Gabriele Miniagio | Il problema della soggettivazione in Foucault

  1. Tre definizioni di soggettivazione 
Si è visto che in Lacan soggettivazione vuol dire da una parte esser-soggettivato, dall’altra soggettivar-si: la prima accezione fa riferimento alla genesi del soggetto nel simbolico, la seconda ad un effetto-resto singolare[1]. È emerso inoltre che questi due aspetti sono governati da una logica non binaria, che tiene insieme l’eteronomia del primo e l’autonomia del secondo: il soggetto in tanto è soggettivato in quanto si soggettiva e viceversa.
Ora, il termine soggettivazione occorre anche in Foucault ed è anzi uno dei concetti chiave di cui egli si serve nel corso delle proprie ricerche. Ma cosa intende a sua volta con questo termine? Che rapporto c’è con la nozione lacaniana sopra messa in evidenza? La parola soggettivazione è equivoca oppure è possibile fissare alcuni aspetti concettuali comuni, che attraversano il pensiero di entrambi? E se anche il concetto foucaultiano di soggettivazione fosse segnato dalla stessa duplicità non binaria dell’esser-soggettivato e del soggettivar-si, quale uso politico potremmo fare oggi di questa categoria? Potremmo dire per esempio che il capitalismo genera forme di vita soggettiva in grado potenzialmente di resistergli?
Per rispondere a questo groviglio di domande, occorre analizzare dettagliatamente il concetto di soggettivazione in Foucault; come punto di riferimento per questa operazione si possono usare due testi tardi: Le sujet et le pouvoir[2] e Le gouvernement de soi et des autres[3].
Nel primo Foucault mira ad esplicitare il centro teorico dei suoi studi, che hanno riguardato ambiti apparentemente eterogenei (la follia, la prigione, le tecniche di governo, la sessualità); a tale proposito  egli dichiara che ciò che attraversa tutte queste direzioni d’indagine non è il potere, come si potrebbe credere, né le strutture storico genetiche del discorso, ma appunto il concetto di soggettivazione. Egli parla infatti di un lavoro che «non è consistito nell’analizzare i fenomeni di potere né di porre le basi di una tale analisi. Ho cercato piuttosto di produrre una storia dei differenti modi di soggettivazione dell’essere umano nella nostra cultura»[4].
Foucault dunque riconosce al concetto di soggettivazione un primato teorico; è in questa prospettiva che individua per esso tre significati di base:
1) l’istituzione di un soggetto all’interno di una scienza;
2) il soggetto come effetto di una pratica divisiva;
3) la maniera in cui un essere umano si trasforma in soggetto[5].
Nella prima si tratta di capire come una certa forma di soggettività sia istituita all’interno di un sapere, in che modo esso faccia del soggetto l’oggetto delle proprie analisi. Nella seconda si tratta invece degli effetti di potere del sapere, che, attraverso l’istituzione di una norma che distingue fra normali e devianti, legittima la sorveglianza e la reclusione di questi ultimi (i folli e i criminali per esempio). Nella terza si tratta dei modi di esistenza, contenuti preliminarmente nelle modalità storiche di un certo discorso, che conducono un individuo a designare se stesso come soggetto, ad assumere un certo “io sono”.
Questo schema triadico sarà ripreso nel corso Le gouvernement de soi et desautres  (pp. 4-6), dove egli fa di nuovo il bilancio dei suoi studi; essi si sono svolti, a suo dire, lungo tre direttrici:
 
1) le forme dei saperi;
2) le matrici normative dei comportamenti;
3) la costituzione dei modi d’essere di un soggetto.
 
Lo schema, un po’ diverso dal precedente, lo ampia e lo integra. Vediamo perché. La prima direzione concerne la formazione dei saperi e i loro a priori storici, ossia i principi di fondo intorno ai quali essi si organizzano e si costituiscono come suscettibili di generare enunciati considerati veri. L’analisi dei modi in cui in questi saperi comprendono il soggetto e ne fanno un oggetto teorico è parte di questo asse di ricerca. Il primo punto di questo schema include dunque il primo punto del precedente.
La seconda direzione indaga sui saperi in quanto essi stabiliscono una norma per i comportamenti, con l’effetto di dirigerli o, più radicalmente, di recluderli o sorvegliarli. È chiaro che, all’interno dei saperi intesi come matrici normative dei comportamenti, sono comprese quelle pratiche divisive che abbiamo già visto al secondo punto dello schema precedente; oltre ad esse occorre ora includere altre forme di saperi-poteri, ossia  i dispositivi disciplinari, che mirano a dirigere i comportamenti degli individui piuttosto che a recluderli o a sorvegliarli: si tratta soprattutto del dispositivo di governamentalità. Ad ogni modo anche il secondo punto di questo schema comprende il precedente.
Al terzo punto essi sono perfettamente identici.
Attraverso una comparazione dei due schemi possiamo a questo punto costruire una topica dell’uso del termine soggettivazione in Foucault:
 
1) soggettivazione come istituzione di un soggetto all’interno del sapere;
2) soggettivazione come insieme delle matrici normative dei comportamenti, che mirano ad un’azione di potere su di essi (strategie divisive di reclusione e sorveglianza + dispositivi disciplinari di direzione);
3) soggettivazione come tecniche del rapporto a sé, attraverso le quali un individuo è portato a riconoscersi come soggetto.
  
  1. Analisi delle tre definizioni 
Cerchiamo ora di analizzare nel dettaglio ognuna delle tre definizioni.
 
2.1 Prima definizione. Soggettivazione come oggettivazione di un soggetto all’interno di un sapere
 
Questa prima definizione consiste nel comprendere in che modo il soggetto possa diventare oggetto di una scienza. Foucault ne dà tre esempi. « Penso per esempio all’oggettivazione del soggetto parlante in grammatica generale, in filologia, in linguistica. O anche, sempre all’interno di questo primo modo, all’oggettivazione del soggetto produttivo, del soggetto che lavora in economia e nell’analisi delle ricchezze. O ancora, per prendere un terzo esempio, all’oggettivazione del solo fatto di essere in vita nella storia naturale o in biologia»[6].
Secondo questa accezione, dunque, la soggettivazione è istituzione di una certa forma di soggettività nel discorso. Il sapere medico, per esempio, prim’ancora di agire sui soggetti, per esempio sui “sani” per dirigerli e sui “folli” per recluderli, deve aver istituito discorsivamente il che cos’è della sanità e della follia, deve cioè aver istituito nel discorso una certa forma di soggettività.
Come si è detto questa pista presuppone un’analisi storica dei saperi che mira a cercarne gli apriori, ossia i principi generali intorno ai quali essi si organizzano, rispettando i quali sono considerati come saperi veri[7], le matrici comuni che decidono in anticipo della verità e della falsità dei loro enunciati[8].
Foucault in Le parole e le cose e in L’archeologia del sapere aveva chiamato questo principio generale, questo elemento matriciale che attraversa i saperi di una certa epoca e li organizza, epistème e ne aveva tracciato una successione storica[9], all’epistème del Rinascimento segue quella dell’età classica, seguita, a sua volta da quella tra la fine del XVIII e il XIX secolo; in essa  il soggetto è non solo oggetto dei saperi, ma anche  e il loro principio di genesi dinamica: esso acquisisce cioè uno statuto paradossale, che egli chiama allotropo empirico-trascendentale.
 
