. Questo tema occuperà l’ultima parte di questa ricostruzione del pensiero marcusiano.
 
VIII. Thanatos e civiltà
 
In-attualità di Freud
Dopo la grande sintesi hegeliana di Ragione e rivoluzione, come noto, Marcuse incamerò nel proprio apparato concettuale elementi tratti dalla psicoanalisi. Il primo grande frutto di questo confronto con Freud fu Eros e civiltà. Non era una novità assoluta: già negli anni ‘30 l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte si era avvalso del lavoro di Erich Fromm e anche dopo la rottura con Fromm, tanto Adorno che Horkheimer ricorsero a concetti psicoanalitici nelle loro opere. Prima di affrontare la specificità del discorso marcusiano introduciamo brevemente quelli che ci sembrano essere i motivi persistenti della sua attualità.
Il lavoro svolto da Marcuse su Freud rimane interessante nonostante il, o forse proprio grazie al, progressivo declino della psicoanalisi dall’orizzonte culturale di oggi. Viviamo in un mondo, infatti, in cui la psicoanalisi ha cessato di essere “socialmente e scientificamente rispettabile”[301]. Quella di Marcuse non è però una riflessione che si apre a questioni sociali e politiche a partire dalla clinica (come in Lacan), né si ispira ad un’idea militante di sovversione dell’istituzione (come in Guattari). Era e voleva essere una riflessione su alcuni nodi del pensiero freudiano nel tentativo di rendere questi concetti spendibili per una teoria critica della società. In particolar modo, essi dovevano servire a creare un ponte tra la dimensione individuale dell’esperienza e quella sociale. In questo senso Marcuse si appropria di quei concetti all’interno del proprio discorso e, così facendo, si immunizza dalla perdurante eclisse della psicoanalisi come disciplina.
Si potrebbe dire che la teoria freudiana è morta perché assimilandosi ed integrandosi[302] si è ridotta ad una tecnica che non solo rimane indietro rispetto alle esigenze dell’efficienza della società attuale ma perché in questa sua traduzione risulta sempre più insostenibile epistemologicamente. Il discorso di Freud aveva invece una sua intrinseca “apertura” che viene meglio colta dal lavoro di appropriazione marcusiano che da qualsiasi ortodossia o eterodossia che però si muovono dentro i confini di una pratica clinica e, dunque, di una techne costretta a sottostare a criteri di giudizio sistemici ed empirici.
 
Eros e rivoluzione sessuale 
Riconsiderare l’apporto di Freud alla teoria di Marcuse negli anni ’50-’60 è però importante anche perché ci permette di comprendere meglio il rapporto della Teoria critica con la Nuova Sinistra, i limiti, le ambiguità e anche gli errori che sono nati da questo incontro. In particolar modo, va fatto un lavoro di ricostruzione della teoria marcusiana che è in gran parte una sua ri-complessificazione, possiamo dire, nella misura in cui Marcuse stesso ammise di aver cercato di “popolarizzare” la Teoria critica per permetterle di avere una maggiore penetrazione sociale[303]. L’elemento che forse andrebbe maggiormente sottolineato oggi è probabilmente l’importanza, direi la centralità, che Marcuse attribuisce all’istinto di morte, in accordo con Freud e contro le eresie e le ortodossie di destra e di sinistra. Contrariamente a quanto è potuto sembrare ad alcuni, Marcuse non è Brown, né ovviamente Reich. Egli criticò fortemente le derive “mistiche” del primo[304] e il “primitivismo”[305] del secondo. In particolar modo, fu sempre avverso all’influsso di questi autori sul movimento di contestazione, l’esaltazione della sessualità come forza “naturale” liberatrice: al contrario, per Marcuse, l’eros è sempre “storico”[306] e la sua funzione progressiva o regressiva non è la causa di certi fenomeni sociali (ad es. il fascismo), al contrario sono piuttosto le caratteristiche sociali delle masse a determinare tale funzione[307]. Al di fuori di un contesto politico chiaro, il discorso sulla sessualità diventa escapism[308] o mercificazione interessata di sette organizzate[309].
Tuttavia, va anche detto che mentre in Eros e civiltà il ruolo dell’istinto di morte è sempre fondamentale e la dialettica con l’eros sempre giocata in modo sfumato e mai banale – all’interno di una concezione della vita che è fatta anche di thanatos, in cui cioè l’istinto di morte svolge anche una funzione progressiva – negli scritti successivi, già a partire dalla famosa “Prefazione politica” del 1966, questa accentuazione tende a lasciare il passo ad un’esaltazione esclusiva dell’eros. Assistiamo ad una focalizzazione sull’eros che facilmente si presta ad una confusione con la liberazione sessuale reichianamente intesa, certo non solo per colpa di Marcuse – che, come visto, se ne avvide e cercò di evitare certi fraintendimenti – ma sicuramente anche per una certa marginalizzazione di thanatos e per l’emergere di una teoria forse troppo unilaterale dell’eros. Ci troviamo probabilmente di fronte ad un duplice effetto, da un lato, la semplificazione teorica operata da Marcuse ma anche, dall’altro, il linguaggio hippie con la centralità data al tema dell’amore (la Summer of love esplode, non a caso nel 1967).
Nonostante la “cattiva immediatezza”[310] che ne derivò, l’incontro era necessario. Quel che fondamentalmente interessava Marcuse nella rivolta giovanile è ciò che egli chiamò una “desublimazione della cultura”[311] cioè una critica pratica di quei valori tradizionali dell’umanesimo che avevano perso la propria funzione negativa e trascendente: la libertà come “interiorità”, l’uguaglianza “astratta” davanti a un Dio o una Legge, dunque una resa rispetto all’esistente[312]. I giovani praticano un comportamento critico-negativo che tenta di trascendere i limiti della razionalità soggettiva, l’impossibilità della sfera privata, di un’etica interiore, completamente irreale e impotente. Quando però questa polemica si tinge di anti-intellettualismo e pretende di essere di per sé la rivoluzione di cui costituisce solo un elemento, pure importante, ecco che l’attivismo si fa fine a sé stesso e perde a sua volta consistenza. Il punto, ribadisce invece Marcuse, è “sovvertire il modo e la direzione della produzione”[313]. Anzi, la “prima fase” della trasformazione non può che essere la riappropriazione del tempo di lavoro[314]. La critica agli estremismi della Nuova Sinistra sarà costante in Marcuse fino alla fine della vita. È vero che negli interventi degli anni ‘60 Marcuse sembra propendere per una concezione pre-marxista secondo la quale la rivoluzione sarebbe stata possibile solo grazie al diffondersi di “valori” diversi da quelli che attualmente regolano la produzione e il consumo[315]. Tuttavia, perfino nei momenti in cui Marcuse afferma che questo cambiamento “culturale” deve precedere e rendere possibile la rivoluzione non smette mai di chiarire che essa non la sostituisce, in quanto non può esserci rivoluzione della vita senza una sostanziale rottura, anche violenta con l’ordine costituito, e che tale rottura implica un livello di organizzazione che non può, a sua volta, essere delegato alla spontaneità o ai desideri dei singoli.
 
La dialettica della repressione 
I due aspetti invece evidenti fin da Eros e civiltà che contraddicono questa sovrapposizione tra Marcuse e l’ala anarcoide e hippie della Nuova Sinistra sono proprio la valutazione positiva dell’istinto di morte e la natura politica, di classe, del suo concetto di dominio e, dunque, della sua critica alla civiltà.
La centralità di thanatos appare già all’inizio di Eros e civiltà, quando Marcuse ricorda come Freud sia passato 1) dall’elaborazione degli istinti primari dell’apparato psichico a porre la comune origine di amore e morte, 2) a interpretare quell’equilibrio nel soddisfacimento che costituiva la sua prima formulazione della meccanica delle pulsioni come espressione dell’istinto di morte e del costante desiderio di annullare la tensione intrinseca alla vita che in seguito ribattezzerà principio del Nirvana[316]. Marcuse parla in questo caso addirittura di un “monismo di morte”[317] alla base dell’oscuro gioco tra eros e thanatos. Ad ogni modo, l’istinto di morte è “distruttività non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione”[318].
Allo stesso modo, Marcuse esplicita fin da subito la funzione essenzialmente politica della cosiddetta “repressione addizionale”[319], cioè del quantum di repressione che la civiltà impone agli individui e che va al di là di quel minimo di repressione richiesta perché si istituisca un principio di realtà non oppressivo. Il tema della “penuria” originaria, del Lebensnot o ananke freudiana, che precedentemente era stato criticato da Marcuse dal punto di vista ontologico (mostrando come la penuria sia definibile non in termini fattuali ed economici, come mancanza di “beni”, bensì come originaria disposizione umana a superare i limiti dati, in un certo senso come un tratto inesauribile della sua creatività[320]) riceve qui una torsione decisamente politica: la penuria, assunta da Freud (e dal pensiero economico liberale) come un “fatto bruto” va invece interpretato come “conseguenza di un’organizzazione specifica della penuria”[321]. La menzogna centrale della civiltà, ciò che dà al suo ordine il carattere repressivo e, come vedremo, autodistruttivo, sta nel fatto che la sua mancata promessa di felicità fa tutt’uno con l’ineguale distribuzione delle sue ricchezze e, dunque, della penuria. “La distribuzione della penuria come anche lo sforzo di superarla con il lavoro, sono stati imposti agli individui – dapprima con la violenza pura, più tardi con un’utilizzazione più razionale del potere. Per quanto utile possa essere stata questa razionalità per il progresso dell’insieme, essa rimane una razionalità del dominio, e la graduale vittoria sulla penuria fu indissolubilmente legata agli interessi degli individui dominanti, e forgiata nei modi scelti da questi ultimi”[322]. Avendo però distinto repressione necessaria e repressione addizionale, socializzazione e oppressione, Marcuse può allora anche distinguere “l’esercizio razionale dell’autorità” dal puro dominio: mentre il primo è inerente ad ogni società che ha la necessità di organizzare una divisione del lavoro, il secondo avvantaggia sempre, strutturalmente, una parte della società a scapito del resto[323].
Solo a partire da questi due momenti le argomentazioni marcusiane assumono il loro vero significato teorico e politico. Ad es., il discorso sulla genitalità come effetto di una morale sessuale repressiva fa tutt’uno con l’instaurarsi del principio di prestazione, cioè con la dilazione della soddisfazione libidica in funzione del riprodursi della società nel suo complesso, cosa che, a causa dei rapporti di classe, implica una irrazionale organizzazione della repressione: “razionale” se misurata sugli obiettivi del principio di realtà stabilito, “irrazionale” se misurata sul suo possibile superamento in un ordine sociale più equo. L’eros, le cui componenti aggressive devono venir controllate perché la socialità possa essere possibile, subisce al tempo stesso l’iscrizione in un ordine sociale ingiusto di cui reca tracce fin nell’intimità con cui gli individui si relazionano a sé stessi[324]. L’Es, che non conosce ragione, tempo e spazio, viene sottoposto ad un ordine razionale estrinseco, costretto cioè a sottomettersi ad una organizzazione temporale e spaziale delle pulsioni. Temporale attraverso la dilazione del piacere, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di riposo; spaziale attraverso la centralizzazione degli impulsi parziali nella sessualità genitale e procreativa[325].  
Inizia qui una riflessione sul tempo libero che sarà centrale per gli sviluppi successivi del pensiero marcusiano, tanto per la critica dell’industria culturale portata avanti ne L’uomo a una dimensione, quanto nella riflessione che accomunerà Marcuse alle frange della Nuova Sinistra che predicavano il rifiuto del lavoro. A partire dal disciplinamento degli istinti parziali, infatti, il tempo libero appare essenzialmente condizionato nella sua forma stessa dal tempo lavorativo. Marcuse sottolinea come questa distinzione affetti negativamente il tempo libero e suggerisce che il modo in cui oggi esso viene amministrato ha a che fare con il declino della produttività del tempo di lavoro, ovvero con la progressiva obsolescenza del principio di prestazione. Abbiamo già in precedenza accennato ad un progresso che aumenta le proprie prestazioni in senso quantitativo e osservato che il problema del mutamento qualitativo deve essere posto a livello della produzione più che del consumo. Qui Marcuse offre ulteriori elementi al riguardo chiarendo ancora meglio il problema del rapporto tra lavoro e svago, produzione e consumo.
Abbiamo prima parlato di “prassi” e visto come questo concetto generale potesse essere specificato in questi due diversi versanti senza che risultasse agevole porre una mediazione adeguata. La riflessione di Eros e civiltà costituisce un tentativo di arrivare a questo punto di mediazione attraverso la riformulazione proposta da Freud di tutte le attività sociali in termini di dispendio libidico. Sotto il principio di realtà, infatti, il principio del piacere – che è la sorgente di ogni azione umana – subisce le metamorfosi richieste dall’ordine sociale dato. Ma è evidente, osserva Marcuse, che mano a mano che il progresso tecnologico rende obsolete le richieste avanzate dal principio di prestazione, il sacrificio imposto all’individuo dalla necessità di adattamento diventa sempre meno plausibile e sempre più irrazionale. Sempre più si manifesta che il vero interesse che sta alla base del principio di prestazione è legato alla specifica organizzazione della penuria, dunque alla gerarchia di classe che disciplina il lavoro e il tempo libero. Osserva Marcuse nelle Lezioni parigine del 1974:
 
mentre per produrre i beni di sussistenza necessari si impiega una quantità sempre minore di lavoro socialmente necessario, una maggiore quantità di lavoro socialmente necessario è impiegato nella produzione di beni e servizi al di là delle necessità della sussistenza. Vuol dire che sempre più lavoro socialmente necessario è impiegato nella produzione di beni di lusso, in senso marxiano, di lussi, di spreco, di comodità, di divertimenti, e tutto ciò nella forma di merci. Vorrei sottolineare qui che «società dei consumi» - o société de l’abondance - costituisce un termine improprio, un concetto fortemente ideologico, non solo perché continuano ad esistere vaste fasce di povertà, ma anche per un’altra importantissima ragione; questa cosiddetta società dei consumatori è, più di ogni altra società del passato, organizzata e controllata non nell’interesse del consumatore, ma nell’interesse del produttore. E non bisognerebbe mai dimenticarlo[326].
 
Riprendendo le formulazioni di Eros e civiltà Marcuse chiarisce cosa significa oggi questa dialettica tra lavoro e riposo, necessità e libertà:
 
il capitalismo è costretto, in virtù della sua dinamica interna, a fare del regno del piacere il regno della necessità; a fare del regno dei piaceri, del regno delle comodità, del regno al di là del lavoro alienato, a fare di questo un regno della necessità, il regno delle merci da acquistare e vendere, il regno di cui si può godere solo perpetuando la fatica e perpetuando il lavoro alienato. Ma con questa tendenza a investire una quota crescente di produttività nella produzione di beni di lusso, il capitalismo sta ora minando la propria base. Sta contraddicendo il proprio principio di realtà, un principio di repressione e sfruttamento, il suo principio di realtà fondato sulla necessità del lavoro alienato a tempo pieno, per tutta la durata della vita dell’adulto[327].
 
