Al presente!
La vittoria del neoliberismo, la crisi economica, le politiche di austerità, la globalizzazione, la fine del compromesso keynesiano, il ruolo della finanza, la governance esercitata da meccanismi sovrannazionali sottratti al controllo democratico, il ricatto costante della speculazione, l’occupazione da parte dei flussi di capitale dello spazio che un tempo apparteneva alla sovranità statale aprono oggi una serie di questioni sistemiche, che rimettono in questione il capitalismo in quanto tale.
Per comprendere la logica interna non possiamo servirci soltanto di categorie economiche, ma abbiamo bisogno di mobilitare concetti appartenenti ad ambiti diversi: filosofia, sociologia, psicanalisi, semiotica e così via. Ciò accade perché il capitalismo produce non solo merci, ma forme di vita soggettiva; il suo potere non è repressivo, ma trofico. Tutto questo avviene costitutivamente, come Marx capì bene.
Ora, che il capitalismo consista in un meccanismo di soggettivazione[1], nella produzione standardizzata di soggetti, lo si vede nell’induzione al consumo: il capitalismo – si dice – produce desideri o, con espressione analoga, crea bisogni.
In questa oscillazione fra desideri e bisogni, in questo imbarazzo che la comprensione ordinaria della questione mostra, si cela un groviglio di problemi che occorre saper scorgere con chiarezza. Che cos’è, infatti, che l’economia capitalistica precisamente suscita, bisogni o desideri? Se non c’è nessun elemento naturale a distinguere gli uni dagli altri, poiché i primi sono sempre storicamente e socialmente costruiti, in che cosa consiste la loro differenza? Che rapporto hanno con il soggetto?Esiste uno specifico del capitalismo tanto nella loro differenza quanto in questo rapporto?
Le domande rincorrono la fuga di questo primo tema, desiderio e bisogno. Il cammino attraversa inevitabilmente il pensiero di Hegel, Kojève, Sartre, ma soprattutto di Lacan, con cui, non senza un certo sperimentalismo e un’apertura all’ibridazione di concetti eterogenei, ci si confronterà.
- Desiderio e intersoggettività
– “Is there anybody in there?”.
No, non c’è nessuno dentro. Se per un oggetto intenzionale o per un contenuto possiamo trovare un correlato fenomenico (rispettivamente la cosa che appare e il percetto), non possiamo fare altrettanto per un atto soggettivo. Niente di ciò che chiamiamo soggetto appare. In un certo senso esso non è. Su questo punto la Fenomenologia dello spirito di Hegel è chiara: il soggetto è il movimento del distinguersi da un essere oggettivo, il movimento che lo nega, lo consuma e lo assimila.
Esso, tuttavia, ad un certo punto incontra una x che non riesce a negare come cosa, perché questa x presenta il medesimo movimento negativo; si tratta evidentemente dell’Altro, del Tu. Il soggetto vi riconosce sé. Dopodiché desidera che anch’esso lo faccia, che lo riconosca come soggetto, come movimento negativo, come non-cosa. Ma per far ciò l’Altro deve a sua volta desiderarlo: se riconoscere significa vedere in un tu le stesse caratteristiche proprie, per riconoscere il primo soggetto, l’Altro deve determinarsi anch’esso come desiderante. Esser riconosciuto significa dunque esser desiderato; desiderare di esser riconosciuto significa desiderare di esser desiderato.
La progressione dialettica è quindi questa: la negazione si fa riconoscimento, che si fa desiderio di riconoscimento, che si fa desiderio di desiderio; ciò immette il soggetto in un piano intersoggettivo, l’unico in cui la sua negatività di partenza possa trovare una qualche consistenza, l’unica barriera che sia posta al suo potere di dissolvere: desidero esser desiderato, in modo da potermi distinguere dalla cosa e da poter nello stesso tempo, in qualche modo, “essere”. Ma questo “essere” non è niente di presenziale, è intessuto di quella negatività da cui si origina e nel cui cieco movimento ricadrebbe senza l’Altro. Il prezzo da pagare per sfuggire al rango di cosa e per non precipitare nella negazione infinita è di consegnarsi integralmente a questo statuto intersoggettivo del desiderio: il soggetto c’è come soggetto fintantoché sia riconosciuto dall’Altro e viceversa; allo stesso modo in cui due semiarchi si reggono nelle spinte reciproche, solo nell’intersoggettività dei desideri soggetto e Altro sono.