 
2.2 Seconda definizione. Soggettivazione come insieme delle matrici normative dei comportamenti
 
La seconda definizione concerne non più il sapere in sé considerato, ma il sapere in quanto comporta degli effetti di potere “nel mondo reale”, consistente a dirigere il comportamento degli individui; sono qui in gioco «le tecniche e le procedure attraverso le quali si intende condurre la condotta degli altri»[10]. Il binomio sapere-soggetto diventa qui il trinomio sapere-soggetto-potere.
Vi sono infatti saperi (il discorso psichiatrico analizzato nella Storia della follia, il discorso sul criminale e la punizione in Sorvegliare e punire, il discorso sulle tecniche di governo dello stato moderno nelle Lezioni sulla biopolitica) che istituiscono apparati in grado di agire sui corpi dei soggetti per recluderli, sorvegliarli o dirigerli. Ciò avviene secondo le due strategie già evocate: le pratiche divisive e le tecniche disciplinari. Nelle prime si tratta di reclusione e controllo: attraverso una norma che separi i comportamenti conformi dai comportamenti devianti, sono possibili la sorveglianza e la segregazione; la norma è essa stessa rafforzata dalla creazione discorsiva e reale della devianza[11]. Per quanto riguarda le tecniche disciplinari la strategia consiste nel dirigere i corpi, nell’ottenere un controllo sulle loro performances piuttosto che a segregare e sorvegliare; si tratta qui di tutte le ricerche che Foucault ha condotto sulla governamentalità durante gli anni Settanta («Il faut défendre la société»; Sécurité, territoire, population; Naissance de la biopolitique, etc.); i saperi-poteri disciplinari, le tecniche statali di governare la vita (sia in quanto corpo individuale sia in quanto corpo collettivo) sono qui chiamate in causa.
 
 
2.3. Terza definizione. Soggettivazione come insieme delle tecniche del rapporto a sé
 
La terza definizione consiste nell’analisi delle «differenti forme attraverso cui l’individuo è condotto a costituirsi lui stesso in quanto soggetto»[12]. La differenza fra la seconda e la terza direttrice è sottile, ma bisogna coglierla: in quella il soggetto era oggetto di una strategia normativa da parte di un apparato che agiva “dall’esterno” per normare il suo comportamento, in questa di una strategia che agisce “dall’interno” per codificare il suo riferimento a sé come soggetto. In altri termini mentre le pratiche divisive e le tecniche disciplinari sono dispositivi di potere che dirigono le condotte, le tecniche del rapporto a sé sono percorsi, dati preliminarmente dal discorso, seguendo i quali i soggetti sono portati a designare se stessi e ad assumere un certo “io sono”.
La vita del soggetto, dunque, attraverso queste pratiche, non è né reclusa (come quella del folle o del criminale) né semplicemente disciplinata da un apparato (come il corpo individuale e collettivo in rapporto allo stato); essa è piuttosto codificata, formattata secondo modalità specifiche di autodesignazione. Le tecniche/tecnologie del rapporto a sé hanno dunque questo potere trofico sulla soggettività.
Prendiamo ora globalmente le tre definizioni. Sarebbe un errore considerarle come tre fasi del suo lavoro, poiché Foucault stesso le considera come direttrici che attraversano tutte le sue ricerche e che spesso s’incrociano. Egli dice per esempio di aver investigato la follia:
 
1) come creazione del discorso;
2) come strategia normativa che agisce sui soggetti (recludere i folli, dirigere i normali)
3) come forma attraverso cui un soggetto è portato a designare se stesso (“io sono normale e non folle”)[13].
 
  1. Esser-soggettivato e soggettivarsi nelle tre definizioni foucaultiane di soggettivazione
Si è visto che soggettivazione in Foucault vuol dire: istituzione del soggetto all’interno di un sapere, insieme delle matrici normative dei comportamenti degli individui, tecniche del rapporto a sé. Ora in queste tre definizioni possiamo trovare le due articolazioni di base del concetto di soggettivazione che abbiamo già rinvenuto in Lacan, ossia il processo dell’esser-soggettivato e quello del soggettivar-si, la produzione di qualcosa come un soggetto a partire dal discorso e la costituzione di sé nella propria singolarità? E soprattutto possiamo trovare la stessa ibridazione fra i due aspetti, la stessa logica non-binaria?
Nel ridurre lo schema a tre di Foucault a quello a due sopra emerso, ci scontriamo con varie difficoltà. Innanzitutto la prima definizione non sembra essere compresa né nell’esser-soggettivato né nel soggettivar-si; inoltre la seconda e la terza sembrano squilibrate sul versante dell’eteronomia del soggetto, quella cioè per cui esso è un prodotto discorsivo.
A ben vedere, però, queste difficoltà sono superabili. Tralasciamo per un attimo la prima definizione e concentriamoci sulla seconda: in essa è chiamato in causa un potere normativo, ma anche, come vedremo, la possibilità di una resistenza, una libertà di essere altrimenti, senza la quale la nozione di potere non sarebbe neanche logicamente possibile: i dispositivi normativi di sapere-potere agiscono sulla vita soggettiva in modo tale che essa non sia soltanto l’oggetto di un potere, ma anche un punto di resistenza potenziale alla sua azione disciplinare. A causa della dialettica potere-resistenza, la seconda definizione si distribuisce su entrambi gli assi, quella dell’esser-soggettivato e quello del soggettivar-si. Si vedrà tutto questo nel § 4.
Veniamo ora alla terza definizione. È vero che le pratiche che dirigono l’individuo nel suo rapporto a sé, fornendogli i modi concreti di autodesignazione, si trovano già nella società e nella cultura di una certa epoca; ma è altrettanto vero che nell’antichità greca se ne sono date alcune che miravano a condurlo al pieno esercizio della sua autonomia, concepita come potere di governare se stessi e la città, un potere da conquistare attraverso la via etica della cura di sé. Seguendo questa via l’individuo è certamente il prodotto di una costituzione discorsiva, ma è portato ad un rapporto a sé in cui la posta in gioco è l’acquisizione della libertà politica, nel senso tipicamente greco del termine[14]. Anche in questa terza direzione di ricerca, battuta da Foucault negli ultimi corsi al Collège de France negli anni Ottanta, ricompare quella dualità e quella polarità fra l’esser-soggettivato e il soggettivarsi che abbiamo ritrovato nella seconda.
Dunque per riassumere: quando il fatto di esser-soggettivato consiste nei dispositivi normativi che dirigono la condotta degli individui (2), il fatto di soggettivar-si può prendere la forma delle resistenze. Quando il fatto di essere-soggettivato prende la forma di un codice che guida i soggetti alla propria auto designazione (3), il fatto di soggettivar-si può prendere la forma della cura di sé in vista della libertà politica.
E la prima definizione? È vero che in parte lo schema esser-soggettivato/soggettivar-si non la coglie: all’istituzione del soggetto nel discorso non segue automaticamente un potere performativo di costituire soggetti “reali” storicamente dati. Ma è altrettanto vero che sia i dispositivi normativi (2) sia le tecniche del rapporto a sé (3) presuppongono sempre l’istituzione preliminare del soggetto all’interno del sapere (1), come si è constatato a proposito della follia.
 