Piuttosto che allentare la morsa del dominio – il che imporrebbe una ridefinizione del sistema economico – l’espandersi dello scambio di equivalenti finisce per organizzare la sfera stessa della libertà, sussumendola quanto più possibile nella logica della produzione, determinandola, irregimentandola, efficientizzandola. In quest’ottica, l’industria del divertimento è conseguenza dell’aumento della produttività oltre la soglia che sancisce la possibilità per la coscienza di avvertire l’irrazionalità dello sfruttamento. È importante in generale sottolineare che questa centralità della “sfera del consumo” è comunque apparente, poiché i suoi imperativi, i suoi desiderata, le sue modalità sono guidate dalla produzione. Cade tendenzialmente la distinzione tra pubblicità e spettacolo, informazione e propaganda, divertimento e lavoro.
Occorre nuovamente anche rilevare come il discorso sulla “massificazione” portato avanti da Marcuse qui e altrove, un discorso che deriva direttamente dalla necessità interna del capitalismo di organizzare la sfera del consumo, non ha niente a che fare con il niccianesimo, l’elitarismo o l’odio delle masse. C’è un elemento “massificante” che è consustanziale alla centralizzazione e automazione dei processi produttivi propri della società industriale. Non è appunto questo l’aspetto della massificazione che interessa la critica di Marcuse, poiché esso sarebbe tipico anche di una società liberata. Come abbiamo già accennato in precedenza, invece, il discorso sulla massificazione va posto nel senso della “falsa universalità”: va cioè inteso sempre come un processo di socializzazione dei bisogni in cui l’individuo – che Marcuse considera il sostrato reale del cambiamento: il luogo in cui il bisogno assume forma sensibile, materiale – viene sussunto surrettiziamente dall’interesse parziale che guida la produzione.
La cosa importante è sottolineare come sia proprio questa colonizzazione della sfera del consumo da parte della produzione a giustificare il focus marcusiano sulla “trasvalutazione dei valori”[328], cioè sul rivoluzionamento dei bisogni. Ma lo spostamento di focus non significa abbandono della centralità della produzione poiché, come abbiamo premesso, è qui che si manifesta l’interesse particolare e occulto che modella l’intero principio di realtà. E ciò segna anche i limiti che è necessario assegnare ad ogni pretesa di sovvertire tale ordine a partire da un principio del piacere che rimane suo malgrado sempre irretito nel regno della necessità.
Ciò è evidente se consideriamo il fenomeno della perversione che sorge dialetticamente dall’organizzazione della sessualità spaziale, centralizzata e, dunque, di un oggetto libidico intero, non parziale, con la subordinazione degli istinti parziali alla genitalità[329]. Le perversioni, in questo modo, ostacolano la sublimazione necessaria al riprodursi della realtà sociale stabilita e rappresentano in qualche modo una promessa di felicità negata dall’ordine libidico costituito. Si può in questo senso interpretare il tabù sulle perversioni come invidia della soggettività asservita al regime libidico repressivo, poiché in esse si condensa ciò che il processo di civilizzazione è costretto a lasciare indietro, cancellare: esse esercitano perciò una seduzione costante nei confronti del soggetto[330]. Le perversioni sono simboli dell’unità di libertà e felicità, perché sono improduttive, non utilitaristiche. Tuttavia, ecco probabilmente il limite che qui Marcuse non sviluppa direttamente ma sembra essere implicito in questo discorso perché analogo alla fantasia[331] e alla protesta come stile di vita alternativo, il loro uso commerciale o come passatempo le riconduce alla funzione generale, le subordina all’ordine della realtà.
L’altro aspetto interessante delle perversioni è il loro legame col problema della tecnologia. Marcuse scrive che esse “fanno anche intuire un’ultima identità di Eros e istinto di morte”[332]. La componente aggressiva, sado-masochistica dell’Eros subisce in parte un tabù analogo a quello della perversione sessuale: l’aggressività deve sempre essere incanalata in forme socialmente rispettabili. “L’intero progresso della civiltà è stato reso possibile soltanto dalla trasformazione e dall’utilizzazione dell’istinto di morte o dei suo derivati. […] In questa trasformazione, l’istinto di morte viene messo al servizio di Eros; gli impulsi aggressivi provvedono continuamente l’energia per la modifica, il dominio e lo sfruttamento della natura a vantaggio dell’umanità. Aggredendo, scindendo, mutando, polverizzando oggetti ed animali (e periodicamente anche esseri umani), l’uomo estende il suo dominio sul mondo e progredisce verso fasi di civiltà sempre più ricche”[333].
Anche in questo caso però, con lo sviluppo del capitalismo, si ha un mutamento della quantità in qualità reso visibile dal grado apocalittico di violenza e capacità di annichilimento della società contemporanea. Marcuse ritiene che sia la logica interna della società di prestazione a imporre motu proprio un significato regressivo alla tecnologia, ponendola sempre più sotto il dominio dell’istinto di morte. Ed esattamente come risulta difficile immaginare un ordine sociale fondato sulla perversione pura[334], dunque sull’abbandono della dialettica principio del piacere/principio di realtà, così l’auto-distruzione caratterizza una società che si abbandona sempre più a quell’aggressività su cui pure si fonda il suo progresso: “è proprio il progresso della civiltà che porta alla liberazione di forze sempre più distruttive”[335].
Queste forze si trovano all’opera nella personalità stessa dei soggetti che le mettono socialmente in moto: anche su questo piano c’è un parallelismo. Il Super-Io, scrive Marcuse, rivolge contro l’inconscio la forza distruttiva, negativa, la violenza repressiva dell’Io e in questo modo realizza attraverso la scissione della personalità l’asservimento del soggetto alle norme sociali[336]. A ciò occorrerebbe forse aggiungere, per evitare malintesi “primitivisti”, che l’unità stessa della personalità prima dell’irruzione della Legge è un’unità indistinta, di modo che è solo attraverso quella scissione che la personalità si realizza per la prima volta come un ordine funzionale. Senza alienazione non c’è identità[337]. In secondo luogo, il fenomeno della “desublimazione repressiva” analizzato ne L’uomo a una dimensione mostra chiaramente come l’effetto dell’allentamento della presa morale del Super-Io sulla coscienza non solo non vada nell’interesse di una liberazione dell’individuo quanto di un suo morbido asservimento ma, in generale, faciliti il diffondersi di un atteggiamento passivo e arrendevole nei confronti dei crimini commessi dalla società stessa: è infatti la sublimazione che permette, attraverso il costituirsi del Super-Io, di rivolgere questo stesso rigore morale contro la società stessa e, in definitiva, il suo stesso rappresentante psichico[338].
Ad ogni modo, la società distruttiva sembra soddisfare un bisogno pulsionale di morte che è radicato negli individui stessi: essa li lega a sé rendendoli al tempo stesso e paradossalmente più aggressivi e più docili[339].  È ciò che Marcuse chiama il fenomeno dell’aggressività “tecnologica” e diffusa. Si tratta di pulsioni aggressive che vengono mediate dall’oggetto tecnologico che mentre ne amplifica l’effetto ne riduce la soddisfazione immediata, richiedendo perciò un incessante riutilizzo. La violenza è così sublimata dalla macchina e costringe il suo fruitore alla ripetizione[340].
  
IX. Il circolo vizioso della rivoluzione: individuo e società
 
Note preliminari  
Cerchiamo ora di chiarire e articolare meglio quel circolo vizioso tra produzione e bisogni su cui l’analisi di Marcuse torna costantemente. Per farlo dobbiamo affrontare nuovamente la dialettica individuo/società e specificare il ruolo che Marcuse attribuisce ai gruppi “marginali” nella contestazione dell’esistente. Prima però occorre premettere alcune note che sono essenziali per l’adeguata comprensione del discorso marcusiano: 1) il rapporto tra eros e socializzazione, 2) la natura potenziale ma reale dell’alternativa all’interno dello status quo.
Riprendiamo dunque il problema della sovrapproduzione come presupposto della organizzazione del tempo libero, della sua sussunzione dentro lo schema di autovalorizzazione del capitale. Marcuse sottolinea subito come questa organizzazione assuma forme totalitarie - “l’individuo non va lasciato solo”[341] - poiché essa deve distrarre dal costante furto della libido, possiamo dire, a fini non autoconservativi ma distruttivi. Va qui sottolineato un altro aspetto non così evidente del rapporto tra eros e thanatos che spiazza una sua rappresentazione troppo lineare sul modello teorizzato e praticato dall’ala libertaria della Nuova Sinistra. Dopo aver infatti ricordato il ruolo “costruttivo” di thanatos, cioè la funzione non solo negativa che esso svolge all’interno della dinamica psichica e sociale, occorre adesso sottolineare, dal versante opposto, un aspetto poco appariscente dell’eros e che emerge proprio nei tratti distruttivi della società opulenta. Marcuse osserva correttamente che, sulla base della propria pulsione fondamentale, eros in realtà è asociale[342]. Questo significa due cose. Da un lato, che c’è molta distruttività nella socializzazione forzata dell’età contemporanea, la società di massa genera aggressività perché si oppone ad una pulsione anarchica, perché eros non è affatto solo una forza che unisce ma anche ciò che si sottrae alla regola che unisce. E seppure non può esserci civiltà senza una repressione che corregga questa tendenza di eros all’isolamento, spinta oltre un certo limite la socializzazione non può che produrre aggressività. Dall’altro, dovremo tornarci, gli aspetti - definiti spesso dallo stesso Marcuse - estetizzanti e romantici del movimento hippy, cioè il suo rifiuto unilaterale della civiltà urbana devono essere accuratamente distinti da un bisogno che invece emerge proprio da questa tendenza di eros ad opporsi alla socializzazione forzata. È da questo punto di vista che Marcuse sottolineerà come eros abbia anche a che fare con la ricerca del silenzio e della solitudine[343]. L’idea del recupero dell’intimità in senso politico come fattore essenziale della libertà – accennata problematicamente in Soviet Marxism e poi sviluppato nella lettura di Bahro – trova qui un’altra connotazione teorica: come abbiamo detto si tratta essenzialmente della necessità di salvaguardare la possibilità di un antagonismo senza il quale l’adesione del soggetto alla razionalità sociale avrebbe sempre la forma di un adeguamento meccanico.
Seconda breve ma necessaria nota. C’è una corrispondenza tra il carattere totalitario della società tardo-capitalistica e la “ribellione totale” che essa ispira[344]. Lo stile di vita diventa una lotta totale contro una società che non sembra offrire aperture, che si chiude su sé stessa. Questo pone il problema di come sia possibile che l’universale si trovi nel particolare: il problema del carattere totalizzante della società contemporanea fa tutt’uno con la domanda su come possa identificarsi in un punto di questa società un interesse per una società totalmente diversa[345]. Per quanto sia lo stesso Marcuse ha definire “trascendenti”[346] i bisogni e i pensieri che si pongono al di là dell’orizzonte costituito, in realtà questo modo di definirli è metaforico e teoreticamente sbagliato oltre che infecondo[347]. Parte del circolo vizioso che stiamo affrontando nasce proprio dal fatto che questi bisogni vengono immaginati come qualcosa che va creato e al tempo stesso come il presupposto per la creazione di un ordine sociale diverso. Ma la stessa analisi di Marcuse mostra come essi siano presenti qui e ora, siano l’effetto di quella sovrapproduzione che rende possibile immaginare una diversa destinazione dell’apparato produttivo.
Lungi dall’essere qualcosa che va anzitutto sperato per l’avvenire, dunque, la possibilità di una lotta qualitativa, sensibile contro il capitalismo è anzi un presupposto epistemologico della critica[348]. Non ci potrebbe essere una critica del modello di sviluppo e il bisogno di una sua trasformazione radicale se esso non producesse da sé le condizioni oggettive del proprio superamento, in accordo con il dettato di Marx. Si dirà: si tratta però di bisogni presenti in una minoranza della popolazione che Marcuse stesso definisce minoranza “intellettuale”, dunque tutto si limita ad una critica elitaria, da parte di privilegiati, che non può raggiungere “le masse”. Ma anche questo assunto va articolato meglio, come già accaduto in Soviet Marxism. Secondo Marcuse non siamo di fronte ad una frangia intellettuale che guarda dall’esterno i processi sociali, quanto piuttosto di un fenomeno già interno e diffuso. Marcuse rivendica questa diffusione del ruolo intellettuale nella società e rifiuta ogni auto-diffamazione dell’intellettuale come regressiva[349]. Occorre dunque vedere in che senso l’intellettuale diffuso sia il presupposto della critica e fornisca l’elemento soggettivo in grado di vedere i processi in corso (ma, come diremo subito, non di cambiarli da solo).
 
L’individuo come sostrato e come processo             
Nei suoi testi Marcuse non si spinge mai fino a determinare in modo positivo una “teoria della rivoluzione” attenendosi al metodo negativo proprio della Teoria critica: ciò che questa mostra sono le condizioni di possibilità della rivoluzione. Quando Marcuse tratteggia la contestazione dell’esistente lungo le sue varie direttrici (la ribellione giovanile e studentesca, il movimento pacifista e quello per i diritti civili, le rivolte nel Terzo Mondo e, successivamente, il femminismo e l’ecologismo) disegna un arco che dall’individuo, addirittura da ciò che avviene nell’individuo, arriva fino alle questioni che oggi diremmo geopolitiche. Ma il discorso di Marcuse rifiuta di classificare la sua concezione delle forze antagoniste in termini di “psicologia” [350]. Anche quando parla dell’alienazione e del ruolo dell’individuo sta sempre parlando di fenomeni oggettivi, sociali. Lo stesso interesse nei confronti di Freud muove da qui.
Freud incontra la società a partire dalla psiche come “sostanza vivente della storia”[351]. Il suo individualismo psicanalitico gli permette di impostare il problema aggirando il funzionalismo sociologico[352] (cioè la riduzione dell’individuo a semplice effetto dei processi sociali e dunque strutturalmente dipendente da essi, ciò che contrasterebbe con l’idea di socialismo come piena auto-determinazione degli individui) e ciò permette di criticare la società che non adempie le richieste di felicità degli individui e, al tempo stesso, cogliere l’elemento illusorio nell’individualità, ciò che viene mostrato dalla scomposizione dell’apparato psichico nelle sue costituenti ultime. Nella teoria freudiana Marcuse riviene così una disindividualizzazione biologica, legata al principio del piacere e al Nirvana, in opposizione ad una disindividualizzazione sociologica legata all’adesione imposta ad un dato principio di realtà. Dunque è chiaro che l’individuo va qui inteso in modo diverso da come appare nella teoria liberale. Come abbiamo già visto esso interessa Marcuse anzitutto come il substrato del bisogno, come il crocevia ineludibile della socializzazione se, appunto, solo l’individuo possiede un corpo e una sensibilità. D’altro canto, come stiamo vedendo ora, l’individuo non è una realtà ultima, anzi avremo modo di vedere che, per certi versi, l’individuo secondo Marcuse ancora non è, dunque questo substrato ineliminabile dei processi sociali va a sua volta inteso come processo, non come un dato.
Quello che Marcuse osserva in ciò che abbiamo chiamato proletarizzazione senza proletariato è quindi una “dislocazione della coscienza politica”[353] che vede coscienza e classe disporsi in modo non sincronico e spazialmente non omogeneo. Al tempo di Marx, l’esistenza “bestiale” dell’operaio impediva il suo assorbimento nel falso particolare progettato dal capitale. L’operaio aveva in sé stesso la misura del suo bisogno negativo rispetto all’esistente e nel suo auto-negarsi come classe subalterna si faceva portatore di un universale più vero e, soprattutto, reale perché ne costituiva il sostrato già operante, in modo conflittuale, nel modo di produzione capitalistico. Abbiamo visto gli elementi oggettivo-soggettivi e soggettivo-oggettivi che rendono problematico nella società a capitalismo avanzato questa dinamica di trascendimento dell’esistente.
La rilevanza dell’individuo in quanto portatore effettivo del cambiamento ha per Marcuse un significato materialistico. Esso vuole anche correggere la “negligenza”, la “minimizzazione del ruolo della natura nella storia”[354]. Ma il discorso di Marcuse sul ruolo degli individui presuppone l’analisi del capitale: “La dinamica di questa società fornisce il terreno, la sua economia costituisce il substrato, su cui la formazione specifica della sensibilità umana ha luogo e su cui la sua emancipazione deve iniziare”[355]. Poiché però l’individuo, come realtà corporea e sensibile, punto ineludibile di passaggio dei bisogni, è a sua volta compreso in termini di ciò che urge al di sotto[356] di tale substrato occorre coordinare questa duplice precedenza.
In primo luogo, la produzione non è semplicemente la creazione di oggetti ma la configurazione di un mondo, quindi di un certo modo di atteggiarsi della sensibilità verso il mondo. L’analisi del capitale, dei rapporti di produzione, delle merci, degli scambi ecc. ci introduce al luogo in cui, come abbiamo visto, si opera quella mediazione necessaria a rendere universale, cioè realmente umana l’emancipazione. Ora, osserva Marcuse, veramente umana e universale sarebbe solo una produzione in cui la solidarietà assumesse il valore di forma[357]. Al tempo stesso, in questa nuova configurazione produttiva, i sensi riguadagnerebbero il proprio potere attivo, creativo, verrebbero liberati dalla dipendenza da un apparto che ne limita le potenzialità e le dirige al fine della propria auto-riproduzione. La passivizzazione dei sensi nel capitalismo è, come abbiamo visto, funzione dell’asservimento. Lo scambio di merci è la “forma” del conflitto tra soggetto e oggetto[358]. Una sensibilità “spenta” modella inoltre le relazioni tra gli uomini adeguandole al carattere “antagonistico”[359] della totalità. La solidarietà è la negazione della coordinazione regressiva del capitalismo. Tale coordinazione è amministrata, tecnica ma rivolta ad interessi particolari e, dunque, falsi. Vera solidarietà è solo quella che si volge contro questa forma di organizzazione delle relazioni produttive, che si fa negazione dell’individuo astratto che essa implica. Gli uomini non si relazionano tra loro come individui ma come “parti”, elementi “utili”, funzioni dell’insieme: essi entrano in relazione tra loro solo come valori di scambio. Un’universale vero che entrasse nel particolare permetterebbe all’individuo di realizzarsi con l’altro[360].
Osserviamo qui all’opera una dialettica bloccata di individuo e società. L’individuo è falso, è solo parte. Però ospita il momento del privato non-integrato, della corporeità, dei bisogni, della sensibilità in quanto attiva. È irreale, perché non universale, ma è attuale. La massificazione è invece il falso universale. È un processo condiviso, sociale, legato allo scambio, all’arricchimento potenziale delle possibilità umane. È reale, wirklich, ma è anche passivo, determinato integralmente dalla produzione e dalle sue esigenze strutturali di profitto. Qui si realizza la socializzazione aggressiva: non come i topi, per motivi biologici, ma sociali. L’industria culturale è un velo estetico disteso sulla brutalità della coesistenza antagonistica. La dialettica è bloccata perché questo processo è imprendibile, non ha un punto in cui arrestarsi. Tale luogo “assente” della mediazione tra produzione e consumo rende questo problema teoreticamente non risolvibile.
Ecco dunque l’importanza del ‘68: esso ha provato che una rottura nell’infinito processo di mediazione è possibile. Il “Gran rifiuto” è la forma assunta da questa rottura della mediazione assoluta. Il discorso di Marcuse, il suo aspetto totalizzante, perfino “totalitario”[361] nei termini della democrazia liberale, è un collocarsi al livello stesso in cui si pone il meccanismo oppressivo del capitalismo, la sua “totalità negativa”. Vera è solo la teoria e la prassi che nega questa totalità al di là di vuoti rilievi formali. Il suo imperativo categorico non è etico, mira piuttosto a fondare la possibilità reale di un’etica, di un mondo in cui gli individui siano finalmente e veramente liberi di scegliere. 
 
La ‘nuova’ condizione è la verità della vecchia, ma tale verità non sorge meccanicamente e automaticamente dalla condizione precedente; essa può liberarsi solo attraverso un atto autonomo da parti degli uomini il quale elimini la condizione negativa del momento in tutto il suo complesso. La verità, in breve, non è un’entità scissa dalla realtà storica, né un regno di idee eternamente valide. Certamente essa trascende la realtà storica del momento, ma solo in quanto passa da uno stadio storico a un altro. Lo stadio negativo così come la sua negazione è un avvenimento concreto nell’ambito della stessa totalità[362].
 