Questa azione ontogenetica del desiderio è il grande insegnamento della Fenomenologia dello spirito così come Kojève la interpreta; Sartre e il primo Lacan su piani diversi (la libertà gettata del per-sé, l’inconscio “che parla”) ribadiscono questo punto.
- Oltre la natura intersoggettiva del desiderio: il buco nel simbolico
Con una svolta epistemica che lo porta oltre la dialettica e l’umanesimo kojèviano e sartriano, Lacan sviluppa la questione del desiderio su un piano diverso: l’Altro diventa per lui il linguaggio, il non-luogo in cui si danno le sue leggi di struttura, il tesoro dei significanti.
La ridefinizione del desiderio entro questi nuovi termini avviene in modo perspicuo nei seminari V e VI attraverso il celebre e controverso “grafo”[2]. Esso ha come primo gradino proprio il bisogno del neonato (per esempio la fame) nel momento in cui esso viene detto, nel momento cioè in cui esso entra nella catena significante sotto forma di messaggio, il grido.
Il fatto di scambiare significanti alla luce di un codice, l’entrata nel linguaggio, produce una serie di risultati sconcertanti che hanno a che fare con la denaturalizzazione dell’essere umano. In primo luogo il soggetto in via di costituzione non avrà più accesso ai propri bisogni organici e a ciò che può appagarli se non, appunto, dicendoli. In secondo luogo l’esperienza delle cose in generale non sarà più possibile in modo prelinguistico, ma sempre attraverso il filtro cognitivo dei significanti.
Vi è però un terzo effetto: è proprio l’entrata del linguaggio a produrre il desiderio. Vediamo come. Il soggetto deve far passare il che-cosa del bisogno attraverso il Chi a cui la domanda della sua soddisfazione è rivolta. Esso si rivolge così all’Altro che gli parla, ossia l’altro materno. Ed è qui che sorge il trauma del desiderio: il soggetto fa esperienza del suo fort-da, del suo non essere sempre lì presso di lui/lei, della sua altalena di presenza-assenza. Ecco che allora il soggetto le rivolge implicitamente una domanda: “Che vuoi?”; ossia “Qual è il tuo desiderio?”. Questa esperienza porta con sé un fallimento: l’oggetto del bisogno non rassicura il soggetto circa il desiderio dell’altro materno, nessuna cosa può garantirglielo.
Ma vi è un quarto effetto – probabilmente il più importante ai fini del discorso sul capitalismo che stiamo conducendo: il soggetto fa esperienza che non vi è nel linguaggio alcun significante che gli permetta di designare se stesso in modo stabile e permanente.
Perché questo accade? In generale un significante può significare qualcosa grazie al posto che occupa nel sistema della lingua, nella rete delle sue opposizioni (ciò che Saussure chiama la Langue). Il soggetto, però, non è semplicemente qualcosa che possa venir enunciato, ma la funzione che opera nell’enunciazione; in altri termini esso non è ciò di cui si parla, ma ciò che parla nell’atto stesso del parlare. Siamo dunque di fronte non ad un significante, con un senso, un contenuto informativo predeterminato, ma ad un puro indice, uno shifter, un indicatore mobile (l’espressione “io”), che cambia di volta in volta ed è legato alle circostanze occasionali del parlare[3].
Ecco quindi il risultato: nella Langue come sistema, nella rete sincronica delle sue opposizioni, non si è trovato il significante che designa il soggetto; esso è apparso invece nella Parole e lo ha fatto in quanto istanza che occupa il luogo occasionale dell’enunciazione. Il suo essere è perciò qualcosa di strutturalmente insaturo, qualcosa che accade in un posizionamento che non può avvenire una volta per tutte e che è piuttosto una dislocazione, un differimento in un ancora-da-dire. Il suo apparire è dunque lo sparire di un essere presenziale[4], il suo essere è piuttosto un desêtre. Questo vuoto si scrive sul suo corpo e ne fa un soggetto desiderante, un soggetto che deve parlare all’altro per poter sempre di nuovo “farsi essente”.