  1. Esser-soggettivato e soggettivar-si nei dispositivi normativi (seconda definizione). La via delle resistenze.
Torniamo sulla seconda definizione, per esplorare nel concreto cosa significhi che in essa la complementarità fra esser-soggettivato e soggettivar-si nella seconda definizione di soggettivazione prende la forma della dialettica fra potere normativo e resistenze.
Ora, la resistenza è talmente costitutiva del fenomeno potere che Foucault ne fa il criterio alla luce del quale investigarla. Essa infatti è una sorta di catalizzatore che ne permette l’analisi teorica, articolando le sue differenze interne[15]. Cosa vuol dire tutto questo? Quali sono le forme storiche delle resistenze? Quali aspetti del potere esse mettono in luce?
Foucault sostiene che vi sono «tre tipi di lotte: quelle che si oppongono alle forme di dominazione (etniche, sociali e religiose); quelle che denunciano le forme di sfruttamento, che separano l’individuo da ciò che produce; quelle che combattono tutto ciò che lega l’individuo a se stesso e assicura così la sua sottomissione agli altri (lotte contro l’assoggetta-mento, contro le diverse forme di soggettività e di sottomissione»[16].
Ecco allora le tre parole chiave: dominazione, sfruttamento, assoggettamento. Ora queste tre forme di potere hanno un peso specifico differente a seconda delle diverse epoche storiche. Nelle società feudali è la lotta contro la dominazione (etnica o sociale) che prevale; nel XIX secolo è la lotta contro lo sfruttamento che assume un ruolo centrale. Ciononostante esse non si danno mai separatamente: Foucault riconosce che esse si mescolano e che in ogni epoca vi è tutt’al più una prevalenza dell’una sull’altra.
Detto questo egli previene subito l’obiezione che un marxista potrebbe avanzare sul condizionamento della struttura sulla sovrastruttura[17]. A questa considerazione egli risponde che vi è senza dubbio una relazione di questo tipo, ma che le relazioni di assoggettamento di individuo a individuo non costituiscono semplicemente il terminale di altri meccanismi, per esempio di natura economica[18].
Ciò detto, che rapporto c’è fra assoggettamento e soggettivazione? Il primo termine sembra comprendere le matrici normative dei comportamenti degli individui, che danno luogo a dispositivi di sorveglianza e di direzione (II definizione di soggettivazione), ma anche tutto un insieme “microfisico” di relazioni di potere caratterizzate dalla sottomissione degli individui gli uni agli altri ancora non catturati in quei dispositivi. Possiamo quindi scrivere:
assoggettamento = giochi di potere + direzione dei comportamenti degli individui (II definizione di soggettivazione).
Definito così l’assoggettamento, possiamo chiarire che rapporto esso intrattenga con la dominazione, come mostra con grande efficacia lo scritto L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté[19]. Vi è prima di tutto, a livello micro, il campo magmatico delle relazioni di potere (i giochi di potere). Vi è poi un livello meso, con i dispositivi che dirigono la condotta degli altri (II definizione di soggettivazione). Vi è infine un livello macro, la dominazione che può essere considerato come una solidificazione del precedente o – direbbe Deleuze – come l’effetto molare di un insieme molecolare[20].
Vi è dunque uno schema a tre livelli: giochi di potere, tecniche di disciplinamento, stati di dominazione. I primi due costituiscono l’assoggettamento. Ciò che permette la solidificazione dei giochi di potere in una condizione di dominazione sono appunto le tecniche e le strategie disciplinari (II definizione di soggettivazione)[21].
Arrivati a questo punto, occorre esplicitare una considerazione: se i giochi di potere sono ovunque (livello micro), i dispositivi normativi statali sono un prodotto storico (meso) e, di conseguenza, lo stato globale di dominazione un effetto possibile ma non necessario. Sottolineo tutto questo per sottrarre la lettura di Foucault ad un facile schema che, non collocando la famosa frase “il potere è ovunque” nel giusto livello di analisi, sbocca in un necessitarismo che svuoterebbe di senso le lotte. Ma il significato dell’analisi foucaultiana è diverso: vi è ovunque assoggettamento, nel senso del piano micro, molecolare, dei rapporti di sottomissione; ma ad un certo momento storico, coincidente col perfezionamento delle tecniche governamentali dello stato moderno (piano meso), l’assoggettamento si fa più efficace e sistemicamente organizzato e può quindi solidificarsi in una situazione macro di dominazione.
Ecco perché è proprio nell’assoggettamento che oggi la maggior parte delle lotte avviene[22]. Foucault dà cinque esempi di queste lotte: «l’opposizione al potere degli uomini sulle donne, dei genitori sui figli, della psichiatria sui malati mentali, della medicina sulla popolazione, dell’amministrazione sul modo in cui le persone vivono»[23]. Tutte queste lotte hanno numerose caratteristiche in comune, che egli enumera puntualmente[24]. 
Ciò detto Foucault non dimentica mai ruolo storico della govenamentalità statale, che permette di perfezionare l’assoggettamento fino alla possibilità, forse, di trasformarlo in uno stato di dominazione globale. Lo stato infatti ha permesso di elaborare tecniche disciplinari[25] con un surplus di razionalità, ossia di capacità di controllo e di direzione prima impensate. Il ruolo interpretato da uno Stato che controlla, dirige, normalizza la vita degli individui mostra che oggi, a partire dal XVIII secolo, la nostra società è diventata una società essenzialmente disciplinare[26]. Scrive a questo proposito Foucault: «il potere dello stato – e questa è una delle ragioni della sua forza – è una forma di potere allo stesso tempo globalizzante e totalizzatrice. Mai, io credo, nella storia delle società umane – persino nell’antica società cinese – si è trovato, all’interno delle strutture politiche stesse, una combinazione così complessa di tecniche d’individualizzazione e di procedure totalizzatrici»[27].
Ora, se lo stato ha acquisito questo potere, ciò è accaduto a causa del fatto che esso ha integrato un precedente dispositivo discorsivo, ossia il potere pastorale. Quali sono le sue caratteristiche? Si tratta di un potere che costituisce gli individui attraverso una istituzione ecclesiastica: in questa istituzione un certo numero di persone, in quanto pastori, ha il diritto di esercitare sugli altri un potere in nome di ciò che essi considerano la loro salute spirituale[28].
Vediamo allora come il potere pastorale sia stato integrato dallo stato. Due aspetti meritano di essere considerati: la salute e l’organizzazione istituzionale.
Per quel che concerne la salute «[s]i passa dalla cura nel condurre le persone dalla salute nell’altro mondo all’idea che bisogna assicurarla quaggiù. E in questo contesto la parola “salute” prende molti sensi: vuol dire sanità, benessere (ossia livello di vita adeguato, risorse sufficienti), sicurezza, protezione contro gli incidenti. […] basta pensare al ruolo della medicina e alla sua funzione sociale, che a lungo le chiese, cattolica e protestante, hanno assicurato»[29].
Per quel che riguarda l’aspetto istituzionale «questa forma di potere è stata esercitata dall’apparato statale o almeno da un’istituzione come la “polizia” (non dimentichiamo che la polizia è stata inventata nel XVIII secolo non solo per vegliare e mantenere l’ordine e la legge, per aiutare i governi a lottare contro i loro nemici, ma anche per assicurare l’approvvigionamento delle città, proteggere l’igiene e la salute così come tutti  i criteri ritenuti necessari allo sviluppo dell’artigianato e del commercio[30].
Questa derivazione del potere statale dal potere pastorale mostra ancora una volta – l’avevamo già notato a proposito della follia – come la seconda definizione di soggettivazione (insieme delle matrici normative dei comportamenti degli individui) si intrecci alla terza (tecniche che portano il soggetto ad assumere un certo “io sono”): la governamentalità, oltre a dirigere e normare, classifica gli individui, li attacca ad un’identità che diventa per loro un modo codificato di riferimento a sé; l’assoggettamento passa quindi inevitabilmente per l’autodesignazione di un soggetto[31].
Ciò che emerge è allora un potere direzionale il cui compito è costituire gli individui, normalizzarli, trasformarli in soggetti, dirigerli e codificare il loro autoriferimento. Un potere soggettivante.
 