È molto importante sottolineare le aporie ma anche le specificità che si aprono nel discorso di Marcuse ad es. a proposito di questo suo insistere tipico sull’atto autonomo. Perché qui non è chiaro se è questo atto autonomo rispetto all’esistente che rende possibile la comprensione della verità di questo stesso esistente in termini di possibile superamento, o anche il contrario o, come è probabile, tutte e due le cose (ricordiamo sempre il problema, da cui siamo partiti, di un’analisi che ha il compito di far emergere un punto di mediazione che però, per definizione, non può essere ulteriormente determinato dall’analisi stessa ma che, anzi, si occulta costantemente). Ora, come si voglia interpretare questo nesso, appare chiaro che questo atto non meccanico, non automatico, non necessitato è legato allo svelamento di una “verità” che però non è trascendente, né universale in senso formale. La verità dell’esistente emerge dalla volontà del suo superamento: ma tale possibilità è esplicitata dalla teoria come possibilità di un altro esistente la cui realizzazione smentirebbe la falsa immodificabilità di quella che precede. Siamo al solito paradosso di una necessità che può essere tolta soltanto dalla libertà. Potrebbe sembrare qui in gioco un volontarismo arbitrario e addirittura una riproposizione del problema della trascendenza metafisica e un suo spostamento dall’ambito ontologico a quello politico: alla fine questo atto autonomo costituirebbe un “salto”, dunque una sorta di irruzione della trascendenza nell’immanenza che finirebbe per qualificare anche la verità “non meccanica” come una verità metafisica.
Contro questa lettura stanno due elementi. Primo: l’arbitrarietà di quell’atto autonomo è tolta dalla sua stessa natura, esso si dà solo se realizza l’universale o, quanto meno, se rimuove i limiti, pone le condizioni per la realizzabilità dell’universale. Secondo: la “trascendenza” è non solo storica e non sovrastorica, ma non è affatto una trascendenza (già abbiamo criticato questo uso linguistico); in effetti le sue possibilità e realizzazioni parziali si danno già qui e ora, se così non fosse il discorso sulla libertà ricadrebbe in categorie astratte e metafisiche. Occorre anche ribadire che questo discorso non solo fonda la legittimità della protesta “qualitativa”, radicale contro il capitalismo (di cui torneremo ad occuparci a breve) ma perfino i discorsi di Marcuse degli anni ‘70 sulla possibilità di sfruttare tutte le occasioni offerte dal sistema, dalla “lunga marcia dentro le istituzioni” di Dutschke alla possibilità di sostenere candidati democratici da parte della New Left[363].
 
Aporie della razionalità discorsiva
 
1. Triebstruktur e razionalità
Contrariamente a quanto riteneva Habermas[364], infatti, il radicalismo marcusiano non esclude cambiamenti e miglioramenti locali, l’azione di riforma: semplicemente stabilisce una netta divisione teorica tra queste azioni e il superamento della totalità negativa che si trova di fronte[365].
Habermas, ad es., obietta che il secondo Marcuse abbia sostituito la metapsicologia freudiana all’ontologia esistenziale di Heidegger ma che lo schema di fondo sia rimasto “antropologico”[366] e la teoria degli istinti freudiana giochi il ruolo di una “versione materialistica del concetto di ragione”[367]. A prescindere dalle numerose ed evidenti incomprensioni del discorso marcusiano (l’insistenza di Habermas su un presunto “ritorno ad un terreno naturale”[368], oppure l’idea di una “fondazione naturalistica della Ragione”[369] mentre Marcuse ribadisce che anche la natura è qualcosa che occorre “produrre” [herzustellen][370]) il vero punto di dissidio rimane la nozione stessa di soggetto della scienza e dell’azione che divide i due pensatori. Le altre contrapposizioni, e gli stessi fraintendimenti di Habermas, derivano da qui. Habermas sposta il discorso nel punto in cui Marcuse, parlando del processo di liberazione, accenna alla “volontà generale/universale” [allgemeine Wille]. Rimuovendo totalmente il contesto di questo riferimento Habermas riformula la questione in modo formale/procedurale come problema della formazione libera del consenso generale [ungezwungenene Willensbildung] e quindi introduce i temi a lui cari dell’intersoggettività comprendente e del linguaggio[371] come luogo di formazione della razionalità discorsiva[372]. Marcuse, continua Habermas, non essendo in grado di offrire una fondazione filosofica della razionalità discorsiva è costretto a ricorrere alla misteriosa forza degli istinti primari: l’idea di Habermas – che ovviamente qui legge Marcuse con un puro interesse metodologico-formale – è che in un certo punto della teoria marcusiana, al posto del processo decisionale razionale, ci sia un riferimento ingiustificato ad uno “sfondo” biologico, istintuale o psichico[373]. Poiché la ragione non passa prioritariamente per l’intesa linguistica e la struttura pulsionale non si modifica da sola, conclude Habermas, Marcuse è costretto a ricorrere all’idea della “dittatura educativa” di Platone.
Ora, se reinseriamo la citazione di Marcuse nel suo contesto, comprendiamo subito i motivi reali del dissidio. Marcuse sta qui parlando del fatto che una società in cui gli individui possono razionalmente riconoscersi potrebbe imporre in modo non autoritario la rinuncia pulsionale. Ciò è possibile perché non esiste alcun dissidio tra la ragione e le pulsioni ma solo tra le pulsioni stesse[374], il dissidio è interno alla struttura pulsionale e si configura in base ad una certa organizzazione sociale la cui irrazionalità è dimostrata proprio dagli effetti distruttivi che essa produce attraverso la manipolazione degli strati profondi della psiche. L’argomentazione di Marcuse è contenutistica, riguarda l’identificazione dei processi sociali che configurano gli istinti in modo da impedire l’esercizio della razionalità; l’obiezione di Habermas è formale, concerne l’alternativa, fallace, tra far “decidere” le pulsioni o la ragione discorsiva[375]. Anche l’idea della dittatura educativa che Habermas attribuisce a Marcuse è erronea. Il famigerato passo sulla “dittatura” proseguiva infatti così: “ora, questa risposta [la dittatura educativa] è superata: la conoscenza dei mezzi disponibili atti a creare un’esistenza umana per tutti, non è più un privilegio di un’élite particolare. I fatti sono troppo scoperti, e la coscienza dell’individuo potrebbe facilmente arrivarci da sé, se non venisse metodicamente bloccata e deviata”[376]. Come abbiamo già visto, una certa configurazione non-distruttiva degli istinti deve già darsi nel presente in forma diffusa: la questione è appunto creare le condizioni materiali perché questo possa allargarsi e portare a processi decisionali in cui la repressione necessaria venga concordata in modo razionale. Il fine della ragione, dice Marcuse, è chiaro: “la difesa della vita, l’arricchimento della vita, l’abbellimento della vita” [377].
Rispetto a questa analisi di contenuto Habermas fa valere nuovamente un’obiezione formale e astratta: traduce la “difesa della vita” in una scelta di “valori”[378] e sostiene che con la teoria marcusiana non si potrebbero affrontare discussioni razionali per risolvere problemi “concreti”[379]; questi ultimi andrebbero invece posti nell’orizzonte universalizzabile del linguaggio. La concezione dell’universale, come siamo andati descrivendolo nelle pagine precedenti, viene infine definita da Habermas come “aristotelica” o “hegeliana” ma non fondata “sistematicamente” (in quanto Marcuse non è né aristotelico, né hegeliano ortodosso): la preoccupazione di Habermas è identificare i “presupposti normativi” della teoria[380]. Occorrerebbe cioè creare i presupposti per un dialogo razionale che lasciare emergere posizioni condivise e praticabili superando quindi gli “interessi”[381] che invece, secondo Habermas, sono alla base della teoria di Marcuse e rendono impossibile il discorso razionale.
È proprio questa sopravvalutazione astratta della agency “cosciente”[382] a distorcere il senso del discorso di Marcuse. Ovviamente, ciò che Marcuse chiama “difesa della vita” non viene pensato come oggetto di un dibattito razionale in cui si scontrerebbero valori non “condivisi”: piuttosto esso descrive lo stato di fatto dei soggetti oppressi che, liberati dal giogo dei propri padroni, ben saprebbero decidere cosa sarebbe una vita “migliore” poiché essa coinciderebbe con i loro interessi che sono, dal punto di vista della teoria, oggettivamente più razionali di quelli dei loro sfruttatori. Questa negazione – che rende “ridondante” l’espressione “dialettica della liberazione”[383] - può certo essere formulata in termini di “valori”; ma questi sono incarnati in una lotta già reale, nei corpi e nelle vite di coloro che subiscono un potere già in atto, non in un ipotetico confronto di idee[384]. Sono anzitutto bisogni[385]. L’idea liberale – sostenuta da Habermas – secondo cui la definizione di una vita “migliore” è impossibile o sempre e solo soggettiva viene attaccata da Marcuse come essa stessa “ideologica” e “repressiva” [386]. Il contro-esempio finale di Marcuse è decisivo: “la solidarietà in sé non è in nessun modo un valore”. C’era solidarietà nel nazismo, come c’è nella mafia. A queste si oppone solo una configurazione degli istinti che corrisponde alla razionalità oggettiva di una “società senza classi”[387]. Il contrasto con Habermas non potrebbe essere più stridente: “la sua formazione generale della volontà presuppone la solidarietà. Una formazione generale della volontà di uomini i cui interessi vitali siano contrapposti gli uni agli altri non funziona. […] Deve essere presupposta una coincidenza, una possibile coincidenza di interessi, che permetta di risolvere i conflitti di interessi in modo pacifico in una società socialista”[388]. Solo da questo “formal bias[389], cioè dal punto di vista astratto e disincarnato di un soggetto trascendentale può porsi l’esigenza fondativa di un sapere che a sua volta finisce per avere ad oggetto un’umanità astratta e disincarnata, “senza corpo e sentimenti, identificata con la cognizione, il linguaggio e l’interazione”[390]. A questo universale astratto, che Habermas pone nella sfera del linguaggio, corrisponde una falsa concretezza, quella dei “problemi” che, come abbiamo visto, possono facilmente tradursi e ridursi ad un ambito ragionevole e tecnicamente praticabile: ma proprio perciò finiscono per non intaccare la struttura sociale che li produce[391] La sintesi tra i due punti di vista, proposta da Kellner[392], a me sembra non solo impossibile ma anche non desiderabile. 
 
2. Il ritorno del fascismo e la distruzione della verità
I limiti di una razionalità astrattamente discorsiva, scissa dalla struttura materiale del presente e dagli antagonismi inconciliabili che originano dalla sfera produttiva, diventano lampanti nella crisi che investe oggi le società devastate dal neoliberismo e dalle politiche riformiste della sinistra post-comunista. Viceversa, alcune caratteristiche paranoico-complottiste della nuova destra possono trovare una spiegazione nell’irrealismo tecnologico e nel declino della verità che Marcuse diagnosticava come conseguenza dell’operazionismo del tardocapitalismo[393].
L’amministrazione totale mostra all’individuo la sua condizione alienata, i processi sociali si contrappongono al soggetto in forma estraniata, perché al di fuori del suo controllo, ma dotati di una potenza razionale che trasforma l’enigma della reificazione in logica implacabile[394]. L’algoritmo è il telos storico della razionalità tecnologica. Il robot autonomo che fa la guerra la sua infernale incarnazione. Ciò che deve essere accettato appare come la necessità della razionalità assoluta. Ma mano a mano che questo meccanismo coinvolge il complesso della società, della cultura e dei mezzi di informazione la capacità di dominare con il pensiero i processi sociali si indebolisce e si generano fenomeni reattivi di tipo irrazionale. La realtà si dissolve in una rete di esperienze frammentarie. Lo scetticismo contro la scienza non nasce solo dall’incapacità cognitiva delle masse ma dalla loro impotenza sociale che investe in modo delirante il nesso di scienza, tecnica e profitto che è troppo complesso per essere compreso in forma analitica. Viene così personalizzato e tradotto in immagini mitiche. Il complottismo paranoide fascista ritorna in forma più radicale e violenta perché il processo di razionalizzazione si intensifica, diviene sempre più specialistico e sempre più contribuisce a sottrarre alle vite di chi viene ridotto a suo oggetto la capacità di autodeterminazione. La pandemia ha portato questa dialettica all’estremo e mostrato tutti i limiti della persuasione razionale: lo scetticismo nei confronti delle “verità ufficiali” costringe i governi a scelte autoritarie e ciò intensifica e irrigidisce ancora di più quella sfiducia. Non si può però affrontare la questione in termini puramente logico-argomentativi, senza cioè includere quegli elementi di ingiustizia e impotenza economica da cui quello scetticismo prende le mosse. Ancorché razionali, infatti, le decisioni dei governi sono sempre condizionate dagli interessi parziali che li influenzano e che non vengono messi in discussione. Ciò conferisce alla comunicazione ufficiale un tratto indelebile di falsità.
Paradossalmente, in un mondo in cui l’efficienza legata al profitto diventa l’unico criterio razionalmente oggettivo, la stessa verità diventa un problema secondario. L’idea della “tolleranza repressiva”, ovvero di un ordine del discorso in cui è ammissibile anche l’opinione che giustifica il massacro di massa, in cui “l’opinione stupida è trattata con lo stesso riguardo di quella intelligente, la mal informata può parlare quanto quella informata e la propaganda cavalca al passo con l’educazione, il vero col falso”[395] sembra una perfetta fotografia dei social e dei media mainstream odierni[396]. Il loro gioco a somma zero nega il telos della tolleranza che era, ed è, la verità[397], illuministicamente critica del potere. Marcuse denuncia questo stato di cose come una condizione che porta in modo quasi automatico alla “disintegrazione del valore della verità”, ovvero di una verità non ridotta a fatti decontestualizzati ma quella del contesto che li produce e dà loro significato.
 
I mezzi di comunicazione sono ampiamente dispensati dall’obbligo della verità, in una particolare modalità. Il punto non è che i media mentono («mentire» presuppone il riferimento alla verità): essi piuttosto confondono verità e mezze verità con omissioni, resoconti di fatti con commenti e valutazioni, informazioni con pubblicità e propaganda – tutto ciò è reso un complesso schiacciante tenuto insieme dalla tendenziosità. Le verità giornalisticamente spiacevoli (e quante verità decisive non sono spiacevoli?) sono ritratte tra le righe, nascoste o mescolate armoniosamente con le stramberie, lo scherzo e le cosiddette storie «di varia umanità». E il consumatore è prontamente incline a prendere tutto ciò per buono – compra anche se sa come stanno le cose. Ora, il vincolo della verità è sempre stato precario, gravato da diverse limitazioni, sospeso o soppresso – è solo nel contesto della generale e democratica attivazione di aggressività che la svalutazione della verità assume un significato speciale. La verità infatti è in senso proprio un valore nella misura in cui è al servizio della protezione e del miglioramento della vita, quale guida nella lotta dell’uomo con la natura e con se stesso – con la propria debolezza e distruttività. In questa funzione, la verità riguarda le pulsioni di vita sublimate, Eros, l’intelligenza divenuta responsabile e autonoma, tesa a liberare la vita dalla dipendenza delle forze non incontrollate e repressive. E rispetto a una simile funzione protettiva e liberatrice della verità, la sua svalutazione rimuove un’altra barriera efficace contro la distruzione[398].
 
Ciò che oggi chiamiamo problema dell’infotainment, dell’inflazione della sfera comunicativa, anche attraverso i social, trova qui un’anticipazione formidabile. In particolar modo, l’elemento distruttivo, di aggressività che si è sviluppato ed è cresciuto negli ultimi anni sui social sembra avere a che fare proprio con il declino della razionalità oggettiva e la sua esigenza di verità. Si è già da più parti notato come i mass media e quella che è diventata la loro propaggine social (i social come “cassa di risonanza” delle tematiche diffuse ad hoc dall’industria della notizia) lavorino scegliendo costantemente degli oggetti-mediatici che funzionano come accentratori di attenzione e finiscano per incanalare il flusso della fruizione e commento della notizia in forma distorta: che le tematiche ecologiche vengano declinate come commenti alla figura di “Greta” è funzionale tanto ai grandi giornali “progressisti” quanto ai politicanti sovranisti che su queste strategie comunicative costruiscono molta della loro fortuna. Per i primi è fondamentale sviare l’attenzione dagli elementi economici e anti-sistema che, pure, sono parte del messaggio e della partecipazione giovanile ai Fridays For Future; per i secondi è fondamentale trovare appigli privi di rilevanza che possano “soggettivizzare” il fenomeno, svuotarlo di ogni contenuto oggettivo per trattarlo come al solito in modo del tutto delirante, proiettivo e privo di consistenza, riconducendolo così nell’ambito delle poche parole-chiave con cui sanno disciplinare l’opinione degli utenti allettati dalla loro pseudo-capacità di rottura (la critica dell’élite “mondialista”, del politically correct ecc.). Ciò che è essenziale è che si producano fenomeni ibridi: da un lato devono essere tangibili, possibilmente corporei, meglio ancora se riconducibili ad una persona e a certe sue qualità fisiche o caratteriali notevoli; dall’altro, essi devono anche poter veicolare significati più astratti, ridursi anzi a incarnazioni di un’essenza più profonda. In tal modo avviene che l’oggetto-mediatico si mostra adatto non solo e non tanto alla discussione, che in realtà contribuisce a distorcere e deviare, ma soprattutto all’investimento libidico che è ciò che qui veramente interessa perché contribuisce a creare la contrapposizione pulsionale tra attrazione e avversione che inquina alla radice, se non va praticamente a sostituire, la contrapposizione ideale e politica.
La complessa dialettica di libido e repressione elaborata in Eros e civiltà, potrebbe trovare infine una sua attualizzazione nelle reazioni scomposte della nuova destra alle politiche di liberazione sessuale e di genere. Il sovranismo familistico e l’orgoglio neo-maschilista segnano i punti in cui la desublimazione repressiva della società contemporanea, ovvero l’allentamento dei tabù tradizionali nella sfera sessuale e privata nell’ottica di un allargamento del consumo, raggiunge il suo limite sistemico. Laddove infatti quell’allentamento porta oggi ad una messa in discussione delle strutture erotiche e familiari soggiacenti, e dunque di un’organizzazione libidica che trasforma la base pulsionale della società, questo passaggio viene visto come apocalittico e vissuto come frustrazione del godimento. Il rifiuto infastidito, risentito con cui vengono colpite anche solo le ipotesi di un cambiamento culturale e sociale nella sfera erotica tradiscono la loro origine da forme represse della sessualità.
Al tempo stesso, l’opposizione reazionaria e nostalgica a tali trasformazioni si fissa qui ad un’immagine ambigua che potremmo definire “sessuo-economica”, prendendo in prestito quest’espressione da Reich. L’immagine del passato stilizzata e idealizzata coinvolge infatti i due aspetti – quello della sicurezza materiale e quello della normatività patriarcale – ma viene investita libidicamente nella sua interezza, di modo che non è possibile separare nettamente queste due componenti. L’essere condannati alla sparizione dal progresso materiale viene così vissuto in forma sessuale: ciò fa sì che chi si impunti sul piano sessuale metta in secondo piano quello materiale, non vedendo la duplice natura di quella paura che intensifica l’avversione verso nei confronti del cambiamento culturale. La giusta e sacrosanta denuncia dell’omofobia si incentra sulla declinazione del prefisso ma perde troppo spesso di vista le cause sociali del suffisso. È anzitutto la fobia che va spiegata, prima di denunciarne la declinazione regressiva. Quella fobia è reale e ha cause determinate anche se le proietta paranoicamente su un oggetto che solo parzialmente e indirettamente si lega ai processi materiali in corso.
 