- Desiderio e godimento: dalla logica del riempimento alla sovrapposizione dei vuoti
Il grafo non si limita soltanto alla genesi del desiderio, ma anche del godimento, inteso inizialmente come dinamica di copertura del vuoto del desiderio; ad operare questa copertura è ciò che Lacan chiama l’oggetto a[5]: nel Seminario VI, a cui ci stiamo riferendo, esso è ancora nel registro dell’immaginario[6]; si tratta del fantasma fondamentale. Lacan spiega così il suo sorgere: il soggetto, per far fronte ad un punto panico, per coprire questo buco nel simbolico, per dominare l’angoscia[7] derivante dall’inesistenza del significante che permetterebbe la sua autodesignazione, si rappresenta come se avesse subito una rapina d’essere dal piccolo altro, ossia dall’altro immaginario; il caso freudiano del bambino battuto è emblematico.
Questo fantasma è il masochismo originario, di cui il soggetto gode poiché esso gli permette di non affrontare il carattere strutturale di questo vuoto insopportabile che il linguaggio ha scavato in lui[8]. Il godimento è qui tutto nell’immaginario, nella ripetizione di questo scenario masochista.
Abbiamo qui la prima forma di opposizione fra desiderio e godimento: il desiderio è dell’ordine del due, di una faglia strutturale nella costituzione del soggetto, prodotta e mantenuta dallo scambio simbolico. Il godimento è invece dell’ordine dell’uno, di una pienezza, da realizzare attraverso quel fantasma masochista che suturerebbe questo vuoto strutturale; va da sé che in questo modo esso fa ostacolo al desiderio.
A partire dal Seminario VII vi è però una svolta: il godimento viene ora iscritto nel registro del reale. Esso continua ad essere il punto in cui il soggetto gode di un pieno che sutura il vuoto che lo concerne, ma secondo una logica differente: qualcosa viene staccato dal corpo; questo distacco significa che il soggetto deve perdere la sua aderenza alle Cosa, deve lasciarla andare per far sì che tale perdita lo costituisca come corpo pulsionale, perpetuamente esposto al “due” del desiderio.
Il Seminario X chiamerà questo oggetto staccato col nome di oggetto a, che non sarà più, dunque, il fantasma fondamentale. Esso è al tempo stesso causa del desiderio, strappo sul corpo che è condizione necessaria perché esso venga costituito come soggetto desiderante e oggetto di un godimento che ha i tratti dell’Uno, della soppressione del desiderio. Tutto questo è evidente dall’angoscia, a cui Lacan, sempre nel Seminario X, riserva una posizione intermedia fra godimento e desiderio: l’angoscia sorge di fronte all’oggetto a nel momento in cui esso provoca una mancanza della mancanza, una possibile pienezza suturante che spalanca la strada del godimento e che sbarra quella del desiderio, si tratta dei tre oggetti fondamentali della psicanalisi freudiana (seno, feci, fallo), cui Lacan aggiunge lo sguardo e la voce[9].
Nel Seminario XI, infine, interviene una terza svolta epistemica[10]: Lacan complessifica questo schema che poteva sembrare apparentemente binario e descrive una sovrapposizione fra la mancanza del desiderio e quella del godimento, fra quella che nell’ordine del simbolico si scava nel soggetto per opera dell’Altro (alienazione), e quella che nel reale subisce come vivente in virtù dello strappo dell’oggetto a dal suo corpo (separazione)[11]. Di fronte alla sua sparizione nel simbolico, il soggetto cerca una sovreccitazione sensoriale (il godimento, identificato qui alla pulsione) che presentifica il corpo. Questa presentificazione, però, non consiste nel colmare la mancanza dell’oggetto a, ma nel tracciare un circuito intorno ai bordi del buco che la sua sottrazione lascia sul corpo. Il cerchio intorno all’oggetto a fa sentire il corpo e nello stesso tempo non satura con una presenza, quale che sia, il vuoto che la separazione da quest’oggetto vi ha iscritto.