Arrivati a questo punto si possono fissare i risultati parziali che sono emersi.
 
  1. La soggettivazione consiste in dispositivi che normano i comportamenti degli individui per poterli dirigere (II definizione).
  2. Grazie al prisma delle resistenze, si possono distinguere tre forme di potere, assoggettamento, dominazione, sfruttamento, che sono fra loro intrecciate.
  3. L’assoggettamento è fatto di relazioni singolari di sottomissione (livello micro) e di dispositivi normativi di direzione dei comportamenti (livello meso = II definizione di soggettivazione). Per l’azione di quest’ultimo l’assoggettamento può far scaturire una possibile situazione di dominazione (livello macro).
  4. Fra i dispositivi normativi di direzione del comportamento la governamentalità statale è la più efficace. Essa ha portato ad una società disciplinare.
  5. Il potere della governamentalità statale è l’erede del potere pastorale.
 
Ciò detto si arriva alla questione cruciale. Qual è lo spazio delle resistenze? In che senso in esse si verifica un soggettivar-si? Esse sono realmente possibili? Possiamo trovare qualche risposta in questo passo, molto celebre, che vale la pena citare per intero.
«Il potere non si esercita che su soggetti liberi in quanto essi sono liberi – intendiamo con questo soggetti individuali o collettivi che hanno davanti a sé un campo di possibilità in cui molteplici condotte, molteplici reazioni e diversi modi di comportamento possono aver luogo. Laddove le determinazioni sono sature non vi è relazione di potere: la schiavitù non è un rapporto di potere quando l’uomo è in catene (si tratta allora di costrizione fisica), ma appunto quando può muoversi e al limite scappare. Non vi è dunque un faccia a faccia di potere e libertà, con un rapporto di esclusione fra loro (ovunque sia il potere, la libertà sparisce); ma un gioco molto più complesso: in questo gioco la libertà apparirà come condizione d’esistenza del potere (allo stesso tempo il suo presupposto, perché bisogna che vi sia libertà perché il potere si eserciti, e il suo supporto permanente perché se sparisse dal potere che si esercita su di essa quest’ultimo sparirebbe ipso facto e si troverebbe un sostituto nella coercizione pura e semplice della violenza); essa appare così come ciò che non potrà che opporsi a un esercizio di potere che tende in fin dei conti a determinarla interamente»[32].
Questo passo pone alcuni punti fermi:
  1. La libertà è condizione del potere. Senza libertà non si avrebbe potere ma una semplice costrizione fisica come quella dello schiavo in catene.
  2. Questo non vuol dire che vi sia libertà prima della relazione di potere e che poi essa sparirebbe. Al contrario – dice Foucault – la libertà non è semplicemente il suo presupposto, ma il suo supporto permanente.
  3. Il mantenersi di questa libertà è ciò che permette di legittimare il potere. Senza il pericolo di un rovesciamento dei rapporti dati, esso non potrebbe farsi percepire come necessario.
  4. Le resistenze storicamente date attualizzano questa libertà, la mostrano come forza reale e non solo come astratta nota definitoria sul piano teorico.
 
Su molti livelli dunque la libertà è condizione del potere.
Da questo possiamo trarre alcune conclusioni: se la libertà è condizione definitoria e supporto permanente del potere, possiamo dire che il soggettivar-si è condizione dell’esser-soggettivato. D’altra parte però i soggetti resistenti sono stati essi stessi costituiti dai dispositivi normativi; dunque l’esser-soggettivato è condizione del soggettivar-si.
Emerge ancora una volta che il concetto di soggettivazione non può essere analizzato secondo uno schema binario, disgiuntivo, e che i due aspetti devono esser presi come momenti opposti e complementari di un unico processo.
 