X. Sensibilità, immaginazione e liberazione della natura
 
Veniamo quindi agli aspetti più “utopici” del pensiero marcusiano sperando di aver mostrato, come egli diceva, il lato pienamente razionale e plausibile di questa utopia. Dunque la necessità di porre fine al linguaggio dell’utopia e progettarne la realizzazione. Affronteremo tre aspetti tra loro connessi: l’idea della soddisfazione sensuale, quello dell’immaginazione e della liberazione della natura.
 
Godimento e abolizione del tempo
La critica di Marcuse al principio di prestazione va in direzione di una liberazione dell’eros (non della sessualità) nel senso di uno svincolamento della libido dalle strutture repressive della società vigente. Ciò si accompagna, come abbiamo detto, ad una rivoluzione della psiche – con un’importanza decisiva accordata alle facoltà tradizionalmente considerate “inferiori” dalla filosofia: la sensibilità e l’immaginazione – cui corrisponde un diverso atteggiamento degli individui e della società nel suo insieme nei confronti della natura. Tutto ciò corrisponde ad alcune immagini che ricorrono negli scritti di Marcuse, relative ad un arresto della dinamica espansiva e distruttiva della società, di un prevalere dell’essere sul divenire e, parallelamente, della soddisfazione sensuale, del godimento perfino, rispetto alla dilazione del piacere che caratterizza la razionalità sociale accumulativa e competitiva.
Rispetto al primo punto Marcuse parla esplicitamente di un conflitto tra il logos della soddisfazione e il logos dell’alienazione[399]. L’immagine dell’atto puro come soddisfazione piena e godimento, essere in sé, telos realizzato si trova emblematicamente anticipato in forma mistica nella filosofia classica da Aristotele a Hegel[400]. Tale modello filosofico di soggettività corrisponde, da un lato, a quell’ideale del presupposto posto[401], al capitale come Soggetto assoluto che la lotta politica ha il compito di superare; dall’altro, però, si tratta di un’immagine, ancora idealistica certo ma anticipatrice del circolo di passato-presente-futuro che dovrebbe caratterizzare una società liberata. Il superamento della dimensione lineare del tempo proprio del principio di prestazione implica anzitutto una sua decostruzione – un elemento di pienezza, di presenza, di attualità che si realizza nell’hic et nunc – dunque una certa coincidenza nel presente del ricordo della violenza passata e del bisogno di progettare l’utopia futura. Questa esplosione della struttura della temporalità – l’immagine orfica di una “statica che trionfa sulla dinamica”[402] – ha una funzione critica, serve a sottrarre l’esperienza del presente all’eterno divenire che lo rende schiavo per liberarlo nella dimensione del godimento non represso. Ma essa muove in direzione di un’altra forma di immobilità: l’eterno presente della soddisfazione sensuale finalmente conquistata. Il rovesciamento dialettico del presente tramite la prassi rivoluzionaria non può che portare a risultati dialetticamente speculari alla logica del dominio: l’attività incessante del soggetto lascia spazio alla passività, l’eterno trascendere i limiti uno stabilirsi nell’immanenza, il continuo divenire altro-da-sé l’esigenza di un puro essere, di sostituire alla potenza della procrastinazione l’attualità di un’emancipazione dal bisogno che si è lasciata alle spalle “l’alleanza del tempo con l’ordine della repressione”[403].
Alcune precisazioni vanno fatte rispetto a questa immagine apparentemente mistica della liberazione. Il salto dalla preistoria alla storia, in un certo senso, si realizza come fuoriuscita dall’esperienza della storia, ma della storia del dominio e della sua forma della temporalità. Nel regno della necessità la felicità è solo la momentanea ed effimera sospensione del meccanismo razionale di riproduzione collettivo, nel regno della libertà la felicità non sarebbe possibile senza agire cosciente e dunque razionale. Come abbiamo già visto essa è la risultante e la controprova di un’autonomia pienamente realizzata.
Più che di una soppressione della storicità si dovrebbe pensare ad una sua pienezza, al superamento progressivo del tempo vuoto, ad un guadagno di immanenza. Il tempo storico, redento dalla lotta contro l’oppressione, potrebbe perdere la sua importanza ed essere vissuto finalmente come una variabile spaziale: l’idea dell’umanità che lenisce le ferite del mondo e affronta solidale la morte persa nell’eone cosmico cessa di essere nichilista e disperante. In alcuni film di fantascienza le date “stellari” promettono questo. L’illusione di un progresso lineare le fa invece risuonare sinistre, come epoche egizie di violenza.
Infine l’idea di un pieno godimento non va intesa come l’infantile illusione di un piacere esentato da ogni forma di negatività, dallo spettro dell’istinto di morte. L’arresto della dinamica infernale del dominio, della tensione verso il futuro, dell’accelerazione del tempo storico si accompagnano ad una crescita dell’istinto di morte come tentativo di placare la tensione e tornare allo stato inorganico. Il salto nel regno della libertà, in cui il tempo e la dinamica vengono sublimati in un ordine dell’appagamento, conduce infatti verso un equilibrio che assomiglia ad una nuova immagine del Nirvana: convergenza dunque di Eros e Thanatos. Nell’idea di una matura accettazione sociale della morte, Marcuse “proietta il ‘Nirvana’ come possibilità speculativa nei termini di una nuova ‘infrastruttura’ soggettiva che milita contro la repressione e la paura”[404]. Il punto non è dunque cancellare il conflitto delle pulsioni ma renderne possibile una diversa configurazione: la liberazione dell’Eros è anche “liberazione di Thanatos”[405]. Le ultime pagine di Eros e civiltà sono attraversate non a caso da questa malinconia, dalla presenza incancellabile della morte[406]. Nel godimento di una società fuoriuscita dall’inferno dell’illibertà potrebbe essere conservato, aufgehoben, questo momento di negatività: è il godimento dell’essersi lasciati alle spalle quel dolore che abbiamo attraversato, in cui l’immagine negativa di ciò che è andato irrimediabilmente perso, della solitudine e della sofferenza irredenta, penetra nel positivo; è la vittoria sull’insopprimibile ansia di vittoria; è la capacità di trattenersi dal dare libero sfogo alla propria volontà di potenza, non per guadagnare di più dopo ma per rispetto di un’alterità da cui ci si riconosce attraversati.
 
Paradisi perduti
Il secondo elemento da considerare è il ruolo dell’immaginazione. Essa appare già nel superamento della temporalità laddove è chiaro che quel recupero del passato e quella funzione anticipatrice del futuro in funzione critica rispetto al presente hanno sede nell’immaginazione come facoltà di presentificare ciò che non è (più e ancora). Nella sua capacità di trascendere le forme date l’immaginazione è imparentata con la libertà[407]. Abbiamo già visto il ruolo fondamentalmente liberatorio della memoria nei confronti della staticità oppressiva del presente, esso appare in Marx come riattivazione del divenire nell’essere, l’essenza come essere-divenuto che smaschera l’apparenza statica dell’oggetto[408]. La funzione conoscitiva della memoria appare in Freud, analogamente, come riattivazione del passato.
Tanto in senso filogenetico che ontogenetico il passato è l’accumulazione di una promessa infranta e della felicità tradita. Ecco perché “quando il conoscere cede il passo al ri-conoscere […] la regressione assume una funzione progressiva”[409]. Da un lato, “la restituzione della memoria è accompagnata dalla restaurazione del contenuto cognitivo della fantasia”; dall’altro, essa non manifesta in questo modo un attaccamento al passato quanto piuttosto al futuro, al possibile che è stato cancellato dalla civiltà[410]. Marcuse chiarisce bene la “duplice funzione” svolta dal passato nei processi formativi dell’individuo e, dunque, anche l’aspetto politico che ad essi si collega:
 
Ricordando il dominio del principio del piacere primordiale, quando la liberta dai bisogni era una necessità, l’Es trasporta le tracce della memoria di questo stato in ogni futuro che diventi presente; esso proietta il passato nel futuro. Ma il Super-Io, anch’esso inconscio, respinge le richieste che gli istinti pongono al futuro, in nome di un passato che non è più un passato di soddisfazione integrale, ma di amaro adattamento al presente punitivo[411].
 
Eros penetra nella coscienza come ricordo, il “tempo ritrovato”[412] è liberazione del passato, lotta nel tempo contro il tempo, alleato di un ordine che è connivente con la morte e la distruzione. “I paradisi perduti sono i soli paradisi veri”[413], scrive Marcuse, perché nel ricordo si attinge una gioia che sembra sottratta al tempo, contemplata non nel presente che sfugge e che quindi rende angoscioso quel tempo vissuto ma in una condizione di vivente atemporalità seppure illusoria. Il paradiso perduto è vita disinnescata nella sua meccanica distruttiva. Per essere non illusoria dovrebbe divenire azione storica di trasformazione: memoria come “costruzione”[414]. Solo nella lotta contro il dominio la lotta contro il tempo diventa una lotta progressiva.
Oggi che il ricordo vivo del fascismo si appanna è paradossale che sia proprio l’estrema destra ad egemonizzare la sfera della memoria. Essa lo mette al servizio della distruttività del presente. Come abbiamo visto, Marcuse vede nella razionalità tecnologica del capitalismo avanzato una paradossale sintesi di produzione e distruzione, sicurezza e controllo, tensione e soddisfazione dove tutto è “razionalizzato” e reso accettabile. Gli scenari di crisi, dal 2008 in poi, hanno reso questa razionalizzazione meno plausibile ma chi sembra averne maggiormente approfittato è stata la nuova destra, piuttosto che la sinistra tradizionale. In questo le organizzazioni storiche e la nuova sinistra post-68 sono senz’altro parzialmente responsabili e hanno decretato la cancellazione del proprio spazio politico, ma è vero che la strategia della destra è apparsa più plausibile. Essa, infatti, appare più “realista” della sinistra perché accetta quell’equilibrio funesto tra creazione e distruzione del capitalismo come un fatto naturale, da accettare, ma poi lo politicizza in modo regressivo con due mosse: 1) proietta l’utopia indietro, verso qualcosa che è esperito (anche se falsamente) nel ricordo retrospettivo e quindi meno astratto dell’utopia di sinistra; 2) proietta sulla sinistra il fattore distruttivo della sua esperienza. Ciò permette una spiegazione libidica della “caccia alle streghe” contro chi appare essere fuori dal sistema o alternativo rispetto ad una normalità vissuta in forma regressiva. La lista dei nemici interni degli anni ‘60 ha bisogno solo di piccoli ritocchi per essere aggiornata: neri, russi, cinesi, giapponesi, vagabondi, gay, hippies, comunisti. Nella diagnosi marcusiana, la maggioranza era infatti legata libidicamente al proprio stile di vita nel presente; oggi essa è legata ad uno stile di vita passato, inesistente. Essa rivendica un conformismo regressivo e paranoico, i diritti civili e liberazione sessuale vengono vissuti in forma persecutoria. In questo, come abbiamo detto, c’è un elemento di verità: il senso di sicurezza e prospettiva che era garantito dal keynesismo reale è andato perduto. Con la concentrazione di potere e la crisi della democrazia, il senso di dipendenza e illibertà si diffondono. La libertà viene sognata in modo regressivo, dentro le coordinate del sistema che nel frattempo si è trasformato in modo irreversibile.
Il rifiuto del godimento materialistico in nome di una mistica del sacrificio che si saldava con la nostalgia del mondo contadino e dei suoi valori “sani” e “semplici” è d’altronde una caratteristica del fascismo storico[415]. Il fine era l’adattamento alla nuova realtà economica che superava la crisi dello Stato liberale senza intaccare i rapporti di produzione e confermando le masse nella propria situazione di subordinazione. Nel sovranismo e nella nuova destra di oggi i due elementi sono mutati ma strutturalmente ancora presenti. Ciò che si vagheggia oggi è la “gloriosa” realtà industriale dei decenni passati che tuttavia assume sempre i contorni mitici di un’età dell’oro. E la mistica del sacrificio (benché non totalmente scomparsa: c’è tutto un linguaggio che allude all’onore, al valore, alla purezza e che si contrappone idealmente agli interessi materiali e meschini degli avversari politici o dell’élite...) passa attraverso la rielaborazione nostalgica del recente passato. Rientra in questa retorica la celebrazione degli anni belli e semplici in cui si giocava per la strada invece che col telefonino, in cui ci si accontentava di poco, in cui la vita era meno stressante ecc. Come sempre, la mentalità e la strategia fascista prende elementi della realtà e li ricompone per offrire un quadro interpretativo ipersemplificato che ha la funzione principale di identificare l’obiettivo del risentimento. Ogni volta che ammalia dipingendo di rosa ha come fine lo scatenamento delle pulsioni distruttive e il rosso del sangue, tutto ciò che viene esaltato viene esaltato ad un solo scopo: che qualcun altro per questo venga buttato giù.
 
Il futuro del lavoro
Anche l’immaginazione del futuro[416] come una condizione in cui la distinzione tra gioco e lavoro viene superata segue una dialettica parallela. Già nei saggi dei primi anni ‘30 tale distinzione appariva per un verso posta ontologicamente con la natura stessa del lavoro ma è, al tempo stesso, dinamizzata e tolta, aufgehoben, dalla natura storica e dinamica del lavoro. Se quindi il gioco si qualifica come non limitato dalla legalità dell’oggetto, quindi un’attività di svago, in quanto il soggetto è sempre presso-di-sé, e intermittente, il lavoro rappresenta invece un “peso”, come dice Marcuse, già da sempre e indipendentemente dal suo contenuto, in quanto indica un essere-presso-altro del soggetto che deve in qualche modo rispettare la legalità interna del suo oggetto[417]. Esso inoltre ha quel carattere di permanenza che manca al gioco, costituisce ciò lo sfondo della prassi normale su cui solo può stagliarsi la specificità negativa del gioco.
Ma se questo è vero, il superamento da parte di Marcuse di una concezione statica e astorica dell’ontologia, lo porta in progresso di tempo a negare questa opposizione e sfumarne i contorni fino ad un potenziale rovesciamento. Da un lato, infatti, l’automazione riduce il tempo e la fatica del lavoro rendendolo sempre più un’attività contemplativa, in cui il soggetto si pone come esterno[418] rispetto ad un processo che si svolge senza il suo coinvolgimento o comunque con una progressiva sua riduzione. Dall’altro, nella prospettiva del socialismo, l’alienazione del lavoro verrebbe tendenzialmente cancellata, facendo sì che la distinzione statica e astratta tra tempo libero e tempo di lavoro si ridefinisca radicalmente. Emancipando il tempo di lavoro esso emanciperebbe anche il tempo libero e in tal modo farebbe venir meno la servitù del gioco al tempo alienato[419]. La produzione, liberata dalla costrizione eteronoma del capitale, potrebbe assomigliare sempre più ad un gioco di forme, ad una sperimentazione delle potenzialità stesse della materia[420].
Ciò che non va dimenticato è che questa distinzione tra gioco e lavoro non viene semplicemente abolita perché 1) l’alienazione non può mai essere tolta completamente[421] e soprattutto perché 2) in questo caso il gioco assumerebbe i tratti di un’attività sociale e oggettiva, non individuale e soggettiva. In tutte queste considerazioni marcusiane sull’immaginazione è fondamentale, come ora vedremo, che si intenda questa facoltà come un processo e una realtà collettivi, non come facoltà individuali, e che si tratta di forze reali già operanti nell’attuale compagine storica, non di qualcosa che vada instaurato nel futuro[422]. Perfino quando Marcuse parla di una “società come opera d’arte” non sta proponendo una “estetizzazione della politica”[423]: occorre piuttosto riflettere sul fatto che ciò si applica, in certo modo, anche alla società del presente, è una sintesi che è operativa già ora seppure in forma distorta. Qui si misura quanto il rapporto tra l’idea di una nuova tecnologia e la logica estetica non sia “una semplice analogia”[424]. È proprio questo aspetto collettivo e già attuale a determinare possibilità e limiti del discorso sulla fantasia e sull’estetico.
La fantasia che è intrinsecamente collegata al principio del piacere[425] implica la sua astratta separazione dal principio di realtà e dunque l’impossibilità di usare la fantasia, nell’ordine dato, come elemento di rottura reale. La sua forma mutila ne limita le possibilità di trascendimento dell’organizzazione sociale data. Il valore di verità della fantasia va dunque articolato rispetto a questo suo limite empirico. Tutta la riflessione di Marcuse sulla dimensione estetica è volta a chiarificare questa dialettica. L’ordine estetico, l’ordine senza violenza in accordo alle “leggi della bellezza” che dovrebbe caratterizzare e al tempo stesso produrre una società liberata implica un doppio movimento: una autosublimazione della sensibilità e una desublimazione della ragione. Anche in questo caso vediamo che il punto di mediazione tra i due processi è ciò che appare nascosto e indecidibile a priori.
Anche se la terminologia usata da Marcuse non è sempre coerente occorre tuttavia distinguere immaginazione e fantasia sia nella loro funzione che rispetto al loro luogo di origine[426]. La prima ha a che fare con quella che Kant chiama immaginazione produttiva ed è un elemento centrale della ragione e della scienza perfino nel loro uso attuale. Lo stesso Hegel nell’Enciclopedia identifica la fantasia con la “ragione formale”[427]. Il riferimento di Marcuse al Kant dello schematismo trascendentale e della Critica del Giudizio è esplicito e costante, soprattutto nelle elaborazioni mature degli anni ’60-’70[428]. L’immaginazione nel senso qui inteso evoca il reale oltre le forme limitate della realtà data, dunque è un elemento essenziale del pensiero dialettico-negativo. Se non trova questo aggancio all’immaginazione produttiva, infatti, la razionalità coincide con “la razionalità della scarsità e del dominio” [429]. L’aspetto interessante della ricostruzione proposta da Marcuse, come abbiamo detto, è che l’immaginazione non solo non è una facoltà meramente individuale ma, proprio per questo, è qualcosa di già operante nella realtà data[430]. È lo stesso apparato tecno-scientifico a favorire il potenziale dell’immaginazione mentre produce gli strumenti con cui la società cerca di controllarla, imbrigliarla e limitarla. Se l’immaginazione produttiva è funzione della ragione ciò implica che nella società industriale avanzata c’è una crescita oggettiva dell’immaginazione[431] che viene però costantemente irregimentata nella forma ridotta della fantasia. L’immaginazione produttiva, potremmo dire, è una potenza sociale, mentre la fantasia è il suo uso derivato e individuale.
Questo è il nodo decisivo anche per quanto riguarda il rapporto tra Marcuse e l’ala hippie della Nuova Sinistra. C’è un parallelismo tra l’immaginazione produttiva come potenza trasformativa al di sotto delle immagini e degli archetipi della realtà immediatamente data e l’organizzazione della produzione materiale come potenza che egemonizza e dirige la sfera del consumo. Se non si coglie e focalizza l’attività trasformativa riconoscendo la centralità della produzione in entrambi i sensi, la contestazione dell’esistente si riduce a “fantasia privata” [432]. E la cosa non cambia se questa attività immaginifica viene condivisa in gruppi[433], essa rimane una forma parziale e non universale[434], una “generalizzazione astratta del particolare” [435]. In questo senso, “la liberazione (rifiuto) individuale deve incorporare nella protesta particolare l’universale” altrimenti “non si va oltre l’individuo borghese”, limitandosi “a rifiutare le prestazioni sociali, ad estraniarsi e a inventarsi un proprio modo di vivere”[436]. Ma si tratta di una creatività falsa che perde la tensione tra realtà personale e sociale, in quanto “la prima entra in contatto con la seconda per il tramite della società capitalistica”[437].
 