Così concepito, il godimento non consiste più in una sutura del vuoto del desiderio (Seminari VII e X), ma nel sovrapporvi la pulsazione continua di apertura e chiusura[12].
Ecco dunque il risultato di questo percorso. Il desiderio ha a che fare con una faglia d’essere nel soggetto che viene coperta o da un fantasma immaginario (Seminario VI) o da un ulteriore buco, quello che la cessione dell’oggetto a ha iscritto sul suo corpo (Seminario XI). Già intravediamo nell’economia capitalistica quale enorme spazio d’azione questa struttura spalanchi per la merce.
- La natura sociale del bisogno
Torniamo ora al bisogno. Abbiamo visto, attraverso il grafo lacaniano, che il desiderio è desiderio dell’Altro mentre il bisogno è legato all’oggetto, in una dimensione organica da cui si esce subito, nel momento in cui esso viene detto. Questo provoca una denaturalizzazione del bisogno.
Nell’esplorare questa denaturalizzazione occorre aggiungere un elemento che in Hegel e in Kojève gioca un ruolo di primo piano: il lavoro. Il rapporto fra il soggetto umano e gli oggetti del bisogno è strutturalmente mediato da esso. Come sostiene Hegel, è innanzitutto il lavoro a togliere la naturalità della cosa, il suo in sé. Ciò vuol dire non solo che la natura viene trasformata in un insieme di oggetti sociali, ma che questi oggetti innescano nell’uomo un rapporto diverso dall’immediatezza naturale: ciò che soddisfa un bisogno è un oggetto lavorato. Non esiste più un rapporto naturale all’oggetto, un rapporto che non sia mediato dal lavoro e dalla sua organizzazione sociale.
Il linguaggio e il lavoro sono dunque i veicoli di una denaturalizzazione del bisogno. Il sistema dei bisogni è integralmente sociale. Persino il fatto di nutrirsi non è più un fatto solo biologico. Se anche esistono bisogni in origine naturali, legati alla sopravvivenza del nostro essere biologico – il nutrirsi, il coprirsi per far fronte al freddo – non vi si soddisfa più con oggetti naturali dati, ma con oggetti prodotti, elaborati o acquisiti dalla suddivisione sociale del lavoro. Questo fa sì che il mio bisogno “naturale” sia trasformato da quell’oggetto socialmente elaborato che può soddisfarlo e che divenga esso stesso sociale: è bisogno di qualcuno che produca quell’oggetto.
Abbiamo quindi bisogni naturali, che proprio per essere soddisfatti dagli oggetti della divisione sociale del lavoro, diventano bisogni di oggetti sociali; possiamo chiamarli bisogni naturali socialmente trasfigurati. Accanto ad essi abbiamo bisogni integralmente sociali, dovuti al fatto che la divisione del lavoro, necessaria al soddisfacimento dei primi, innesca ulteriori dipendenze.
Ecco quindi il risultato: grazie al lavoro e al linguaggio, il bisogno, come il desiderio, è indice di una avvenuta denaturalizzazione dell’essere umano; esso si definisce in relazione al piano artificiale per cui un oggetto elaborato dalla divisione sociale del lavoro risulta utile a. In questa rete di strumenti e bisogni, il singolo soggetto umano entra, senza esserne l’autore. Possiamo chiamare l’atto soggettivo che ha assunto e interiorizzato il bisogno sociale di oggetti voler-avere.
Il voler-avere può occorrere da solo; in questo caso voglio avere un oggetto solo perché mi serve per un certo scopo socialmente accettato; sembra dunque non esserci alcun intreccio con il desiderio. Così per esempio posso scegliere di comprare un oggetto esteticamente meno bello di un altro, più costoso, senza minimamente desiderarlo; qui l’utilità diventa criterio prioritario.