  1. Esser-soggettivato e soggettivar-si nelle tecniche del rapporto a sé. La cura di sé
Veniamo ora alla terza definizione di soggettivazione: le tecniche del rapporto a sé. Vi sono saperi che prevedono, per così dire, alcuni percorsi, seguendo i quali il soggetto viene costituito nella sua identità, portato a pronunciare un certo “io sono”. In questo rapporto a sé, dove il soggetto è discorsivamente determinato, in cui avviene una vera e propria costruzione, vi è lo spazio per una soggettivazione autonoma? Che vuol dire questa autonomia? La risposta di Foucault è chiara: la soggettivazione non è mai fuori da meccanismi costitutivi di natura discorsiva, ma vi sono state pratiche, storicamente determinate, il cui scopo era la libertà in quanto governo di sé e degli altri.
Si tratta di qualcosa di storicamente e logicamente diverso da un processo di liberazione, parola nei confronti della quale Foucault è molto diffidente. La liberazione è in effetti condizione necessaria, ma non ancora sufficiente della libertà: se è vero che bisogna conquistare la libertà – qualunque cosa ciò significhi – bisogna però anche mantenerla operante[33]. Ora a mantenerla operante è precisamente ciò che egli chiama pratica di libertà[34].
Ma di che cosa si tratta in definitiva? Il termine è piuttosto ambiguo: esso significa, a mio modo di vedere, azione libera e azione in cui questa libertà è in questione, ossia uso della libertà verso la libertà stessa, perché essa sia preservata in quanto libertà. Questa auto riflessione della libertà ha luogo nel campo dell’etica. Foucault lo dice chiaramente: «che cos’è l’etica se non pratica di libertà, pratica riflessa di libertà?»[35]
Nella parola riflessa occorre cogliere tutto l’aspetto ontologico della questione: vi sono forme d’esistenza nelle quali la libertà si riflette, riviene su se stessa, ossia si mostra e si difende dal rischio di perdersi[36]. Questa pratica di libertà è dunque che l’etica antica aveva chiamato cura di sé. « La cura di sé è stata nel mondo greco-romano il modo in cui la libertà individuale – o, fino ad un certo punto la libertà civica – si è riflessa come etica»[37]. Ancora più chiaramente: «l’etica come pratica riflessa di libertà ha ruotato intorno a questo imperativo fondamentale: “prenditi cura di te stesso”»[38].
Ora tutta questa discussione non sarebbe completa se non si definisse il concetto greco di libertà come condizione di non-schiavitù; la libertà consiste nel non essere schiavi, non soltanto degli altri, ma soprattutto di se stessi, delle proprie passioni; libero è dunque il cittadino degno di esercitare questo potere di autogoverno, questo archein.
Ecco allora la relazione fra la pratica della libertà e la libertà stessa: la cura di sé è non solamente il cammino per arrivare a questa padronanza di sé, che rende l’individuo un vero cittadino, ma anche la pratica costante di questa libertà, pratica che è – per usare l’espressione di prima – il supporto permanente della libertà e senza la quale essa svanirebbe. Possiamo quindi dire che la cura di sé, in quanto pratica della libertà è ciò che permette di raggiungere questa situazione di non-schiavitù, questo esser degno di governare, e allo stesso tempo ciò che permette di conservarla o, in altri termini, la cura di sé è dunque l’autoriflessione di una libertà che si mantiene operante attraverso una serie di pratiche. Ecco quindi il risultato: la libertà politica, nel senso del potere di governo del cittadino, è il fine della libertà etica, intesa come disciplina esercitata su sé[39]; ma la libertà etica è il substrato permanente della libertà politica, senza la quale essa collasserebbe[40].
Ciò detto, in cosa consistono concretamente le pratiche della cura di sé? Foucault si concentra su due campi fondamentali: l’uso dei piaceri e il linguaggio. Per quanto concerne i primi (gli aphrodisia), essa consiste in una padronanza sulle passioni che mira a non esserne dominati, il tutto, di nuovo, nella prospettiva di divenir capaci di governare se stessi[41]. Sarebbe troppo lungo riportare qui la dettagliata analisi foucaultiana dell’uso dei piaceri nell’antichità, dei loro codici e delle loro regole; ciò che importa sottolineare è il circolo per cui la libertà come pratica etica consistente nella cura di sé è teleologicamente indirizzata all’autogoverno politico e quest’ultimo è innervato nella pratica etica della cura di sé.
Il secondo campo è il linguaggio. Secondo la visione greca ciò che caratterizza il rapporto dell’uomo libero col linguaggio è la parrêsia, il dire il vero. La verità che è qui in questione non ha niente a che vedere con la struttura logica del discorso, ma ha a che fare con il locutore stesso e con il rischio che egli decide di correre per il fatto stesso di dire qualcosa che deve esser detto[42]. È in questo rischio che il soggetto si costituisce come uomo libero: la libertà è l’effetto di ritorno di questo atto di parola vero sul locutore che lo pronuncia, un atto in cui, di nuovo, la libertà, rischiando, si esercita e si difende dal rischio di degradarsi a schiavitù[43].
Con questo l’analisi foucaultiana della parrêsia mette in evidenza un rapporto fra discorso e libertà differente da quello che emergeva nei dispositivi normativi: il discorso non funziona qui come istituzione di una norma che agisce poi come apparato disciplinare, né è semplicemente un codice chiuso che attacca al soggetto una certa identità, ma un atto che realizza la libertà, che dà luogo alla sua autoriflessione, che la mantiene operante, che manifesta al mondo un individuo capace di governare se stesso e la città.
Questo nuovo rapporto fra discorso e libertà, che la cura di sé delinea, non è senza conseguenze per il concetto di soggettivazione e conferma di nuovo il carattere non binario, non disgiuntivo dei momenti interni alla sua definizione. La cura di sé, infatti, è prima di tutto un insieme di pratiche e di norme di comportamento socialmente e storicamente costruite: vediamo qui che il soggetto è un prodotto discorsivo, un effetto della società e della cultura[44]. Ma al tempo stesso vi sono pratiche che predispongono percorsi perché esso si costituisca come individuo libero, non schiavo, perché eserciti come habitus permanente la propria libertà, intesa come capacità di governo di sé e della Città.
Ecco allora il carattere non binario della soggettivazione: in queste pratiche il soggetto è soggettivato nella misura in cui si soggettiva. Non solo dunque nella via direttamente politica delle resistenze (II definizione di soggettivazione), ma anche nella via etico-politica della cura di sé (III definizione) si dà questa ibridazione reciproca fra una soggettivazione eteronoma e una soggettivazione autonoma.
 
  1. Conclusioni
Sono emerse tre definizioni di soggettivazione:
 
1) l’oggettivazione di un soggetto all’interno di un discorso;
2) l’insieme delle matrici normative dei comportamenti che implicano un’azione di potere su di essi (strategie divisive di reclusione-sorveglianza e dispositivi disciplinari di governamentalità);
3) le tecniche del rapporto a sé nelle quali un individuo è condotto a riconoscersi come soggetto.
 