Il processo sociale della rivoluzione ha inizio in quegli individui nei quali l’emancipazione è divenuta bisogno vitale. Tali sono però gli individui che hanno oltrepassato i confini dell’Io. La struttura pulsionale emancipativa costituisce la solidarietà come forza delle pulsioni di vita. Già le pulsioni primarie, per quanto «prive di valori», implicano l’altro, nell’Eros così come nella distruzione. Esse contengono l’universale: sono pulsioni dell’individuo - ma dell’individuo in quanto «essere generico». […] Il «viaggio interiore» incontra, nell’Io, gli altri e l’altro - la società e la natura - per trovarvi non un mero confine dell’Io, ma le potenze costitutive dell’Io stesso. L’esperienza fondante, immediata, la cui rilevanza per l’individuo concreto potrebbe fungere da criterio di verifica, è tale sempre in quanto immediatezza mediata, e l’agire che motiva tale esperienza è quello di una soggettività comprendente che va la di là dell’Io. La «politica alla prima persona» è una contradictio in adjectio. Il viaggio interiore è necessario, dal momento che la dinamica dell’Io e dell’Es è occultata da efficienti controlli sociali, e la stessa individualità diviene, nel tardocapitalismo, merce. Se però il viaggio si arresta all’Io immediato, proclamando l’autenticità delle sue manifestazioni, esso soccombe al feticismo del mondo delle merci, e la controcultura creata su queste basi diviene parte e complemento della cultura costituita[438].
 
Come abbiamo visto, un’organizzazione solidale dei bisogni non è l’espressione di qualità solidali presenti nei bisogni stessi, quanto piuttosto la forma della loro socializzazione, dunque, la negazione, la contestazione della loro forma attuale. Per quanto il soddisfacimento del bisogno possa accompagnarsi ad un qualche tipo di anelito alla solidarietà esso non può generare da sé quella forma, non più di quanto un desiderio d’amore possa generare una relazione amorosa[439]. La solidarietà reale è affare di una ragione effettiva, condivisa, oggettiva prima ancora che di un sentimento non importa quanto intenso. Arrestarsi alle soglie di quel sentimento significa non sognare un mondo diverso ma fabbricarsi una chimera con i frammenti del mondo presente, con il suo atomismo sociale e la sua vuota libertà individuale. D’altronde, quella ragione che può dare forma ad un mondo condiviso non è solo l’astratto organo di un calcolo, quanto più radicalmente una forza divisiva, conflittuale, antagonista rivolta contro l’organizzazione, cioè la forma, di un mondo ingiusto. Questa ragione è una sintesi in fieri di sensibilità, immaginazione, libido e pensiero critico: la ragione dei reietti che cercano il bandolo della vita è così qualcosa di molto più passionale dell’abbraccio di marginali che si confortano a vicenda la propria irrilevanza.
 
Ai confini della liberazione umana
La critica di Marcuse alle derive anarcoidi ed edoniste della Nuova Sinistra si manifesta subito, dopo i primi entusiasmi, e sarà costante in tutti gli anni ’70[440]. Ciò concerne anche il problema del rapporto con la natura che appare in forma distorta nel misticismo hippie. Abbiamo visto come nella razionalità tecnologica repressiva la natura venga ridotta a oggettività: “un universo di cose e relazioni tra cose, il cui «telos» è quello di servire nel processo di produzione e riproduzione (la natura come ricreazione amministrata). Ciò esige la repressione della natura che resiste al principio di prestazione”[441]. È qui se ci colloca, come detto, il significato politico progressivo del rifiuto della quantificazione come operazione di cancellazione di una possibilità di organizzare in modo altro la produzione e il consumo. Il qualitativamente altro emerge dalla resistenza, non la resistenza dal qualitativamente altro. La saldatura tra resistenza della natura e movimenti ecologisti deve collocarsi su questo crinale: essa realizza la “coincidenza della causalità operante nella natura e della causalità operante nella libertà”[442]. Ma per fare ciò è necessario riconoscere nella natura la medesima dialettica di soggetto-oggetto che diagnostichiamo nella società. Il rifiuto dell’oggettivismo tecnologico non è la ricaduta nel soggettivismo mistico. Questo è il pericolo in cui incorre la Nuova Sinistra:
 
Il ritorno alla natura come elemento della prassi politica distingue in modo essenziale tali movimenti dai movimenti di evasione presenti nella nuova sinistra, nei quali la natura, assolutizzata, è elevata a principio di un’esistenza non alienata, autentica. Questi invocano la natura (interna e esterna) contro l’intelletto, l’immediatezza contro la riflessione. Coltivano proprio quella dicotomia che il processo di liberazione deve superare. Il culto dell’immediatezza è reazionario: è la regressione dalla natura come forza della dinamica sociale (come soggetto-oggetto) alla natura come pura soggettività, che già in quanto tale rappresenta il vero e il buono di contro alla società falsa e malvagia. Nella pura immediatezza, però, il falso e cattivo non è superato, è solo rimosso o dislocato sugli altri[443]. 
 
La negazione della natura come soggetto trova il proprio rovesciamento solo nel riconoscerla come limite – attivo, non passivo, soggettivo, non oggettivo – del potere umano[444]. Ma ciò implica, inevitabilmente, introdurre la natura nella dialettica storica, renderla momento del farsi cosciente e razionale della società. Come la natura si “ripresenta” nell’apparato tecnico-scientifico come rimossa, come cieca forza che incatena gli uomini al loro destino[445], così essa si mostra come momento della soggettività liberata nel potenziale utopico di quest’ultima. La storia della civiltà è la storia del ripudio di ciò che non è umano come estraneo, insensato, mortifero. “Con l’emergere dell’uomo come animale razionale – capace di trasformare la Natura in accordo con le facoltà della mente e le capacità della materia – ciò che è puramente naturale, come il subrazionale, viene ad assumere una posizione negativa. Diventa un regno che deve essere compreso ed organizzato dalla Ragione. […] Tutte le forme di esistenza subrazionale appaiono essere bisogno e privazione, e la loro diminuzione diventa un compito storico”[446]. Il costante riferimento di Marcuse alla possibilità dell’uomo di elevarsi al di sopra dell’animalità appare sempre corretto dalla necessità di superare la violenza insita nel dualismo spiritualista. Così, il “maltrattamento degli animali” fa parte dell’inferno che gli uomini hanno prodotto, senza essere stati capaci di superare la violenza intrinseca nella natura stessa[447]. Questa violenza si esprime nella religione come separatismo e suprematismo umano, desiderio di una salvezza “umana” in quanto “non-animale” (e, dunque, concessa all’uomo solo perché negata alle altre specie) che sradica l’umanità dal resto della natura. Per Marcuse invece, “l’essere umano è e resta animale, ma un animale che realizza e preserva il suo essere-animale facendone una parte di , del proprio essere libero in quanto Soggetto”[448]. Appartiene ai compiti della Ragione che si realizza storicamente nella società liberata il “ridurre conseguentemente le sofferenze che l’uomo infligge al mondo animale”[449]. Il fine della liberazione non può che essere una pacificazione al di là dei confini di specie: “l’eliminazione della violenza e la riduzione della soppressione al grado richiesto per proteggere uomini e animali dalla crudeltà e dall’aggressione sono condizioni preliminari per la creazione di una società umana”[450].
La rivalutazione marcusiana dei Manoscritti economico-filosofici non va quindi nel senso, allora in voga, di quell’“umanesimo socialista” [451] che aveva attirato le critiche di Althusser, bensì di un naturalismo socialista. La questione del soggetto, astrattamente negata dagli althusseriani, rimane fondamentale per un’adeguata teoria e prassi del rapporto con la natura. Gli anti-umanisti rimangono infatti bloccati in un antropocentrismo pratico che non sono in grado di superare. Essi non sanno intendere, come il giovane Marx intese, la natura come Verhalten, come “rapporto”[452]. Abbiamo già visto come la razionalità tecnologica non possa da sola uscire da tale impasse. Con la scienza moderna la natura appare all’uomo lo stesso luogo estraneo, insensato, mortifero che era nella religione: solo che ora essa cancella anche ogni speranza che possa essere altrimenti.
Occorrerebbe instaurare rapporti che permettano di spezzare la reificazione dell’animale che altro non è che una reificazione della stessa esperienza umana[453]. Le immagini orfiche di una fusione tra uomo e natura sono anticipazioni di una tecnica volta alla liberazione di quest’ultima, piuttosto che all’asservimento: “l’opposizione tra uomo e natura, soggetto e oggetto, è superata. L’esistere è inteso come soddisfazione che unisce uomo e natura, in modo che la realizzazione dell’uomo sia al tempo stesso la realizzazione, senza violenza, della natura”[454]. Analogamente, il mito di Narciso, lungi dall’incamerare l’egoismo prevaricatore inaugura una forma di amore che si è posto al di là del conflitto tra sé e l’altro: “egli non sa che l’immagine che egli ammira è la sua”[455].
Nell’umanità, nella sua capacità di costruire un mondo fatto di relazioni, si gioca appunto il destino stesso dell’animalità che non è se non il fantasma che ossessiona la storia universale come il suo altro[456]. Un altro che urge dentro e fuori le mura della nostra humanitas, della nostra civiltà, del nostro progresso. L’animale è il calco negativo dell’umano, ciò che storicamente doveva essere negato perché l’uomo potesse affermarsi. La schiavitù della natura soggioga l’animale all’uomo permettendo al potere politico e religioso di sublimarsi come progenie degli dei. La libertà come emancipazione dalla natura è sempre anche asservimento di ciò che deve essere negato per affermare l’autonomia del dominatore. Vera libertà sarebbe invece solo l’emancipazione del dominatore e del dominato da quel vincolo di violenza e morte: l’emancipazione della natura. “La conquista della Natura riduce la cecità, la ferocia dell’uomo contro la Natura – il che implica ridurre la ferocia dell’uomo contro la Natura”[457]. Lo “stupro” che l’umano perpetra nei confronti della Natura non è una metafora e non fa che rispecchiare il modo in cui gli umani vengono trattati: c’è una “relazione essenziale tra la distruzione dell’uomo e la distruzione della natura”[458]. Per liberare veramente sé stesso l’uomo dovrebbe liberare gli animali dal suo potere, liberare l’animale in lui dalla violenza e dalla repressione con cui la cultura patriarcale e spiritualista lo ingabbia e costruire una società in cui l’allentamento di quel potere favorisce la nascita di nuovi rapporti all’interno e all’esterno della specie.
Anche se ormai vive solo nel ricordo di Hilary Rose lo scambio di battute tra Marcuse e il suo intervistatore in un programma televisivo degli anni ‘60 rimane da questo punto di vista memorabile: “E cosa farà, prof. Marcuse, dopo che avrà raggiunto la liberazione umana? Marcuse rifletté un secondo, poi sorrise felice: Liberare gli animali, ovviamente[459].
 