Sembra quindi che ci troviamo di fronte a oggetti puramente utili a soddisfare un bisogno e oggetti d’altro tipo, in cui il bisogno s’intreccia con altri moventi soggettivi, come appunto il desiderio. Ma in realtà la componente soggettiva è presente in ogni bisogno; infatti, perché esso sia efficace, è necessario che l’attore di un sistema sociale lo abbia interiorizzato. Occorre dunque che questo bisogno sia iscritto sul suo corpo e ne guidi gli atti.
Possiamo allora riassumere il risultato: un oggetto mi è utile a X; dunque sul mio corpo deve essere scritto “– X”,ossia appunto un bisogno. Il bisogno sociale lavora quindi come iscrizione di una mancanza (– X) a cui l’oggetto prodotto nella divisione del lavoro deve porre rimedio e che esso deve riempire, in modo tale che si possa scrivere: + X.
Siamo finalmente arrivati al punto: che rapporto c’è fra il “ – ” del desiderio, inteso come desiderio dell’Altro, e il “ – ” del bisogno, inteso come bisogno di un oggetto della divisione sociale del lavoro? Che rapporto c’è fra queste due mancanze? Come opera il capitalismo su entrambe?
- Desiderio, bisogno, soggetto, sutura: il dispositivo capitalistico.
Partiamo dal soggetto del bisogno; esso è l’insieme di queste mancanze, il decorso di questi “ – ”, che la divisione del lavoro al tempo stesso scrive e cancella, producendo gli oggetti che permettono di annullarla mediante l’inserzione dei loro “ + ”. Dobbiamo ora capire che rapporto c’è fra questo “ – ” del bisogno e il “ – ” del desiderio.
Avanziamo queste ipotesi: il modo di produzione capitalistico innanzitutto sovrappone il “ – ” del bisogno sociale al “ – ” del desiderio, li condensa; esso produce questa condensazione usando il “ + ” dell’oggetto atto a colmare il primo (la merce) come promessa illusoria per colmare il secondo; infine si serve del “ – ” del desiderio, nella sua impossibilità a essere colmato, per radicalizzare il “ – ” del bisogno, rendendo la rincorsa al “ + ” dell’oggetto un movimento sempre reiterato.
Quanto sopra abbiamo ipotizzato può essere riassunto così: nell’economia capitalistica la mancanza del desiderio viene usata in modo funzionale alla mancanza di un bisogno sociale; la seconda promette alla prima un pieno che essa non potrà mai avere, mentre la prima fornisce alla seconda un’intensità d’impulso e un’inestinguibilità che sono sistemicamente funzionali al consumo. Ciò che distingue il capitalismo contemporaneo da quello tradizionale e dalle altre forme di organizzazione sociale è insomma l’uso costante del desiderio in funzione del sistema sociale dei bisogni; per dirlo quasi con uno slogan: si induce il consumatore a dire non solo “Guarda quanto ti serve!”, ma anche e soprattutto “Guarda quanto lo desideri!”.
Il bisogno sociale s’innesta così sul desiderio, in un richiamo all’oggetto-merce che è al di là del valore d’uso: al soggetto, deficitario della propria designazione di soggetto, marcato dal suo desêtre, il capitalismo offre un oggetto-supporto che si innesta sul suo corpo. Poiché la mancanza nell’ordine dell’avere è facilmente colmabile, mentre quella nell’ordine dell’essere non lo è in alcun modo, l’oggetto che riempie la prima viene spacciato come qualcosa che è in grado di colmare la seconda. L’operazione che converte la mancanza desiderante nella mancanza del sistema sociale dei bisogni è possibile perché l’oggetto-merce lascia intravedere, per un soggetto che non smette di essere ontologicamente difettivo, la possibilità di consistere in un pieno. Al tempo stesso la mancanza desiderante continua ad agire, conferendo all’impulso al consumo una forza inedita e soprattutto una costante inestinguibilità.