La prima definizione è il preliminare delle altre due. In esse è in gioco il rapporto fra discorso, corpo e potere. Entrambe sono sottoposte ad una logica non binaria, in cui sono ibridati l’esser-soggettivato e il soggettivar-si. In effetti, di fronte ai dispositivi normativi che dirigono il comportamento (2), vi sono resistenze, che aprono la possibilità di esistere altrimenti. Di fronte ai discorsi che prevedono tecniche di rapporto a sé (3) vi sono pratiche in cui la libertà si riflette e si mantiene in vista di un autonomo potere di governo. In entrambi i casi il soggetto da una parte è costituito secondo modi di essere già dati, dall’altra si costituisce nella propria irriducibile singolarità. La soggettivazione non è semplicemente un protocollo sistemico, una procedura matriciale, una macchina che segue un programma, ma un processo che dà luogo ad anomalie, eccedenze, soggetti individuali e collettivi emergenti e imprevisti. Resistenze storicamente date (2) e spazi di libertà etico-politica (3) sono lì a testimoniarlo.
Questa stessa logica non binaria era emersa nel concetto lacaniano di soggettivazione. Vi è però una differenza di fondo: mentre in Lacan la soggettivazione accade come produzione di resti (l’oggetto a come effetto non discorsivo dell’azione del discorso sul corpo), in Foucault i due aspetti della soggettivazione sono interamente discorsivi.
Abbiamo ora forse qualche strumento in più per affrontare le questioni poste all’inizio: se la soggettivazione consiste in una ibridazione reciproca fra l’esser-soggettivato e il soggettivar-si, quale uso politico possiamo fare di questo concetto? È possibile servirsene come strumento di analisi, di critica e di lotta nei confronti del capitalismo contemporaneo?
 