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[1] Paul Breines, Eidotr’s note in Id. (a cura), Critical Interruptions: New Left Perspectives on Herbert Marcuse, Herder and Herder, New York 1970, p. ix.
[2] W. M. Cobb, “Diatribes and Distortions : Marcuse’s Academic Reception”, in J. Abromeit - W. M. Cobb (a cura di), Herbert Marcuse. A Critical Reader, Routledge, New York – Londra 2004, p. 163. 
[3] Cfr. M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. K-punk/1, minimum fax, Roma 2018.
[4] M. Taibbi, Marcuse-Anon: Cult Of The Pseudo-Intellectual, TK News, 2016.
[5] W. S. Lind, The Scourge of Cultural Marxism, in “The American Conservative”, maggio-giugno 2018, p. 12.
[6] A. Kelly-Woessner, How Marcuse made today’s students less tolerant than their parents, “Heterodox Academy”, 23 settembre 2015.
[7] A. Feenberg, Marcuse: Obstinacy as a Theoretical Virtue, in “Capitalism, Nature, Socialism”, settembre 1992, pp. 38-40.
[8] M. Watson, In Defense of Herbert Marcuse, “Jacobinmag”, 27 febbraio 2021.
[9] Cfr. F. Depuis-Déri, Herbert Marcuse and the “Antiglobalization” Movement: Thinking Through Radical Opposition to Neoliberal Globalization, in “Radical Philosophy Review” 16(2), 2013, pp. 529-547. P. Marcuse, Occupy Consciousness: Reading the 1960s and Occupy Wall Street with Herbert Marcuse, ibid., pp. 405-424; A. O. Lamas – T. Wolfson - Peter N. Funke, Herbert Marcuse and Contemporary Social Movements, Temple University Press, Philadelphia 2017,
[10] La ricostruzione ha lo scopo di restituire il pensiero di Marcuse in forma sincronica, non diacronica. Si tratta cioè di evidenziare le strutture di fondo che guidano il discorso marcusiano al di là dei cambiamenti di accenti nelle diverse fasi della sua evoluzione. S’intende che la coerenza che in questo modo cerchiamo di evidenziare nelle sue tensioni di fondo dovrebbe anche riuscire a spiegare quelle apparenti o momentanee discrepanze.
[11] A. Davis, Marcuse’s Legacies, in Herbert Marcuse. A Critical Reader, cit., p. 50.
[12] H. Marcuse, “Sulla filosofia concreta”, in Id., Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 5 e sgg.
[13] Questo legame, come vedremo, si fonda sulla centralità della prassi nel marxismo marcusiano. Cfr. A. Schmidt, “Ontologia esistenziale e materialismo storico in Herbert Marcuse”, in J. Habermas (a cura di), Risposte a Marcuse, Bari, Laterza, 1969, p. 44.
[14] Cfr. H. Marcuse, “Sul problema della dialettica”, in Id., Filosofia e politica. Scritti e interventi. Vol. 5, Manifestolibri, Roma 2019, pp. 220 e sgg. Sulla differenza tra il giovane Marcuse e Heiddeger cfr. J. B. Ferreira de Souza, Towards a Theory of Action: Ontology and Politics as Foundations of Herbert Marcuse’s Dialectical Phenomenology, in “Estudios de Filosofía”, 62, 2020, pp. 97-118; A. Feenberg, “Heidegger and Marcuse: The Catastrophe and Redemption of History”, in Herbert Marcuse. A Critical Reader, cit., pp. 67-80; J. Abromeit, “Herbert Marcuse’s Critical Encounter with Martin Heidegger. 1927-33”, ibid., pp. 131-151.
[15] H. Marcuse, “Marxismo trascendentale”, in Id., Marxismo e rivoluzione, cit., p. 37.
[16] Ibid., p. 46.
[17] Ibid.
[18] Ibid., p. 43.
[19] H. Marcuse, “Per una discussione di Sociologia come scienza della realtà di Hans Freyer”, in Id., Filosofia e politica, cit., p. 58.
[20] H. Marcuse, “Marxismo trascendentale”, cit., pp. 54-55.
[21] Ibid., p. 55.
[22] “I caratteri di base della storicità vengono (ontologicamente) prima di ogni struttura sociale determinata; devono poter essere enucleati senza trasformarsi in categorie astratte e formali”. H. Marcuse, “Per una discussione di Sociologia come scienza della realtà di Hans Freyer”, cit., p. 55.
[23] H. Marcuse, “Sulla filosofia concreta”, cit., pp. 13-14.
[24] Ibid., p. 25.
[25] H. Marcuse, Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus, in Id., Schriften, Band 1. Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981, p. 347.
[26] H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969.
[27] Ibid., p. 52.
[28] Ibid., p. 45. Come osserva correttamente Fortunato: “Marcuse rinviene in Hegel l’insegnamento secondo cui l’uomo può giungere a possedere la verità in quanto può e deve concorrere decisamente a costruirla: l’eredità forse più preziosa che Marcuse pensa di avere ricevuto da Hegel è l’idea che artefice e protagonista della storia sia una sorta di unità mobile di soggetto e oggetto, di ragione e di materia, in cui le due componenti hanno sì eguale dignità, ma è quella soggettiva a svolgere in ultima analisi un ruolo trainante”. M. Fortunato, Marcuse, Grandangolo, Milano 2015, pp. 65-6.
[29] H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., p. 53.
[30] Ibid., pp. 187 e sgg.
[31] Ibid., p. 191.
[32] Ibid., pp. 200-202.
[33] Ibid., p. 197.
[34] Ibid., p. 196.
[35] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, in Marxismo e rivoluzione, cit., p. 76.
[36] Ibid.
[37] Ibid., p. 96.
[38] Ibid., p. 89.
[39] Ibid., p.90.
[40] H. Marcuse, “Per una logica materialistica”, in Filosofia e politica, cit., pp. 163 e sgg.
[41] Ibid., p. 176.
[42] Ibid., p. 177.
[43] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1991, pp. 219-220 [trad. mod.].
[44] “In vista di queste caratteristiche la coscienza può ben essere chiamata un’inclinazione, una propensione, o una facoltà. Non è un’inclinazione o una facoltà individuale tra le altre, tuttavia, ma è in senso stretto un’inclinazione generale che è comune, in varia misura ai singoli membri di un gruppo, di una classe, di una società. Su queste basi la distinzione tra coscienza vera e coscienza falsa assume significato. La coscienza vera dovrebbe sintetizzare i dati dell’esperienza in concetti che riflettano, il più ampiamente e adeguatamente possibile, la società data nei fatti dati. Questa definizione ‘sociologica’ è suggerita non a motivo di un qualche pregiudizio a favore della sociologia, bensì a motivo della effettiva presenza della società nei dati dell’esperienza”. Ibid., p. 220 [trad. mod.].
[45] G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 2004, vol. 2, p. 774.
[46] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale, Il mulino, Bologna 1967, p. 293.
[47] Ibid., p. 329.
[48] Ibid., p. 319.
[49] H. Marcuse, “Libertà e verità nell’epoca del positivismo”, in Filosofia e politica, cit., p. 159.
[50] D. Kellner, Herbert Marcuse and the Crisis of Marxism, University of California Press, Berkeley – Los Angeles 1984, p. 372.
[51] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, cit., p. 331.
[52] Ibid., p. 341.
[53] Ibid., p. 350.
[54] Ibid.
[55] Proprio perché è una totalità determinata essa permette di pensare il suo oltrepassamento. Non c’è in Marcuse alcuna visione totalizzante della negazione che renderebbe impossibile la critica, come sostenuto, ad es., in K.-H. Sahmel, Vernunft und Sinnlichkeit: Eine kritische Einführung in das philosophische und politische Denken Herbert Marcuses , Forum Academicum, Königstein 1979, pp. 223 e sgg.
[56] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, cit., p. 351.
[57] È molto importante e significativo che la dialettica non sia pensata da Marcuse come “teoria dei conflitti” in generale e, allo stesso tempo, che il superamento della dialettica storica non porti ad un mondo privo di conflitti: “certamente la lotta contro il ‘regno della necessità’ continuerà anche dopo il passaggio dell’uomo allo stadio della sua ‘vera storia’, e la negatività e la contraddizione non scompariranno. Ciò nonostante, quando la società diviene il libero soggetto di tale lotta, quest’ultima assume forme completamente diverse. Per tale ragione non si può imporre la struttura dialettica della preistoria alla futura storia dell’umanità”. Ibid., p. 352. 
[58] H. Marcuse, “The Containment of Social Change in Industrial Society”, in H. Marcuse, Towards a Critical Theory of Society. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 2, Routledge, New York - Londra 2001, p. 84.
[59] J. Alway, Critical Theory and Political Possibilities: Conceptions of Emancipatory Politics in the Works of Horkheimer, Adorno, Marcuse, and Habermas, Greenwood Press, Westport - Londra 1995, p. 85.
[60] Sicuramente non per “opporre” una qualche forma di “mitologia alla mistificazione”. D. Phillips, The Truth of Ecology: Nature, Culture, and Literature in Americabooks, Oxford University Press, 2003, p. 107.
[61] Cfr. ad es. Depuis-Déri: “people may be quantitatively happy because of their numerous possessions, but their lives are qualitatively impoverished”. F. Depuis-Déri, Herbert Marcuse and the “Antiglobalization” Movement, cit., p. 534. P. Marcuse parla, più correttamente, di “quality of life in the system as a whole”. P. Marcuse, Occupy Consciousness, cit., p. 484.
[62] H. Marcuse, “La fine dell’Utopia, in Id., La fine dell’utopia, Manifestolibri, Roma 2008, p. 22.
[63] H. Marcuse, “Marxism Confronts Advanced Industrial Society”, in Marxism, Revolution and Utopia, cit., p. 245
[64] Come vedremo, l’affermazione di Marcuse sul fatto che la classe operaia dei paesi industrializzati, perdendo la sua “negatività” rispetto al sistema, la sua “differenza qualitativa” dalle altre classi, “non è in grado di creare una società qualitativamente differente” (H. Marcuse, “Socialism in the Developed Countries”, in H. Marcuse, Marxism, Revolution and Utopia. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 6, Routledge, New York - Londra 2014, pp. 178-179) non significa mai il superamento ma solo la sospensione della contraddizione centrale tra Capitale e Lavoro. Cfr. le puntualizzazioni di P. Mattick, “The Limits of Integration”, in K. H. Wolff – B. Moore (a cura di), The Critical Spirit: Essays in Honor of Herbert Marcuse, Beacon Press, Boston 1968, p. 398.
[65] “For capitalism is based on an inherent antagonism and struggle between diametrically opposed material forces. The class struggle is this selfsame process; indeed, it is the disruption and nonreproduction of capitalist social relations, their refusal and potential rupture, in which the future becomes truly unwritten, and a glimpse of a mode of life qualitatively beyond the form it presently takes as it is not lived”. Ch. Garland, “Negating That Which Negates Us. Marcuse, Critical Theory, and the New Politics of Refusal”, in Herbert Marcuse and Contemporary Social Movements, cit., p. 61.
[66] Lo stesso potrebbe dirsi delle questioni ambientali: il grido di allarme che da cinquant’anni a questa parte si leva contro l’inquinamento era assolutamente vero allora come oggi. Ma il “punto di non ritorno” viene spostato sempre in avanti poiché fondamentalmente anche il suo grado di “tollerabilità” si misura nell’antagonismo che gli si oppone socialmente.
[67] È chiaro che questa torsione su sé stesso del lavoro è a sua volta effetto del capitale, ovvero di una specifica configurazione storica delle forze e dei rapporti di produzione. Non è il lavoro “in generale” a produrre il capitale, semmai è il capitale e a porre in essere il lavoro salariato generalizzato. La nozione di capitale come “presupposto posto” deve rendere conto anche di questo paradosso in cui l’analisi genetico-storica e quella sistemica-teorica del capitale si intrecciano originariamente. Come vedremo più in là, quando Marx sembra riprendere quasi con le stesse parole l’analisi “antropologica” del lavoro dei Manoscritti nella prima parte del Capitale questa è tuttavia superata (aufgehogen?) nell’analisi del lavoro astratto e della sua relazione con l’accumulazione capitalistica.
 [68] Soprattutto perché non c’è alcuna “unità originaria” che va scindendosi in due. Cfr. L. Colletti, “Marxismo e dialettica”, in Id., Intervista politico-filosofica, Laterza, Bari 1075, p. 111.
[69] H. Marcuse, “Liberation from Affluent Society”, in Id., The New Left and the 60s. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 3, Routledge, New York - Londra 2005, p. 79.
[70] H. Marcuse, “Socialism in the Developed Countries”, cit., pp. 173-174n
[71] K. Marx, Critica del programma di Gotha, Feltrinelli, Milano 1968, p. 16.
[72] Sull’importanza di Hegel nella lettura del Capitale cfr. R. Bellofiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis, Milano 2018 e Id., Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Rosenberg & Seiller, Torino 2020, pp. 141-207.
[73] H. Marcuse, Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus, cit., p. 347.
[74] Ibid.
[75] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, cit., p. 74.
[76] Contrariamente a quanto sostenuto da Marcello Musto non c’è nessuna confusione in Marcuse tra “oggettivazione” e “alienazione”. M. Musto, Riflessioni su Marx e i marxismi, ed. Gio.Co, 2020, p. 37.
[77] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, p. 85; H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro nella scienza economica”, in Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1969, p. 174.
[78] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, cit., p. 90.
[79] Nella descrizione che ne dà Marcuse può sembrare che tra l’individuo e la società venga a mancare un’adeguata descrizione dell’intersoggettività in termini di classe. Soprattutto nelle prime opere ancora troppo legate all’orizzonte di Essere e tempo come Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus – che pure hanno di vista la giustificazione filosofica della rivoluzione! - la prassi è ancora determinata astrattamente in termini di “atteggiamento” (Haltung) nei confronti del mondo-ambiente. Cfr. Schmidt, “Ontologia esistenziale e materialismo storico in Herbert Marcuse”, cit.
[80] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, cit., p. 85.
[81] Ibid., p. 95.
[82] A. Ferruccio, Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt, Edizioni Diabasis, Parma 2005, p. 146.
[83] H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro”, cit., pp. 164 e sgg.
[84] Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, Jaca Book, Milano 2018, pp. 199 e sgg.
[85] Soprattutto laddove una reazione interna alla Nuova Sinistra verso la fine degli anni ‘60 portò alcune frange del movimento ad abbandonare la critica “qualitativa” per adottare una posizione e un linguaggio rigidamente “marxista-leninista”, ciò che Marcuse chiamò “ritualizzazione del marxismo”. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, Mondadori, Milano 1972, pp. 43 e sgg. Come osservò acutamente Paul Breines: “when the critique of the quality of life in capitalist society is dropped, the possibility of a self-critique of the quality of the Movement is lost”. P.  Breines, “From Guru to Spectre: Marcuse and the Implosion of the Movement” in Critical Interruptions, cit., pp. 19-20.
[86] G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. II, p. 667. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., p. 54 e p. 93.                                                                                                          
[87] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo. Verso una sintesi storica a partire dall’analisi di Bahro” (1978), in Id., Oltre l’uomo a una dimensione. Scritti e interventi vol. I, Manifestolibri, Roma 2005, p. 271; Id., “Oltre il marxismo cattivo”, ibid., p. 280; Id., “La fine dell’utopia”, in La fine dell’utopia, cit., p. 47; Id., “Repressione sociale e repressione psicologica. Sull’attualità politica di Freud” (1962), in Id., Teoria critica del desiderio. Scritti e interventi vol. IV, Manifestolibri, Roma 2011, p. 60,
[88] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, cit., p. 107.
[89] H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro”, cit., p. 153.
[90] Cfr. G. W. F. Hegel, Enciclopedia, cit., p. 325 in cui vengono distinti Entwicklung e Übergehen.
[91] Ibid., p. 162.
[92] H. Marcuse, “Nuove fonti per il materialismo storico”, cit., p. 85.
[93] Ibid., p. 76.
[94] Ibid., pp. 100-101
[95] Ibid., p. 93.
[96] Questa doppia veste dell’universale è legata alla stratificazione del concetto di negazione in Marcuse. Cfr. R. J. Bernstein, “Negativity: Theme and Variations”, in R. B. Pippin et al. (a cura di), Marcuse: Critical Theory and the Promise of Utopia, MacMillan, Londra 1988, pp. 14-15.
[97] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 221.
[98] Ibid., p. 217.
[99] Ibid., p. 218. Troviamo qui di nuovo il rapporto tra Universale (U), Particolare (P) e Singolare (S) che caratterizza la Logica del Concetto hegeliana.
[100] Mi pare insufficiente, in tal senso, l’idea che la Teoria critica parteggi per il particolare contro l’universale. P. V. Zima, Guida alla Scuola di Francoforte. La dialettica del particolare, Rizzoli, Milano 1976, p. 30.
[101] È significativo, forse, che la famosa affermazione di Lenin secondo cui i marxisti non hanno capito il Capitale perché non hanno letto la Logica di Hegel appaia nei suoi Quaderni filosofici proprio durante la lettura della Logica del Concetto e della teoria hegeliana del sillogismo (che Lenin stesso vede all’opera nel I capitolo del Capitale). V. I. Lenin, Quaderni filosofici, in Id., Opere, Editori riuniti, Roma 1969, vol. XXXVIII, p. 165.
[102] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, cit., p. 97.
[103] Cfr. R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa, cit., p. 145.
[104] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, cit., p. 186.
[105] Ibid., p. 188.
[106] Cfr. R. Bellofiore, Le avventure della socializzazione, cit., p. 143.
[107] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, cit., pp. 318-319.
[108] H. Marcuse, “Nuove fonti per il materialismo storico”, cit., p. 81
[109] “Oggettività significa in primo luogo soltanto l’altro da sé”, H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro”, cit., p. 168.
[110] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 77-78.
[111] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, cit., pp. 84-85.
[112] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 86-87.
[113] H. Marcuse, “L’individuo nella Grande Società”, in Id., Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968, p. 95.
[114] H. Marcuse, “Umanismo socialista”, in Critica della società repressiva, cit., p. 49.
[115] Sul concetto di Vergesellschaftung capitalistica cfr. R. Bellofiore, Le avventure della socializzazione, cit.
[116] H. Marcuse, “Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico”, cit., p. 108.
[117] H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro nella scienza economica”, cit., p. 185.
[118] R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa, cit., p. 141.
[119] I. Kant, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1995, pp. 182 e sgg.
[120] Ibid., p. 186.
[121] Ibid., p. 191.
[122] G. Fichte, Dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 79.
[123] F. W. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Rusconi, Milano 1997, p. 105.
[124] Ibid., p. 116; G. Fichte, Dottrina della scienza, cit., p. 114.
[125] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, Milano 1995, p. 335.
[126] G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Rusconi, Milano 1996, p. 709.
[127] H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., pp. 187 e sgg.
[128] F. W. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, cit., pp. 115-117.
[129] G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1996, pp. 563 e sgg. G. W. F. Hegel, Enciclopedia, cit., pp. 867 e sgg.
[130] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofai della storia, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 23.
[131] Ibid., pp. 21-22.
[132] G. W. F. Hegel, Lineamenti, cit., p. 563.
[133] G. W. F. Hegel, Lezioni, cit., p. 10.
[134] G. W. F. Hegel, Fenomenologia, cit., p. 1053.  
[135] Ibid.
[136] Cfr. R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa, cit., ibid.
[137] Questa è la profonda differenza tra il circolo del capitale e il circolo del soggetto assoluto hegeliano: mentre il primo cancella il passato per darsi un nuovo inizio ed esso fa sparire dentro i fenomeni il movimento che li produce, lo Spirito Assoluto completa il proprio circolo solo attraverso la memoria, l’Erinnerung, di ciò che è stato. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia, cit., p. 1063. Sul valore critico della memoria cfr., infra, “Sensibilità, immaginazione e liberazione della natura”