Se diamo uno sguardo d’insieme su questo dispositivo, vediamo che esso ha qualcosa di paradossale: il meccanismo funziona proprio perché non funziona, la macchina del riempimento è efficace proprio perché non è efficace; questo accade in virtù della condensazione di desiderio e bisogno sociale. All’inizio vi è dunque l’azione della mancanza del sistema dei bisogni sulla mancanza desiderante per parassitarne l’intensità. Alla fine vi è la retroazione di quest’ultima per imprimere al processo il carattere della cattiva infinità.
Chiameremo quindi mancanza pervertita la sovrapposizione della mancanza del sistema dei bisogni alla mancanza desiderante. Come si è visto la prima dà la direzione verso un falso pieno; la seconda dà l’intensità del procedervi e la cattiva infinità del processo. Chiameremo poi questa x, di cui il capitalismo si serve per promettere il falso pieno in relazione alla mancanza pervertita, oggetto suturante[13]. In esso si possono trovare contemporaneamente i caratteri che Lacan, in due fasi successive del suo pensiero, ha attribuito all’oggetto a, iscrivendolo prima nell’immaginario poi nel reale: esso infatti è nell’immaginario per via della pienezza promessa, nel reale per via dell’intensità aisthetica e della cattiva infinità parassitate al desiderio.
Rimane da sottolineare un ultimo punto: in questo meccanismo si realizza per il soggetto coinvolto, il consumatore, una forma di godimento. Ma che c’entra qui il godimento? Ricordiamo che il godimento è qui assunto secondo il paradigma del Seminario XI di Lacan, ossia una ipereccitazione del corpo, innescata dallo strappo dell’oggetto a; si realizzava così una sovrapposizione fra i due buchi, quello del desiderio e quello del godimento, quello provocato dal trauma del linguaggio e quello provocato dalla perdita dell’oggetto a. L’ambiguità di questa posizione era apparsa da subito chiara: se da un lato essa poteva configurare un’alleanza fra desiderio e godimento, nel senso che il secondo, girando intorno al proprio vuoto, non satura quello caratteristico del primo, dall’altro essa può comportare il pericolo di cancellarlo, proprio per il fatto di dislocare tutta l’energia desiderante nella sovreccitazione del corpo che ha ceduto l’oggetto a.
Ora questo pericolo si realizza proprio nel consumo; infatti di questa sovrapposizione di buchi, in cui il godimento è strutturalmente ibridato al desiderio, la mancanza pervertita non è che una variante, una delle molte strutturalmente possibili e storicamente occorse: essa consiste nel sovrapporre alla mancanza desiderante la mancanza del sistema sociale dei bisogni cercando lì la sovreccitazione del godimento; il consumatore gode, attraverso l’oggetto merce, della sutura e della riapertura di questi due vuoti condensati.
Di questo complesso dispositivo possiamo a questo punto dare uno schema:
- La presa del corpo nel linguaggio produce come risultato strutturalela sovrapposizione fra godimento e desiderio (Seminario XI), ossia fra il buco che ha scavato sul corpo la cessione dell’oggetto a e quello causato dall’impossibile autodesignazione.
- Il godimento consumistico è una forma storica del godimento: l’oggetto a che scava la mancanza sul corpo pulsionale è la merce del sistema sociale dei bisogni.
- Ne consegue che nel consumo la sovrapposizione fra godimento e desiderio (1) si configura come sovrapposizione fra la mancanza di un bisogno sociale e la mancanza del desiderio.
- La prima mancanza è colmabile dall’oggetto merce, che viene quindi usata come promessa per colmare il secondo (la merce, oggetto suturante).
- Il secondo non si lascia colmare e si lascia di nuovo assorbire da un nuovo bisogno sociale.
- Si produce dunque un’induzione al consumo virtualmente infinita.
In questa dinamica il ruolo del sistema dei bisogni, del mondo-delle-cose, sta quindi non nell’aspirare un essere soggettivo in un essere oggettivo, nel reificare il soggetto, ma nel presentarsi come un meccanismo illusoriamente in grado di suturarne la mancanza e di parassitare ai fini del consumo un godimento che pulsa fra sutura e riapertura. Riprendo qui l’espressione “mondo-delle-cose”, molto efficace e teoreticamente densa, da Marco Ciccarella, con cui il mio intervento dialoga.