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[1] Si veda il mio precedente articolo sulla soggettivazione in Lacan, presente in questa opera.
[2] Michel Foucault, Le sujet et le pouvoir, in: Dits et écrits, Tome IV. 1980-1988, Gallimard, 1994, texte n. 306. 
[3] Michel Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, EHESS, Gallimard, Seuil, 2008.
[4] Michel Foucault, Le sujet, op. cit.; corsivo mio.
[5] Michel Foucault, Le sujet, op. cit. 
[6] Michel Foucault, Le sujet, op. cit. 
[7] Michel Foucault, Le gouvernement, op. cit., p. 6.
[8] «[…] il fallait essayer non pas d’analyser le développement ou le progrès des sciences, mais de repérer quelles étaient les pratiques discursives qui pouvaient constituer des matrices de connaissance possible, étudier dans ces pratiques les règles, le jeu du vrai et du faux, et, en gros, si vous voulez, les formes de véridiction. En somme il s’agissait de déplacer l’axe de l’histoire de la connaissance vers l’analyse des savoirs, des pratique discursives, qui organisent et constituent l’élément matriciel des savoirs, et étudier ces pratiques comme formes réglées de véridiction»; ibid.
[9] L’epistème del Rinascimento organizza i saperi intorno al principio di analogia, alle corrispondenze mirabili e segrete del cosmo. L’epistème dell’età classica si serve invece del principio di rappresentazione, ossia di un sapere che rispecchia il mondo attraverso una griglia ordinata di classificazioni. La terza epistème riconosce come principio organizzatore un soggetto garante del sapere in quanto tale. Essa emerge quando, all’interno dei saperi dell’età classica, ossia la storia naturale, l’analisi delle ricchezze e la grammatica generale, la tassonomia delle differenze, è sostituito dal principio dinamico considerato come loro origine, ossia, rispettivamente, la Vita, il Lavoro (Ricardo e Marx), la Lingua come energeia (Humboldt). Vi è dunque, dietro il campo positivo delle scienze, il piano di una genesi costituente, che porterà alle filosofie del soggetto. Il risultato è degno di nota: l’uomo, come si è detto, è al tempo stesso l’oggetto di certe scienze positive e il soggetto garante del sapere, che le fonda nel loro campo epistemico; esso è perciò un allotropo empirico-trascendentale.
[10] Le gouvernement, op. cit., p 6.
[11] «Le sujet est soit divisé à l’intérieur de lui-même, soit divisé des autres. Ce processus fait de lui un objet. Le partage entre le fou et l’homme sain d’esprit, le malade et l’individu en bonne santé, le criminel et le «gentil garçon» illustre cette tendance »; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit. 
[12] Michel Foucault, Le gouvernement, op. cit., p. 6.
[13] Prima di tutto la follia è «expérience à l’intérieur de notre culture, […] comme point à partir duquel se formait une série de savoirs plus ou moins hétérogènes, et dont le formes étaient à analyser : la folie comme matrice de connaissance»; in secondo luogo – egli dice – «la folie, dans la mesure même où elle est une forme de savoir, était aussi un ensemble de normes, normes qui permettaient de découper la folie comme phénomène de déviance à l’intérieur d’une société et en même temps normes de comportement […] aussi bien des individus normaux que des médecins, personnels psychiatriques, etc.»; terzo «la folie dans la mesure où cette expérience de la folie définit la constitution d’un sujet normal»; Le gouvernement, op. cit., p. 5.
[14] Si vedrà presto il senso di questa libertà.
[15] «Je voudrais suggérer ici une autre manière d’avancer vers une nouvelle économie des relations de pouvoir, qui soit à la fois plus empirique, plus directement reliée à notre situation présente, et qui implique davantage de rapports entre la théorie et la pratique. Ce nouveau mode d’investigation consiste à prendre les formes de résistance aux différents types de pouvoir comme point de départ. Ou, pour utiliser une autre métaphore, il consiste à utiliser cette résistance comme un catalyseur chimique qui permet de mettre en évidence les relations de pouvoir, de voir où elles s’inscrivent, de découvrir leurs points d’application et les méthodes qu’elles utilisent. Plutôt que d’analyser le pouvoir du point de vue de sa rationalité interne, il s’agit d’analyser les relations du pouvoir à travers l’affrontement des stratégies»; Le sujet, op. cit. 
[16] Le sujet, op. cit. 
[17] «On peut dire que tous les types d’assujettissement ne sont que des phénomènes dérivés, les conséquences d’autres processus économiques et sociaux : les forces de production, les conflits de classes et les structures idéologiques qui déterminent le type de subjectivité auquel on a recours»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit. 
[18] «Il est évident qu’on ne peut pas étudier les mécanismes d’assujettissement sans tenir compte de leurs rapports aux mécanismes d’exploitation et de domination. Mais ces mécanismes de soumission ne constituent pas simplement le «terminal» d’autres mécanismes, plus fondamentaux. Ils entretiennent des relations complexes et circulaires avec d’autres formes»; op. cit.
[19] «il faut distinguer les relations de pouvoir comme jeux stratégiques entre des libertés - jeux stratégiques qui font que les uns essaient de déterminer la conduite des autres, à quoi les autres répondent en essayant de ne pas laisser déterminer leur conduite ou en essayant de déterminer en retour la conduite des autres - et les états de domination, qui sont ce qu’on appelle d’ordinaire le pouvoir»; «L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté» (entretien avec H. Becker, R. Fornet-Betancourt, A. Gomez-Müller, 20 janvier 1984), in: Concordia. Revista internacional de filosofia, n. 6, juillet-décembre 1984, pp. 99-116. Ora in: Dits Ecrits, tome IV texte n. 356.
[20] «Lorsqu’un individu ou un groupe social arrivent à bloquer un champ de relations de pouvoir, à les rendre immobiles et fixes et à empêcher toute réversibilité du mouvement - par des instruments qui peuvent être aussi bien économiques que politiques ou militaires -, on est devant ce qu’on peut appeler un état de domination»; op. cit.
[21] «[…] entre les deux, entre les jeux de pouvoir et les états de domination, vous avez les technologies gouvernementales, en donnant à ce terme un sens très large - c’est aussi bien la manière dont on gouverne sa femme, ses enfants que la manière dont on gouverne une institution. L’analyse de ces techniques est nécessaire, parce que c’est très souvent à travers ce genre de techniques que s’établissent et se maintiennent les états de domination. Dans mon analyse du pouvoir, il y a ces trois niveaux: les relations stratégiques, les techniques de gouvernement et les états de domination»; op. cit.
[22] «Aujourd’hui c’est la lutte contre les formes d’assujettissement –  contre la soumission de la subjectivité –  qui prévaut de plus en plus»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[23] «l’opposition au pouvoir des hommes sur les femmes, des parents sur leurs enfants, de la psychiatrie sur les malades mentaux, de la médecine sur la population, de l’administration sur la manière dont les gens vivent »; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[24] Ecco queste caratteristiche:
«Ce sont des luttes "transversales"; je veux dire par là qu’elles ne se limitent pas à un pays particulier;
 Le but de ces luttes, c’est les effets de pouvoir en tant que tels», c’est-à-dire la direction de la vie des individus ;
Ce sont des luttes «immédiates»; […] ils n’envisagent pas que la solution à leur problème puisse résider dans un quelconque avenir (c’est-à-dire dans une promesse de libération); 
4) Ce sont des luttes qui mettent en question le statut de l’individu: d’un côté, elles affirment le droit à la différence […]. De l’autre, elles s’attaquent à tout ce qui peut isoler l’individu, le couper des autres.
5) Elles opposent une résistance aux effets de pouvoir qui sont liés au savoir, à la compétence et à la qualification. Elles luttent contre les privilèges du savoir. […] Ce qui est mis en question, c’est la manière dont le savoir circule et fonctionne, ses rapports au pouvoir.
6) Enfin, toutes les luttes actuelles tournent autour de la même question: qui sommes-nous? Elles sont un refus de ces abstractions, un refus de la violence exercée par l’État économique et idéologique qui ignore qui nous sommes individuellement, et aussi un refus de l’inquisition scientifique ou administrative qui détermine notre identité»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[25] Questo fornisce a Foucault l’occasione di ritornare sulle tecniche disciplinari che dirigono i soggetti. Che cos’è in effetti una disciplina è l’imbricazione reciproca di tre aspetti: capacità tecniche, rapporti di potere, rapporti di comunicazione: «Ces blocs où la mise en œuvre de capacités techniques, le jeu des communications et les relations de pouvoir sont ajustés les uns aux autres, selon des formules réfléchies, constituent ce qu’on peut appeler, en élargissant un peu le sens du mot, des ’disciplines’»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit. 
Perché questa imbricazione? «La mise en œuvre de capacités objectives, dans ses formes les plus élémentaires, implique des rapports de communication (qu’il s’agisse d’information préalable, ou de travail partagé); elle est liée aussi à des relations de pouvoir (qu’il s’agisse de tâches obligatoires, de gestes imposés par une tradition ou un apprentissage, de subdivisions ou de répartition plus ou moins obligatoire de travail). Les rapports de communication impliquent des activités finalisées (ne serait-ce que la mise en jeu «correcte» des éléments signifiants) et, sur le seul fait qu’ils modifient le champ informatif des partenaires, ils induisent des effets de pouvoir. Quant aux relations de pouvoir elles-mêmes, elles s’exercent pour une part extrêmement importante à travers la production et l’échange de signes ; et elles ne sont guère dissociables non plus des activités finalisées, qu’il s’agisse de celles qui permettent d’exercer ce pouvoir (comme les techniques de dressage, les procédés de domination, les manières d’obtenir l’obéissance) ou de celles qui font appel pour se déployer à des relations de pouvoir (ainsi dans la division du travail et la hiérarchie des tâches)»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit. 