[138] “Il mio nuovo libro, dal titolo provvisorio Studies in the Ideology of Advanced Industriai Society costituisce una sorta di complemento occidentale di Soviet Marxism”. H. Marcuse, lettera a Raya Dunayevskaya, 8 agosto 1960, in Id., Marxismo e nuova sinistra. Scritti e interventi vol. II, Manifestolibri, Roma 2007, p. 322.
[139] H. Marcuse, Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968, p. 4.
[140] Ibid., p. 20.
[141] Ibid., p. 40.
[142] Ibid., pp. 70-71 e p. 84.
[143] Ibid. Cfr. H. Marcuse, “Some Social Implication of Modern Technology”, in H. Marcuse, Technology, War and Fascism. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 1, Routledge, New York - Londra 1998, p. 41.
[144] H. Marcuse, Soviet Marxism, p. 73.
[145] Ibid., pp. 74-75.
[146] Ibid., p. 95 e p. 100.
[147] Ibid., p. 102.
[148] Ibid., p. 117.
[149] Ibid., pp. 119-121.
[150] Ibid., p. 121.
[151] Ibid.
[152] Ibid., p. 133.
[153] Esso trova la propria origine nella dialettica “aperta” di Marx: “libertà e necessità rimangono in una tensione irrisolta. Soggetto e oggetto non giungono mai a unità: il confronto con la natura (e con la società reificata a natura) rimane un regno della necessità-oggettività, che non può mai essere risolto o redento nella soggettività”. H. Marcuse, “Sulla storia della dialettica”, in Filosofia e politica, cit., p. 255.
[154] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., pp. 125-126.
[155] Ibid., p. 128.
[156] Ibid., p. 130.
[157] Ibid., pp. 143-144.
[158] Ibid., p. 254.
[159] Ibid., p. 155.
[160] Ibid., p. 161.
[161] Ibid., p. 162. Non mi pare accurata, da questo punto di vista, la ricostruzione proposta da Postone in M. Postone, Critical Theory and the Historical Transformations of Capitalist Modernity, in M.J. Thompson (a cura di), The Palgrave Handbook of Critical Theory, Palgrave Macmillan, 2017, pp. 137 e sgg. Per una ricostruzione dettagliata del rapporto Marcuse-Pollock cfr. Ph. Lenhard, “Capitalismo di stato e Automazione. Considerazioni sulla critica dell’economia politica nell’opera tarda di Herbert Marcuse e Friedrich Pollock” in N. Emery (a cura di), Automazione e Teoria critica. A partire da Friedrich Pollock, Mimesis, Milano 2018, pp. 73-102.
[162] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 233.
[163] Haug sostiene, secondo me a torto, che Marcuse qui abbandoni il concetto di “negazione determinata”. Cfr. W. F. Haug, “Il tutto e l’affatto diverso”, in Risposte a Marcuse, cit., p. 58-59.
[164] Dunque ogni interpretazione formalistica sul piano dell’agire comunicativo è da escludere o, al limite, da considerare in aggiunta. Cfr. infra, “Aporie della razionalità discorsiva”.
[165] “La libertà è autodeterminazione, autonomia – questa è quasi una tautologia che risulta da un’intera serie di giudizi sintetici. Essa stabilisce l’abilità di ognuno nel determinare la propria vita […]. Ma il soggetto di questa autonomia non è mai l’individuo contingente, privato […] è piuttosto l’individuo come essere umano che è capace di vivere libero con gli altri. E il problema di rendere possibile una tale armonia tra la libertà di ogni individuo con l’altro non è quello di trovare un compromesso tra i competitori, o tra la libertà e la legge, tra gli interessi generali e quelli individuali, il benessere comune e quello privato in una società stabilita, ma quello di creare la società in cui l’uomo non è più schiavo delle istituzioni che viziano l’autodeterminazione fin dagli inizi”. H. Marcuse, “La tolleranza repressiva”, in R. P. Wolff – B. Moore jr – H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968, p. 83.
[166] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 261.
[167] H. Marcuse, “L’individuo nella Grande Società”, cit., p. 88.
[168] L. Mandara, Critical Theory and Pleasure in Herbert Marcuse, in Philosophy International Journal, 2021, 4(1), p. 5.
[169] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 61.
[170] Nel sillogismo hegeliano vediamo che S, U e P sono forme relative, sottoposte ad una mediazione reciproca. Al tempo stesso, è importante sottolineare come per Hegel sia il singolare/individuale a porsi come forma del reale. G. W. F. Hegel, Enciclopedia, cit., p. 329. Hegel sviluppa il sillogismo matematico (U-U-U) dalla reciproca uguaglianza dei diversi elementi del sillogismo qualitativo cfr. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. 2, p. 774.
[171] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., pp. 175-176.
[172] Ibid., p. 177.
[173] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., p. 177
[174] Ibid., p. 178.
[175] Ibid., p. 222.
[176] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 250. Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., pp. 60-61.
[177] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 258.
[178] Ibid., p. 250.
[179] Ibid., p. 251.
[180] Ibid. Sul rapporto tra bisogni, edonismo e la funzione critica dell’ascetismo idealistico cfr. H. Marcuse, “Sul carattere affermativo della cultura”, in Cultura e società, cit., p. 44 e p. 84; Id., “Per la critica dell’edonismo”, in Cultura e società, cit., pp. 110-111.
[181] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 86. Contrariamente a quanto sostenuto da Colletti non c’è qui alcuna confusione tra materialismo e idealismo. Cfr. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969, pp. 225 e sgg.
[182] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 252.
[183] Ibid., p. 251.
[184] Ibid., p. 252.
[185] Ibid. Cfr. l’ipotesi di una Aufhebung dello spontaneismo anarchico attraverso la necessità di una pianificazione razionale della società: H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 105. Cfr. anche H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 59 e sgg.
[186] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 254.
[187] Ibid., p. 255.
[188] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., pp. 87-102.
[189] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 255.
[190] Ibid.
[191] Ibid., p. 256.
[192] Su questo cfr. anche H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 56.
[193] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., p. 254.
[194] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 259.
[195] Ibid., p. 257.
[196] Ibid., pp. 258-259
[197] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., p. 218.
[198] Sui fraintendimenti della ricezione di Marcuse cfr. J. Abromeit - W. M. Cobb, Introduzione a Herbert Marcuse. A Critical Reader, cit., pp. 1-40 e W. M. Cobb, “Diatribes and Distortions : Marcuse’s Academic Reception”, ibid., pp. 163-187.
[199] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 22.
[200] Ibid., p. 23.
[201] Mentre in Soviet Marxism la mobilitazione bellica diveniva fonte irrazionale di distruzione della ricchezza sociale prodotta e dunque un ostacolo alla costruzione di una società realmente socialista, qui essa contribuisce alla crescita economica che stabilizza il sistema. Ibid., p. 41.
[202] Ibid., p. 23.
[203] Ibid., p. 71.
[204] “La contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro continua a esistere in tutta la sua asprezza, ma, in questo periodo, diviene totale: quasi l’intera popolazione dipendente costituisce «il lavoro» in opposizione al capitale. Con ciò, anche il concetto marxiano della rivoluzione socialista come rovesciamento posto in essere dalla gran parte della popolazione recupererebbe la sua validità. Tale dicotomia caratterizza la società tardocapitalistica, riprodotta dall’«operaio complessivo» e controllata da una piccola cricca. L’operaio complessivo viene a coincidere col popolo, costituito dagli strati dipendenti della popolazione. All’interno di questa unità dominano le contraddizioni. Non c’è una coscienza di popolo, che corrisponda alla coscienza di classe. I diversi interessi compensativi comprendono l’intero spettro della cultura materiale e intellettuale, dal radicalismo, al conservatorismo e al fascismo, dalla volontà di prestazione al desiderio dell’abolizione del lavoro. E l’integrazione democratica che consente una tale differenziazione nell’unità della condizione di dipendenza. Può emergere, qui, l’interesse all’emancipazione universale?”. H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., pp. 263-264.
[205] Ibid., p. 263.
[206] Marcuse osservava che senza solidarietà con la Nuova Sinistra la base “operaia” degli anni ‘70 avrebbe potuto divenire la base di massa per il neofascismo (H. Marcuse, “Riesame del concetto di rivoluzione”, in Il marxismo e la nuova sinistra, cit., p. 65). A posteriori, tuttavia, e sulla base dello stesso pensiero marcusiano, possiamo dire che il medesimo effetto è determinato dall’assenza di solidarietà della Nuova Sinistra nei confronti della base operaia.  
[207] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 23.
[208] “L’universo allargato dello sfruttamento è una totalità di macchine – macchina umana, economica, politica, militare, educativa; ed è controllato da una gerarchia sempre più ‘professionalizzata’ di manager, uomini politici, generali”. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 21.
[209] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 47.
[210] Ibid., p. 55-56. Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 400 e sgg. Cfr. anche H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 20 e sgg.
[211] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 48.
[212] L’uso del termine Verdinglichung non è specifico in Marcuse e non mi pare abbia un impatto negativo o confusivo sulla sua teoria. Sulla necessità di distinguere tra “reificazione” e “feticismo” cfr. Ch. Reitz, Ecology and Revolution. Herbert Marcuse and the Challenge of a New World System Today, Routledge, New York – Londra 2019, 142 e sgg. Va comunque sottolineato che, pur sapendo all’occasione distinguere alienazione e oggettivazione, Marcuse non è alla ricerca di una terminologia incontrovertibile: è più interessato agli aspetti di verità critica che emergono dall’uso e dall’incrocio di terminologie diverse.
[213] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit.,, p. 56.
[214] Ibid., p. 24.
[215] Ibid., p. 25.
[216] Se non viene posta in modo negativo, come attiva negazione di un particolare, l’universalità del bisogno diventa il requisito per la realizzazione di un’astratta “natura umana”. Cfr. J. Cutts, Herbert Marcuse and “False Needs”, in “Social Theory and Practice” 45 (3), 2019, pp. 353-370.
[217] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 25.
[218] H. Marcuse, “Per la critica dell’edonismo”, cit., p. 144.
[219] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 26.
[220] Ibid., p. 28. Cfr. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 58.
[221] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 27.
[222] La questione viene non a caso ripresa da Marcuse anche in questo testo cfr. pp. 58-64
[223] Ibid., p. 27.
[224] Ibid., p. 29.
[225] Ibid., p. 28.
[226] L’innalzamento vertiginoso del tenore di vita in Occidente ha reso Marcuse sempre molto critico rispetto alla teoria del cosiddetto “immiserimento relativo” della classe operaia. Cfr. H. Marcuse, “L’obsolescenza del marxismo”, in Critica della società repressiva, cit., p. 127.
[227] Questo è uno dei tanti luoghi in cui si mostra quanto sia improprio parlare di una “contrapposizione quasi dicotomica” tra principio del piacere e principio di realtà in Marcuse. Cfr. H. Berndt – R. Reiche, “La dimensione storica del principio della realtà”, in Risposte a Marcuse, cit., p. 111.
[228] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 29.
[229] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino 1969, p. 102.
[230] Qui Marcuse cita il modello di ideologia elaborato da Adorno cfr. Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino 1966, p. 225.
[231] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., pp. 30-31.
[232] Ibid., p. 32.
[233] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., p. 74.
[234] Ibid., p. 74.
[235] Ibid. p. 75.
[236] Ibid. p. 76.
[237] Ibid.
[238] Ibid. p. 81.
[239] Ibid. p. 168. Anzi, il vero senso dell’umanesimo, scrive Marcuse nel saggio “Umanismo “socialista”, “non significa ‘umanizzazione’ del lavoro, ma la sua meccanizzazione e produzione pianificata” (H. Marcuse, “Umanesimo socialista”, cit., p. 53). Premessa essenziale della “umanizzazione del lavoro” è piuttosto “la sua totale dis-umanizzazione”, scrive Marcuse Raya Dunayevskaya il 24 agosto 1960 (in Marxismo e nuova sinistra, cit., p. 332). “Ogni tentativo di invertire questa tendenza su scala sociale, reintroducendo modi di lavoro più vicini all’artigiano e alle attività manuali, o riducendo l’apparato meccanico […] sarebbe regressivo sia in termini di efficienza che di sviluppo umano”. H. Marcuse, “L’individuo nella Grande Società”, in Critica della società repressiva, cit., pp. 85-86. Cfr. anche Id., Eros e civiltà, cit., p. 182 e Id., Saggio sulla liberazione, cit., p. 106: “sì a tutte le standardizzazioni che risparmiano, anziché moltiplicarli, tutti i servizi parassitari ‘personalizzati’ e le invenzioni e di simboli dell’opulenza sfruttatrice”.
[240] H. Marcuse, “From Ontology to Technology”, in H. Marcuse, Philosophy, Psychoanalysis and Emancipation. Collected Papers of Herbert Marcuse, vol. 5, Routledge, New York - Londra 2011, p. 132.
[241] H. Marcuse, Soviet Marxism, cit., p. 77.
[242] Ibid. p. 79.
[243] Ibid. p. 77.
[244] Casini sostiene che anche la società sovietica sia “unidimensionale” e che Marcuse non la chiami così perché non aveva ancora inventato il termine. In realtà, l’espressione “bidimensionale” si trova sia ne L’Ontologia di Hegel che in Ragione e Rivoluzione. Marcuse non lo usa in Soviet Marxism perché qui l’orizzonte del possibile è ancora “aperto”. Cfr. L. Casini, Marcuse maestro del ‘68, Il poligono, Roma 1981, p. 209.
[245] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 98.
[246] G. W. F. Hegel, Fenomenologia, cit., p. 487.
[247] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 102.
[248] Ibid., p. 103.
[249] Ibid., p. 104.
[250] A questo proposito si potrebbe fare qualche considerazione su come oggi anche questo linguaggio ironico si sia rovesciato di segno e come il sovranismo abbia fatto propria una forma particolarmente cinica e volgare di ribellione contro l’élite, fatta di parole d’ordine meccaniche e ripetitive travestite da “linguaggio alternativo” (casta, radical chic ecc.). 
[251] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 104.
[252] Ibid., p. 105.
[253] Ibid., p. 106.
[254] Ibid., pp. 107-108.
[255] Ibid., p. 110.
[256] Ibid., p. 111.
[257] È chiaro che quando oggi espressioni come “il problema dei migranti”, “il pareggio di bilancio” o “l’efficienza della democrazia” veicolano un contenuto politico reazionario la causa di ciò non è l’uso del linguaggio, bensì l’arretramento politico della sinistra a livello istituzionale e sociale negli ultimi cinquant’anni. Tuttavia, il discorso di Marcuse costituisce una formidabile analisi di un meccanismo che opera da tempo e che se non produce certo rinsalda i rapporti di classe vigenti. Anche, se non soprattutto, nella sua capacità di penetrazione ideologica presso le classi lavoratrici.
[258] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 112.
[259] Ibid., pp. 112-113.
[260] Ibid., pp. 117-118.
[261] Ibid., p. 114.
[262] Ibid., p. 115.
[263] H. Marcuse, “L’individuo nella Grande società”, cit., p. 71. 
[264] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., pp. 32-33.
[265] Ibid., pp. 125 e sgg.
[266] Ibid., p. 130.
[267] Ibid., pp. 132-33.
[268] Per una corretta analisi del problema della “neutralità” tecnologica in Marcuse cfr. A. Feenberg, “The Bias Of Technology”, in Marcuse: Critical Theory and the Promise of Utopia, cit., pp. 225 e sgg.
[269] Il motivo per cui Habermas fraintende questo discorso trasformandolo in pessimismo storico assoluto e poi attribuisca a Marcuse il tentativo di superarlo facendo affidamento ad una natura istintuale prestorica è legato al suo rifiuto di accettare l’idea di una liberazione della natura come esito, sia pure tendenziale, “regolativo”, dell’Aufklärung. Cfr. J. Habermas, “Il termidoro psichico e la rinascita della soggettività ribelle”, in AA.VV., Filosofia e Politica, Firenze, La Nuova Italia, 1981. Il punto è ottimamente colto in C. Fred Alford, Science and the Revenge of Nature: Marcuse and Habermas, University Presses of Florida 1985. Su questo cfr., infra, “Aporie della razionalità discorsiva” e “Ai confini della liberazione umana”.
[270] L. Colletti, Ideologia e società, Laterza, Bari 1972, p. 175
[271] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 139.
[272] Ibid., p. 141. La riflessione di Marcuse sulla convergenza di essere e dover-essere (pp. 148-149) in un certo senso richiama il discorso condotto in Soviet Marxism sui meccanismi linguistici della nomenklatura che a loro volta sembravano sintetizzare quella opposizione e configurarla in modo nuovo. Ciò potrebbe essere interpretato come il risultato parziale di quel “superamento” della filosofia tramite la prassi ipotizzato da Marx ed Engels. Questa natura paradossalmente “ontologica” del dover-essere si trova già formulata, ovviamente in forma idealistica, nel pensiero di Hegel, cfr. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., pp. 73-74, pp. 157-158.
[273] H. Marcuse, “Karl Popper and the Problem of Historical Laws”, in Id., Studies in Critical Philosophy, Beacon Press, Boston 1973, pp. 91 e sgg.
[274] In questo senso, il metodo e le finalità del lavoro di Marcuse divergono da quelle di Husserl – anche quando sembrano concordare alla lettera – sulla struttura essenziale della ragione greca: quest’ultima nella Crisi coincide con “l’idea dell’interesse umano all’autoderminazione e determinazione del mondo in virtù delle facoltà intellettuali dell’uomo” che gli permettono di trascendere i fatti e il tempo in quanto l’essere è “intenzionato” dall’idea. H. Marcuse, “La scienza e la fenomenologia”, cit., p. 58.
[275] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 117, pp. 139 e sgg. La questione della “centralità” del giudizio appariva già in forma ontologica nell’analisi di Hegel; qui il giudizio corrisponde alla “divisione originaria” (Ur-Teil) in cui la realtà stessa si auto-organizza. Cfr. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., p. 62 e p. 158.
[276] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 140.
[277] Cfr. la critica a Dewey su questa opposizione, ibid., p. 180.
[278] Ibid., p. 142.
[279] Ibid., p. 144.
[280] Ibid., p. 151.
[281] Ibid., p. 152.
[282] Ibid., p. 154.
[283] Ibid., pp. 155 e sgg.
[284] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969.
[285] Qui il riferimento alla teleologia mette nello stesso schieramento di una ragione negativa Platone e Aristotele, mostrando come la critica a quest’ultimo riguardasse prevalentemente la formalizzazione della logica.
[286] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 164.
[287] Ibid., p. 165.
[288] Ibid., p. 163
[289] Ibid., p. 170.
[290] Ibid., p. 171.
[291] H. Marcuse, “Industrializzazione e capitalismo”, in Critica della società repressiva, cit., p. 21.
[292] H. Marcuse, “Sulla scienza e la fenomenologia”, in Critica della società repressiva, cit., p. 67.
[293] Ibid.
[294] Ibid., p. 57 e p. 58.
[295] “Nel corso del suo sviluppo interno l’analisi di Husserl trascende se stessa, o piuttosto discende dalla dimensione teoretica pura ad una impura preteoretica pratica. Per meglio dire - l’analisi teoretica pura scopre la propria impurità interna, ma soltanto per ritornare da questa sfera impura ad una dimensione ancora puramente teoretica della fenomenologia trascendentale in quanto costitutiva della dimensione pratica, preteoretica, la Lebenswelt”. Ibid., p. 57.
[296] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 178.
[297] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Saggiatore, Milano 1983, p. 49.
[298] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 179.
[299] Ibid., pp. 241.
[300] H. Marcuse, “Industrializzazione e capitalismo”, cit., p. 22.
[301] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 54.
[302] Cfr. la “Critica del revisionismo neofreudiano”, ibid., pp. 249 e sgg.
[303] H. Marcuse, lettera a Th. W. Adorno, 21 luglio 1969, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 319.
[304] H. Marcuse, “L’amore mistificato. Critica di Norman O. Brown”, in Critica della società repressiva, cit., pp. 109 e sgg.; Id., “Eros rivoluzionario. Una conversazione con Sam Keen e John Raser”, in Teoria critica del desiderio, cit., p. 149.