Il risultato di tutto ciò è presto detto: la trascendenza del desiderio, il movimento di dislocazione simbolica, l’essere sé che coincide con un divenire sé nell’impossibilità dell’autodesignazione, l’apertura all’Altro, decade a desiderio di oggetti simulacrali, verso cui un godimento promesso come pieno, ma che in realtà deve essere sistemicamente standardizzato e insoddisfacente, continuamente rilancia. In altri termini il soggetto, in questo desiderio mescolato non ad un godimento qualunque, ma al godimento della merce, perde ciò che di essenziale vi è in esso,ovvero la sua capacità di trascendere: per lui nessun altro mondo, nessun altro orizzonte è possibile all’infuori di quello capitalistico delle merci. Il soggetto è formattato allo stato di cose presente. Ma c’è di più: il suo trascendere è utilizzato nella cattiva infinità del consumo. L’impoverimento del simbolico, che del desiderio è il luogo genetico, si vede qui nel suo impoverimento progettuale, nell’incapacità di disegnare altri spazi di senso.
Come uscirne? Riproponendo una mistica del vuoto? Rilegittimando una filosofia del negativo, un soggetto che non deve mai appagare il proprio desiderio? Oppure con una sorta di giudizio di non-legittimità sui bisogni ibridati dal desiderio, che li riporti ai “veri” bisogni? Ma come è possibile se i bisogni in nome dei quali si proclama la legittimità dei desideri sono essi stessi socialmente costruiti? Con una pianificazione sociale che decida intorno ad essi e un apparato che controlli i corpi sul loro grado di aderenza ai bisogni pianificati? In questo modo il desiderio sembra slittare verso una coscienza infelice, mentre il bisogno sociale verso una pianificazione autoritaria; le soluzioni oscillerebbero fra ascetismo e comunitarismo repressivo.
Ora, l’errore di queste prospettive è quello di rompere il nesso fra desiderio e godimento, mentre si tratta in realtà di rompere quello fra desiderio e godimento consumistico.
Se è vero che il gioco fra oggetto suturante e mancanza pervertita non è che una forma di godimento, si tratta di moltiplicare quest’ultimo al di là del consumo di merci: le teorie e le pratiche queer mostrano chiaramente altre forme di ipereccitazione, di dispendio e di sperimentazione aisthetica del proprio corpo, non necessariamente autistiche ed eterodirette come quello del consumo capitalistico. L’obiezione al capitalismo non può essere “State perdendo il desiderio perché godete troppo”, ma “State perdendo il desiderio perché godete troppo poco e in modo standardizzato”.
Si tratta insomma di pervertire la mancanza pervertita realizzando un’insurrezione permanente del corpo che gode. Ma da realizzare è anche un’insurrezione permanente dell’immaginario. Questo secondo passaggio è necessario perché l’oggetto suturante, come si è visto, ha uno statuto immaginario oltre che reale, ciò che rivela nella promessa di un pieno. Su questo versante si tratta di contrapporre, alle immagini del mondo delle merci,immagini d’altro tipo, immagini che inquietano, immagini che non dislocano nel mondo delle merci, ma che portano il soggetto altrove, che rilanciano la sua inquietudine. È un fatto che mai le istanze rivoluzionare sono state così forti e diffuse come quando non solo la cultura tradizionale, ma anche quella che Adorno chiamava l’industria culturale dava vita ad opere in grado di metterne in questione i presupposti materiali. Questo avveniva non tanto dal punto di vista ideologico, veicolando cioè idee rivoluzionarie, ma proprio dal punto poietico, producendo opere suscettibili di ridestare il senso dell’altrove. Opere e immagini che dislocavano dalla dislocazione nelle merci.