Si potrebbe quindi dire che la disciplina è un elemento che trasforma sapere e potere gli uni negli altri, l’elemento nel quale entrambi, implicitamente o esplicitamente, si trovano in una relazione di determinazione reciproca. C’è una presa discorsiva sul corpo nella misura in cui vi è una presa disciplinare, ossia nella misura in cui il sapere diventa una disciplina.
[26] «par la disciplinarisation des sociétés, depuis le XVIIIe siècle en Europe, ce n’est pas bien entendu que les individus qui en font partie deviennent de plus en plus obéissants ni qu’elles se mettent toutes à ressembler à des casernes, à des écoles ou à des prisons ; mais qu’on y a cherché un ajustement de mieux en mieux contrôlé –  de plus en plus rationnel et économique –  entre les activités productives, les réseaux de communication et le jeu des relations de pouvoir»; in Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[27] In: Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[28] «Cette forme de pouvoir est orientée vers le salut (par opposition au pouvoir politique). Elle est oblative (par opposition au principe de souveraineté) et individualisante (par opposition au pouvoir juridique). Elle est coextensive à la vie et dans son prolongement ; elle est liée à une production de la vérité - la vérité de l’individu lui-même »; in Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[29] «[o]n passe du souci de conduire les gens au salut dans l’autre monde à l’idée qu’il faut l’assurer ici-bas. Et, dans ce contexte, le mot «salut» prend plusieurs sens : il veut dire santé, bien-être (c’est-à-dire niveau de vie correct, ressources suffisantes), sécurité, protection contre les accidents. […] il suffit de penser au rôle de la médecine et à sa fonction sociale qu’ont longtemps assurée les Églises catholique et protestante»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit..
[30] «cette forme de pouvoir a été exercée par l’appareil d’État, ou, du moins, une institution publique comme la police. (N’oublions pas que la police a été inventée au XVIIIe siècle non seulement pour veiller au maintien de l’ordre et de la loi et pour aider les gouvernements à lutter contre leurs ennemis, mais pour assurer l’approvisionnement des villes, protéger l’hygiène et la santé ainsi que tous les critères considérés comme nécessaires au développement de l’artisanat et du commerce)»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[31] «Cette forme de pouvoir s’exerce sur la vie quotidienne immédiate, qui classe les individus en catégories, les désigne par leur individualité propre, les attache à leur identité, leur impose une loi de vérité qu’il leur faut reconnaître et que les autres doivent reconnaître en eux. C’est une forme de pouvoir qui transforme les individus en sujets. Il y a deux sens au mot «sujet» : sujet soumis à l’autre par le contrôle et la dépendance, et sujet attaché à sa propre identité par la conscience ou la connaissance de soi. Dans les deux cas, ce mot suggère une forme de pouvoir qui subjugue et assujettit»; in: Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[32] Riportiamo in originale questo passo memorabile. «Le pouvoir ne s’exerce que sur des "sujets libres", et en tant qu’ils sont "libres" –  entendons par là des sujets individuels ou collectifs qui ont devant eux un champ de possibilité où plusieurs conduites, plusieurs réactions et divers modes de comportement peuvent prendre place. Là où les déterminations sont saturées, il n’y a pas de relation de pouvoir : l’esclavage n’est pas un rapport de pouvoir lorsque l’homme est aux fers (il s’agit alors d’un rapport physique de contrainte), mais justement lorsqu’il peut se déplacer et à la limite s’échapper. Là où les déterminations sont saturées, il n’y a pas de relation de pouvoir : l’esclavage n’est pas un rapport de pouvoir lorsque l’homme est aux fers (il s’agit alors d’un rapport physique de contrainte), mais justement lorsqu’il peut se déplacer et à la limite s’échapper. Il n’y a donc pas un face-à-face de pouvoir et de liberté, avec entre eux un rapport d’exclusion (partout où le pouvoir s’exerce, la liberté disparaît) ; mais un jeu beaucoup plus complexe: dans ce jeu la liberté va bien apparaître comme condition d’existence du pouvoir (à la fois son préalable, puisqu’il faut qu’il y ait de la liberté pour que le pouvoir s’exerce, et aussi son support permanent puisque, si elle se dérobait entièrement au pouvoir qui s’exerce sur elle, celui-ci disparaîtrait du fait même et devrait se trouver un substitut dans la coercition pure et simple de la violence) ; mais elle apparaît aussi comme ce qui ne pourra que s’opposer à un exercice du pouvoir qui tend en fin de compte à la déterminer entièrement»; in Michel Foucault, Le sujet, op. cit.
[33] «[C]ette pratique de libération – dit-il – ne suffit pas à définir les pratiques de liberté qui seront ensuite nécessaires pour que ce peuple, cette société et ces individus puissent se définir des formes recevables et acceptables de leur existence ou de la société politique. C’est pourquoi j’insiste plutôt sur les pratiques de liberté que sur les processus de libération»; L’éthique du souci, op. cit.
[34] «la libération est parfois la condition politique ou historique pour une pratique de liberté. Si l’on prend l’exemple de la sexualité, il est certain qu’il a fallu un certain nombre de libérations par rapport au pouvoir du mâle, qu’il a fallu se libérer d’une morale oppressive qui concerne aussi bien l’hétérosexualité que l’homosexualité ; mais cette libération ne fait pas apparaître l’être heureux et plein d’une sexualité où le sujet aurait atteint un rapport complet et satisfaisant. La libération ouvre un champ pour de nouveaux rapports de pouvoir, qu’il s’agit de contrôler par des pratiques de liberté»; L’éthique du souci, op. cit.
[35] Le souci «qu’est-ce que l’éthique, sinon la pratique de la liberté, la pratique réfléchie de la liberté?»; in: L’éthique du souci.
[36] L’idea che l’azione etica mostri una libertà in atto, ci faccia conoscere l’esistenza della libertà, è presente anche nella Critica della ragion pratica di Kant: se la libertà è ratio essendi della moralità – senza il postulato di un’azione libera la morale non potrebbe aver luogo, non avrebbe senso – la moralità è la ratio cognoscendi della libertà: di fronte ad un’azione non conforme alla legge morale noi non sappiamo se essa sia il prodotto di un automatismo istintuale sedimentato e interiorizzato o di un atto libero. Ne viene che il male radicale non può mai conoscersi come atto di libertà, benché il filosofo debba in astratto ammetterlo perché sia garantita la libertà trascendentale.
[37] «Le souci de soi a été, dans le monde gréco-romain, le mode dans lequel la liberté individuelle - ou la liberté civique, jusqu’à un certain point - s’est réfléchie comme éthique»; in: L’éthique du souci, op. cit.
[38] «l’éthique comme pratique réfléchie de la liberté a tourné autour de cet impératif fondamental, ’soucie-toi de toi-même’»; in: L’éthique du souci, op. cit.
[39] «dans la mesure où la liberté signifie, pour les Grecs, le non-esclavage - ce qui est tout de même une définition de la liberté assez différente de la nôtre -, le problème est déjà tout entier politique. Il est politique dans la mesure où le non-esclavage à l’égard des autres est une condition : un esclave n’a pas d’éthique. La liberté est donc en elle-même politique. Et puis, elle a aussi un modèle politique, dans la mesure où être libre signifie ne pas être esclave de soi-même et de ses appétits, ce qui implique qu’on établisse à soi-même un certain rapport de domination, de maîtrise, qu’on appelait archê - pouvoir, commandement»; in: L’éthique du souci, op. cit.
[40] «Le souci de soi est éthique en lui-même ; mais il implique des rapports complexes avec les autres, dans la mesure où cet êthos de la liberté est aussi une manière de se soucier des autres ; c’est pourquoi il est important, pour un homme libre qui se conduit comme il faut, de savoir gouverner sa femme, ses enfants, sa maison. C’est là aussi l’art de gouverner. L’êthos implique aussi un rapport aux autres, dans la mesure où le souci de soi rend capable d’occuper, dans la cité, dans la communauté ou dans les relations interindividuelles, la place qui convient - que ce soit pour exercer une magistrature ou pour avoir des rapports d’amitié »; in: L’éthique du souci, op. cit.
[41] «La tempérance sexuelle est un exercice de liberté qui prend forme dans la maitrise de soi ; et celle-ci se manifeste dans la manière dont le sujet se tient et se retient dans l’exercice de son activité virile, la façon dont il a rapport a lui-même dans le rapport qu’il a aux autres», Histoire de la sexualité, II, L’usage des plaisirs, p. 125.
[42] «La parrêsia est donc une certaine manière de parler. Plus précisément c’est une manière de dire vrai. Troisièmement c’est une manière de dire vrai qui est telle qu’on ouvre pour soi-même le risque par le fait même que l’on dit vrai. Quatrièmement la parrêsia est une manière d’ouvrir ce risque lié au dire-vrai en se constituant soi-même comme partenaire en quelque sorte de soi lorsque on parle, en se liant à l’énoncé de la vérité, et en se liant à l’énonciation de la vérité. Enfin la parrêsia c’est une manière de se lier à soi-même dans l’énoncé de vérité, de se lier librement à soi-même et dans la forme d’un acte courageux. La parrêsia c’est le libre courage par lequel on se lie soi-même  dans son acte risqué et libre»; in: Le gouvernement; op. cit., pp. 63-64.
[43] «[…] la parrêsia est donc une certaine manière de dire qui est telle que l’énoncé et l’acte d’énonciation vont avoir des effets de retour sur le sujet lui-même»; in: Le gouvernement, op. cit., pp. 64
[44] «les pratiques de soi, ces pratiques ne sont pas néanmoins quelque chose que l’individu invente lui-même. Ce sont des schémas qu’il trouve dans sa culture et qui lui sont proposés, suggérés, imposés par sa culture, sa société et son groupe social»; in: L’éthique du souci, op. cit.