[305] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 249-250.
[306] H. Marcuse, “La rivoluzione culturale”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 162.
[307] Ibid., p. 173.
[308] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 267.
[309] H. Marcuse, “Per una filosofia dell’estetica”, in Teoria critica del desiderio, cit., p. 125; Id., “Il significato globale della protesta e le possibilità attuali del movimento”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 284.
[310] T. Perlini, Cosa ha veramente detto Marcuse, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1968, p. 139.
[311] H. Marcuse, “Oltre l’uomo a una dimensione”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 104.
[312] Ibid.
[313] Ibid., p. 106.
[314] “La prima fase nella sovversione di questa condizione sarebbe l’appropriazione e l’uso del tempo in eccedenza per abolire la schiavitù: autodeterminazione e autorganizzazione del lavoro socialmente necessario”. H. Marcuse, “Il destino storico della democrazia borghese”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 213.
[315] H. Marcuse, “Una rivoluzione dei valori”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 265.
[316] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 70-71.
[317] Ibid., p. 73.
[318] Ibid., p. 74.
[319] Ibid., p. 79.
[320] H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro”, cit., pp. 166-167.
[321] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 80.
[322] Ibid., p. 80.
[323] Ibid., p. 81.
[324] Qui è molto importante stabilire che la razionalità dell’ordine costituito, che pure è oggettiva rispetto al disordine delle pulsioni parziali scatenate, è al tempo stesso sempre particolare e irrazionale, poiché il privilegio del gruppo sociale dominante costituisce sempre un interesse di parte: nell’atto stesso con cui la razionalità sociale fa il suo ingresso nella storia essa produce anche il criterio della propria misura e, dunque, della possibilità/necessità del suo sovvertimento in un ordine più equo, giusto perché razionale (o, che è lo stesso, più razionale perché più equo e giusto).
[325] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 88 e sgg.
[326] H. Marcuse, “Lezioni parigine del 1974”, in Marxismo e nuova sinistra, cit., p. 229. Cfr. anche H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 32-33.
[327] H. Marcuse, “Lezioni parigine del 1974”, p. 230.
[328] “La posta in gioco è quindi una trasvalutazione dei valori, una nuova razionalità che si contrappone non solo alla razionalità capitalistica in tutte le sue forme, ma anche a quella socialista stalinista e post-stalinista. E questa nuova coscienza esprime (e forma) una nuova sensitività e sensibilità, una nuova esperienza della realtà costituita - e repressa - che ancora la ricerca, l’urlo di liberazione nei bisogni vitali dell’uomo: nella sua «schiavitù». Homme revolté. Oggi è colui o colei i cui sensi non possono più vedere e sentire e gustare ciò che gli viene offerto, in cui gli istinti più profondi si mobilitano contro l’oppressione, la crudeltà, la bruttezza, l’ipocrisia e lo sfruttamento”. H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 104.
[329] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 91.
[330] Ibid., p. 92.
[331] Ibid.
[332] Ibid., p. 93.
[333] Ibid., pp. 93-94.
[334] Ibid., p. 93.
[335] Ibid., p. 95.
[336] Ibid., p. 94.
[337] “L’individuo potenzialmente è dapprima un qualcosa di negativo, una porzione delle potenzialità della sua società: di aggressione, senso di colpa, ignoranza, risentimento, crudeltà che viziano i suoi istinti vitali. Se l’identità del self dev’essere qualcosa di più di quell’immediata realizzazione di queste potenzialità […] allora richiede la repressione e la sublimazione, la trasformazione cosciente. Questo processo implica ad ogni stadio […] la negazione della negazione, la mediazione dell’immediato, se l’identità è né più né meno questo processo. La ‘alienazione’ è l’elemento costante ed essenziale dell’identità, il dato oggettivo del soggetto, e non, come oggi si vuol far apparire, una malattia, una condizione psicologica”. H. Marcuse, “La tolleranza repressiva”, cit., p. 103.
[338] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 94.
[339] H. Marcuse, “L’aggressività nella società industriale avanzata”, in Teoria critica del desiderio, cit., p. 75.
[340] Ibid., p. 75. Anche in questo caso le penetranti intuizioni di Marcuse trovano motivi di attualizzazione. Si veda come nell’era digitale con la progressiva “volatilizzazione” dell’oggetto tecnologico tali processi non siano diminuit o scomparsi ma anzi si siano intensificati. L’AI e gli algoritmi rendono esponenziale la manipolabilità e la controllabilità del comportamento umano e non c’è paragone tra l’aggressività che si registra sui social media e quella che è possibile esperire nel quotidiano anche se l’effetto complessivo che sembra registrarsi è senz’altro quello di una atomizzazione regressiva e antagonistica della società.
[341] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 90.
[342] H. Marcuse, “L’aggressività nella società industriale avanzata”, cit., p. 72.
[343] Cfr. anche H. Marcuse, “L’arte nella società a un dimensione”, in Critica della società repressiva, cit., p. 141.
[344] H. Marcuse, “La rivoluzione culturale”, cit., p. 134.
[345] Ibid., p. 136.
[346] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 25.
[347] Cade vittima di questa illusione linguistica anche Marco Solinas finendo per restituire un’immagine quasi parodistica del pensiero marcusiano. Cfr. M. Solinas, Sui paradossi della critica esterna. Marcuse, i bisogni indotti e i desideri di massa, in “Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità”, 20 maggio 2014.
[348] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 233.
[349] Cfr. per es. H. Marcuse, “Il movimento in una nuova era di repressione: una valutazione”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 258 e p. 261; Id., “Marxismo e femminismo”, in Marxismo e nuova sinistra, cit., p. 157.
[350] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 126.
[351] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 139.
[352] Sull’astrazione del modello funzionalista cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., pp. 124-125n.
[353] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 126.
[354] H. Marcuse, “Oltre l’uomo a una dimensione”, cit., p. 138-139.
[355] Ibid., p. 140.
[356] “L’essere umano costituisce se stesso come individuo: quella del suo corpo, l’uomo come essere «naturale», «oggettivo» (gegenständliches). Certo, questa dimensione è anch’essa storica, continuamente modificata con lo sviluppo della civiltà; nondimeno essa resta un agente del mutamento, base del mutamento «al di sotto» delle sue altre dimensioni, «al di sotto» della cultura materiale e intellettuale, «al di sotto» anche del suo substrato, l’infrastruttura marxiana”. Ibid., p. 138.
[357] H. Marcuse, “Oltre l’uomo a una dimensione”, cit., pp. 141-142. Sulle forme repressive di solidarietà cfr. invece H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 103 e Id., in Theorie und Politik, in Gespräche mit Herbert Marcuse, Surkhamp, Frankfurt a.M. 1996, p. 37.
[358] H. Marcuse, “La rivoluzione culturale”, cit., p. 172.
[359] H. Marcuse, “Oltre l’uomo a una dimensione”, cit., p. 141.
[360] Ibid., p. 148.
[361] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 238.
[362] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, cit., pp. 351-352.
[363] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 68-69.
[364] J. Habermas, in Theorie und Politik, in Gespräche mit Herbert Marcuse, cit., p. 32.
[365] Ch. Reitz – S. Spartan, “The Political Economy of Predation and Counterrevolution. Recalling Marcuse on the Radical Goals of Socialism”, in Ch. Reitz (a cura di), Crisis and Commonwealth. Marcuse, Marx, McLaren, Lexington Books, Plymouth 2013, p. 36.
[366] J. Habermas, in Theorie und Politik, cit., p. 24.
[367] Ibid., p. 28.
[368] Ibid., p. 24.
[369] Ibid., p. 29.
[370] H. Marcuse, ibid., p. 25.
[371] J. Habermas, ibid., p. 29.
[372] Ibid.
[373] È sintomatico che, ogni volta che Habermas fa riferimento a ciò per lui costituisce appunto solo un “principio” e non un elemento materiale-contenutistico del discorso marcusiano, venga corretto da Marcuse il quale gli ricorda che non è “l’eros” o una misteriosa “unione” tra eros e thanatos il fondamento di un sentire e di un agire razionali, bensì una specifica configurazione storica del loro rapporto che si oppone a quella distruttiva organizzata nel presente. H. Marcuse, ibid., p. 33 e p. 36. D’altronde, attribuisce a Marcuse “una fiducia quasi millenaristica nella forza rigeneratrice degli istinti”. J. Habermas, “Il termidoro psichico e la rinascita della soggettività ribelle”, cit., p. 350.
[374] “Non è il conflitto tra istinto e ragione a fornire l’argomento più valido contro l’idea di una civiltà libera; lo è piuttosto il conflitto che l’istinto crea in se stesso”. H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 239.
[375] Analogamente M. L. Genghini, La dimensione bio-estetica in Herbert Marcuse, Babelonline, vol. 8, 2005, p. 342.
[376] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 239.
[377] H. Marcuse, in Theorie und Politik, cit., p. 32.
[378] J. Habermas, ibid., 31. 
[379] Ibid., p. 32 e p. 36.
[380] Ibid., p. 36.
[381] Ibid., p. 37.
[382] Cfr. ad es. J. Bailes, Consciousness and the Neoliberal Subject. A Theory of Ideology via Marcuse, Jameson and Žižek Routledge, Londra – New York 2020, 36 e sgg.
[383] H. Marcuse, “Liberation from Affluent Society”, cit., p. 76.
[384] Altro esempio di manipolazione testuale di Habermas (“Il termidoro psichico e la rinascita della soggettività ribelle”, cit., 353): citando le parole di Marcuse, che in un incontro con degli studenti troppo inclini al mito della violenza e alla critica dell’umanitarismo, sarebbe stato “costretto” a ricorrere a valori universali e sovrastorici, Haberms omette il riferimento alla soggettività che resiste, all’opposizione allo sfruttamento come i vettori di quella universalità e di quell’umanitarismo reali di cui parla Marcuse. Cfr. H. Marcuse, “The Problem of Violence and the Radical Opposition”, in The New Left and the 60s, cit., p. 73.
[385] H. Marcuse, “Il concetto di negazione nella dialettica”, in Filosofia e politica, cit., p. 265.
[386] H. Marcuse, in Theorie und Politik, cit., p. 34.
[387] Ibid., p. 37.
[388] Ibid., p. 38.
[389] Cfr. la distinzione tra substantive e formal bias in A. Feenberg, “The Bias Of Technology”, in Marcuse: Critical Theory and the Promise of Utopia, cit., p. 233.
[390] A. Heller citata in J. Alway, Critical Theory and Political Possibilities, cit., p. 109.
[391] Come ben sintetizza Gandesha enfatizzando l’opposta interpretazione di Weber fornita dai due pensatori: “While Marcuse argues for an extension of the concept of labor as the crucial mediation of subject and object, Habermas argues for its foreshortening in an account of the rationalization of the symbolically mediated action of the Lebenswelt that is attendant upon the spread of “purposive-rationality.” S. Gandesha, “Marcuse, Habermas, and the Critique of Technology”, in Herbert Marcuse: A Critical Reader, cit., p. 198.
[392] Cfr. D. Kellner, “Marcuse and the Quest for Radical Subjectivity”, in Herbert Marcuse: A Critical Reader, cit., p. 96.
[393] H. Marcuse, “World Without Logos”, in Philosophy, Psychoanalysis and Emancipation, cit., p. 141.
[394] Cfr. M. Maurizi, “Filosofia del complottismo. Una lettura adorniana del rapporto tra fascismo e paranoia di massa”, in Policlic, n. 30, 2020.
[395] H. Marcuse, “La tolleranza repressiva”, cit., p. 89.
[396] Cfr. Ch. Fuchs, Herbert Marcuse and social media, in “Radical Philosophy Review”, 10 (1), 2016, pp. 113-143.
[397] H. Marcuse, “La tolleranza repressiva”, cit., p. 86.
[398] H. Marcuse, “L’aggressività nella società industriale avanzata”, cit., pp. 78-79.
[399] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 144 e sgg.
[400] Ibid., p. 144.
[401] H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., p. 126.
[402] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 187.
[403] Ibid., p. 246.
[404] S. E. Bronner, “Between Art And Utopia: Reconsidering The Aesthetic Theory Of Herbert Marcuse”, in Marcuse: Critical Theory and the Promise of Utopia, cit., p. 133.
[405] M. Tartaglia, Marcuse e la “fine dell’utopia” in “Studi di estetica”, N. 38, 2008, p. 69.
[406] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 246-248.
[407] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 86-87.
[408] La critica marxiana costituisce una sorta di “rovesciamento” dell’aristotelismo: l’ente, per Aristotele, è ciò in cui il movimento e la negatività si compiono e scompaiono; per Marx è ciò che va invece ricondotto al divenire che lo ha prodotto. H. Marcuse, “Per una logica materialistica”, cit., pp. 167-168.
[409] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 65.
[410] Ibid., p. 66. “The emphasis on human creativity and self-constituting freedom must be qualified by the memory of its shortcomings”. L. Arese, Doing Justice to the Past: Memory and criticism in Herbert Marcuse, in “Essays in Philosophy”, vol. 19, 2018, p. 18.
[411] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 78.
[412] Ibid., p. 245.
[413] Ibid.
[414] D. Kellner, “Marcuse and the Quest for Radical Subjectivity”, cit., p. 85.
[415] H. Marcuse, “La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato”, in Cultura e società, cit., pp. 3 e sgg.
[416] “Senza la fantasia ogni conoscenza filosofica rimane sempre e soltanto legata al presente o al passato e tagliata fuori dal futuro che è il solo a congiungere la filosofia con la storia reale dell’umanità”, H. Marcuse, “Filosofia e teoria critica”, in Cultura e società, cit., p. 106.
[417] H. Marcuse, “Sui fondamenti del concetto di lavoro”, cit., pp. 154 e sgg.
[418] Commentando i Grundrisse Marcuse scrive: “l’uomo non è più racchiuso nel processo di produzione, ma sta al di fuori, connettendosi al processo di produzione”. H. Marcuse, “L’obsolescenza del marxismo”, cit., p. 128.
[419] Un’interessante attualizzazione di questi temi si trova in L. Baldassarre, Ludicizzazione del lavoro e principio di prestazione. Attualità di Herbert Marcuse, in “Points of Interest, Rivista di indagine filosofica e di nuove pratiche della conoscenza”, N. 5, II/2019; E. Bulut, One-dimensional creativity: A Marcusean critique of work and play in the video game industry, in “TripleC: Communication, Capitalism & Critique. Open Access Journal for a Global Sustainable Information Society”, 16(2), 2018, pp. 757–771.
[420] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 229 e sgg. Id., Soviet Marxism, cit., pp. 218-219.
[421] H. Marcuse, “Una rivoluzione dei valori”, p. 268.
[422] Soprattutto qui, a mio modo di vedere, Marcuse è più lontano che mai da Heidegger e dalla sua tematizzazione del rapporto tra techne e poiesis, contrariamente a quanto sostenuto in R. Wolin, Heidegger`s Children - Hannah Arendt, Karl Löwith, Hans Jonas, and Herbert Marcuse, Princeton University Press 2015  133 e sgg.
[423] M. Miles, Herbert Marcuse. An Aesthetics of Liberation, Pluto Press Londra 2012, p. 5.
[424] U. Gmünder, Kritische Theorie. Horkheimer, Adorno, Marcuse, Habermas, Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Stuttgart 1985, p. 111.
[425] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 61.
[426] H. Marcuse, “Oltre l’uomo a una dimensione”, cit., p. 107.
[427] Hegel, Enciclopedia, cit., p. 747.
[428] H. Marcuse, “Per una filosofia dell’estetica”, in Teoria critica del desiderio, cit., p. 118.
[429] H. Marcuse, “La rivoluzione culturale”, cit., p. 148.
[430] L’aspetto intrinsecamente societario dell’immaginazione, troppo sottovalutato, mi sembra spiazzare le aporie denunciate in G. Raulet, “Marcuse’s Negative Dialectics of Imagination”, in Herbert Marcuse: A Critical Reader, cit., pp. 121 e sgg.
[431] “In un’unica realtà si ha così la strana simbiosi del pensiero umanistico scientifico con la società repressiva, la simbiosi della creatività e della produttività in cui la cultura intellettuale serve la cultura materiale, in cui la creatività serve la produttività, in cui l’immaginazione serve il mondo degli affari. Ma il carattere quasi compiuto di questa simbiosi, in cui pensiero scientifico e umanistico diventano macchine per il controllo sociale, vive oggi gli effetti della sua stessa dinamica: quanto più la scienza consegue risultati nel controllo della natura e nello sfruttamento delle sue risorse, tanto più è alto il pericolo che gli esperimenti psicologici e biologici di formazione del comportamento umano e dei processi vitali possano sfuggire dal controllo; più selvaggia è la capacità dell’immaginazione di concepire modi e significati per alleviare l’esistenza umana, più evidente appare il contrasto tra queste conquiste scientifiche e il loro uso. E più grande è il potenziale esplosivo nelle società costituite”. H. Marcuse, “Oltre l’uomo a una dimensione”, cit., pp. 108-109.
[432] H. Marcuse, “Sul conflitto generazionale”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 131.
[433] H. Marcuse, “La rivoluzione culturale”, cit., p. 177.
[434] H. Marcuse, “Il movimento in una nuova era di repressione: una valutazione”, in Oltre l’uomo a una dimensione, cit., p. 263; H. Marcuse, “Il significato globale della protesta e le possibilità attuali del movimento”, ibid., p. 284.
[435] H. Marcuse, “Oltre il marxismo cattivo”, cit., p. 276.
[436] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 60-61.
[437] Ibid.
[438] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., pp. 271-272.
[439] In tal senso non credo si possa a rigore parlare di una “socializzazione” reale prima del superamento del capitalismo. Cfr. W. L. Maar, Sociopolitics: Marx and Marcuse, in “Constelaciones: Revista de Teoría Crítica”, 8/9, 2016-2017, pp. 177 e sgg.
[440] Sull’invecchiamento della “controcultura” cfr. ad es., Marcuse in Die Salecina-Gespräche, in Gespräche mit Herbert Marcuse, cit., p. 109. Ma cfr. già la circospezione di Marcuse sui rischi ideologici dello spontaneismo nel Saggio sulla liberazione, cit., p. 78.
[441] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 270.
[442] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 44.
[443] H. Marcuse, “Protosocialismo e tardocapitalismo”, cit., p. 269.
[444] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 84-87.
[445] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 179. “Nella storia non padroneggiata dagli uomini, la società diventa essa stessa natura”. H. Marcuse, “Sulla storia della dialettica”, cit., p. 256.
[446] Ibid., p. 246.
[447] Ibid., p. 247.
[448] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 27-28.
[449] Ibid., p. 84.
[450] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 79.
[451] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 78.
[452] Ibid., p. 80
[453] Questo punto fu colto già dalle frange vegetariane della New Left. Cfr. S. M. Weber, “Individuation as Praxis”, in Critical Interruptions, cit., pp. 55 e sgg. Oggi esso riemerge all’interno del movimento antispecista. Cfr. Richard Kahn, “For a Marcusian Ecopedagogy”, in D. Kellner - T. Lewis et al.(a cura di), Marcuse’s Challenge to Education, Rowman & Littlefield Publishers, Plymouth 2009, pp. 79 e sgg.
[454] H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 188.
[455] Ibid., p. 189.
[456] È nell’animale che può risolversi l’aporia identificata da Steven Vogel in Marcuse tra una sensibilità liberata perché “passiva” e al tempo stesso “attiva”, “costruttrice” della natura. Il limite tra umano e non-umano va posto in un’intersoggettività in cui ciascuno dei poli è un soggetto con sue proprie relazioni, aspirazioni e interessi. S. Vogel, “Marcuse and the New Science”, in Herbert Marcuse. A Critical Reader, cit., p. 244.
[457] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 249.
[458] H. Marcuse, “From Ontology to Technology”, cit., p.140.
[459] Cit. in H. Rose, “Learning from the New Priesthood and the Shrieking Sisterhood: Debating the Life Sciences in Victorian England”, in R. Hubbard – L. Birke (a cura di), Reinventing Biology, Indiana University Press, 1995, p. 17