Possiamo a questo punto trarre delle conclusioni. Abbiamo innanzitutto chiamato in causa l’insurrezione del corpo che gode e l’insurrezione dell’immaginario. Avevamo inoltre detto che il potere del capitalismo non è repressivo, ma trofico. Ora, se queste due premesse sono vere, l’insurrezione del corpo che gode e quella dell’immaginario non costituiscono una fuga individualistica, ma i presupposti obbligati per la rivoluzione. La rivoluzione non potrà essere compiuta fintantoché si lasci al capitalismo il potere di forgiare i soggetti attraverso un godimento del corpo e una codificazione dell’immaginario diretti dall’oggetto merce. Se il capitalismo ha prodotto soggetti, assorbendone l’energia desiderante nella manipolazione del corpo aisthetico e dell’immaginario, si tratta innanzitutto di disfare e rifare il corpo aisthetico e l’immaginario.
Condizione non sufficiente per la rivoluzione, ma certamente necessaria.
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[1] Indicherò in altri due studi qui presenti, l’uno dedicato a Lacan, l’altro a Foucault, entro che termini sia possibile usare il concetto di soggettivazione a proposito del capitalismo (Cfr. Il problema della soggettivazione in Lacan e Il problema della soggettivazione in Foucault).
[2] Analizzeremo dettagliatamente, alla luce della questione della soggettivazione, il grafo del desiderio nello studio su Lacan (cfr. Il problema della soggettivazione in Lacan). Ne diamo qui una esposizione sommaria.
[3] S VI, p. 45.
[4] Lacan, op. cit., p. 435.
[5] Lacan, op. cit., p. 435.
[6] Lacan, op. cit., 446.
[7] Per un quadro storico sull’evoluzione della concezione lacaniana dell’angoscia, cfr. nota 135 al mio saggio, presente in quest’opera, Il problema della soggettivazione in Lacan.
[8] Lacan, op. cit., pp. 446-447.
[9] Come scrive efficacemente Marco Basile «[l]’oggetto del godimento […] diviene l’oggetto causa del desiderio del soggetto, un oggetto alla ricerca di cui il desiderio non potrà mai essere condotto, perché esso si pone come la condizione del sorgere di questo stesso desiderio e non come il suo termine». Si veda in questo stesso volume: Marco Basile, Lacan's mirror selfie. La psicosi: una voce fuori campo,ovvero il rifiuto dell'Altro.
[10] Prima rottura: l’Altro non è più il polo del riconoscimento intersoggettivo, ma il non-luogo del linguaggio. Seconda rottura: il godimento ha a che fare con il reale ed è ciò che sbarra l’accesso al desiderio (Seminari VII e X). Terza rottura: il godimento si sovrappone al desiderio (Seminario XI).
[11] Seminario XI, p. 229.
[12] Questo nuovo paradigma del godimento, come lo ha chiamato J. A. Miller, che Lacan stabilisce nel Seminario XI, non stravolge ma anzi conferma la tesi che sosterrò: il meccanismo dell’induzione al consumo consiste nel sostituire la mancanza del desiderio con quella di un sistema sociale di bisogni, usando l’energia e l’inestinguibilità della prima a vantaggio della seconda. Per evitare equivoci che ingenererebbe un uso troppo disinvolto della terminologia lacaniana entro il quadro di una critica filosofica del capitalismo, parlerò della merce non come oggetto a ma come oggetto suturante.
[13] Come ho già detto preferisco parlare della merce in termini di oggetto suturante piuttosto di oggetto a perché voglio sottolineare che nel capitalismo contemporaneo alla mancanza del desiderio viene sovrapposta la mancanza del sistema sociale dei bisogni. Analogamente preferisco parlare di sovrapposizione anziché di alleanza (J. A. Miller) o di ibridazione fra (Recalcati) di desiderio e godimento: queste espressioni nascondono il pericolo, sempre presente, che il secondo non permetta il primo, pericolo radicalizzato proprio perché gli si è fatto simile, ruotando esso stesso intorno a un vuoto. Questo pericolo è evidente nel capitalismo, in cui la sovrapposizione fra i due buchi subisce un pervertimento essenziale: il buco intorno a cui ruota il godimento consumistico della merce parassita l’energia del desiderio.