1.1. Artaud e la Riforma della Regia
Tra Sette e Ottocento, il teatro europeo è nelle mani dell’autore: l’interesse dei palcoscenici ufficiali ruota intorno al testo, alla parola e al verso poetico trascurando il “qui e ora” su cui, da sempre, si fonda l’arte performativa.
Tra Otto e Novecento, i padri della regia cercano di invertire questo processo: non si concentrano sulla matrice letteraria del teatro, ma sulla sua natura di evento; non privilegiano ciò che è scritto sulla pagina, ma ciò che si dà nel luogo e nel tempo condivisi con la platea; non approfondiscono questioni stilistiche, ma le possibilità espressive dell’attore, dei costumi e della scenografia, della luce, della musica e dell’incontro con il pubblico.
In questo passaggio capitale tra scrittura di testo e scrittura di scena1, la Francia gioca un ruolo fondamentale dando i natali, fra gli altri, al più radicale dei riformisti: Antonin Artaud (1896 -1948).
Nato e cresciuto a Marsiglia, Artaud abbandona la provincia francese nel 1920: si trasferisce a Parigi, debutta come attore teatrale2 e cinematografico3, compone alcune poesie che tenterà invano di pubblicare sulle colonne della “Nouvelle Revue Française”; dal carteggio con il direttore Jacques Rivière, emerge la prima nozione di un dolore mentale e fisico capace di funestare l’intera esistenza di un uomo e segnare profondamente le coordinate della sua poetica.
«Quella dispersione nelle mie poesie, quei vizi di forma [...] non bisogna attribuirli a mancanza di esercizio, o di padronanza degli strumenti da me posseduti, o a mancanza di sviluppo intellettivo, ma a uno sprofondamento centrale dell'anima, una specie di erosione, essenziale e fugace del mio pensiero [...]. C'è qualcosa che distrugge il mio pensiero, qualcosa che, se pur non mi impedisce di essere quel che potrei essere, mi lascia, per così dir sospeso» (Artaud, 1924)
Allo stesso 1924 risale l’ articolo L’evoluzione dello scenario, comparso sulla rivista “Comoedia”: ostile alle lungaggini della tradizione quanto alle avanguardie, Artaud sostiene che il teatro vada, semplicemente, «rigettato nella vita» (Artaud, 1924) – solo così può tornare ad essere un’arte efficace, in grado di destare nell’essere umano il senso comunitario che animava la polis greca.
Dopo aver militato tra le file del movimento surrealista per un anno, nel 1926 il nostro avvia ufficialmente la sua carriera di drammaturgo e regista, fondando insieme a Robert Aron e Vitrac il Teatro Alfred Jarry.
Al momento, per compiere il suo ideale di partecipazione della platea, Artaud confida nel testo più che negli strumenti della messa in scena: così, il programma della compagnia prevede opere4 che affrontino grandi tematiche attraverso dialoghi semplici, veloci ed impetuosi, per eliminare il «potere d’illusione» del teatro e restituirgli un «ordine di realtà» veramente capace di coinvolgere gli astanti.
«Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a un’operazione vera […] Andrà ormai a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d’animo, pensando evidentemente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro. Se non fossimo persuasi di colpirlo il più gravemente possibile, ci considereremmo impari al nostro impegno più assoluto. Egli deve essere convinto che siamo capaci di farlo gridare» (Artaud, 1926)
1.2. Il Primo Teatro della Crudeltà
Per un cambio di visione, bisognerà aspettare la chiusura del Teatro Jarry, che fallirà definitivamente nel 1930.
L’anno successivo, all’Esposizione Coloniale di Parigi, Artaud assiste a una performance di danzatori balinesi5 di cui scriverà un’entusiastica recensione, stregato dal «dedalo di gesti, di atteggiamenti, di grida lanciate all'aria» (Artaud, 1931) che lo illuminano su una nuova centralità della messa in scena6.
In seguito, chiarirà l’epifania in maniera estesa:
«La novità del teatro balinese è stata quella rivelarci un’idea fisica e non verbale del teatro, secondo la quale il teatro sta entro i limiti di tutto ciò che può avvenire su un palcoscenico, indipendentemente dal testo scritto, mentre, come lo intendiamo noi occidentali, esso si confonde con il testo e finisce per esserne limitato. Per noi a teatro la Parola è tutto, e non esiste possibilità d’espressione all’infuori di essa; il teatro è un ramo della letteratura, una sorta di applicazione sonora del linguaggio […] e tutto ciò che va oltre il testo, che non rimane entro i suoi limiti e non ne è strettamente condizionato, ci sembra appartenere al campo della regia, considerata come qualcosa di inferiore» (Artaud, 1935)
A ben vedere Artaud non mira ad eliminare la parola dal teatro; sull’esempio balinese, la pone come un aspetto gerarchicamente pari agli altri, non superiore né inferiore al gesto, al movimento e alla coreografia.
Più in generale, ogni elemento della messa in scena deve valere in sé, come forma e non come portatore di un contenuto; come segno puro, e non come messaggero delle tesi di un autore; come parte di un evento, e non come espressione di un testo a monte.
Così il teatro cessa di rappresentare, offrendosi come esperienza, chiedendo di essere vissuto più che compreso in termini critico-ermeneutici: libera dai paradigmi della cultura, la platea può abbandonarsi in maniera totale all’energia della performance; un’energia che non colpisce solo la mente dello spettatore ma, finalmente, anche il suo corpo, fondendoli insieme, unendoli sullo stesso asse, legandoli in un’armonia che la nostra civiltà ha da tempo dimenticato – nel segno dell’antico dualismo platonico portato avanti dai codici comportamentali e morali della borghesia.
Siamo davanti al primo grande traguardo della ricerca artaudiana: infrangere i confini tra psichico e fisico vuole dire, in fin dei conti, restituire alle scena la vita che il nostro invocava fin dall’articolo del ’24.
Questa rivoluzione prende il nome di Teatro della Crudeltà – il termine, lungi da essere sinonimo di sadismo, chiarisce il grado di intensità di cui la performance ha bisogno per compiere un simile rito di palingenesi7: la platea deve essere scossa ogni parte del suo essere, al punto che Artaud paragona l’incontro teatrale al calvario della peste o della guerra da cui, alla fine, si esce purificati; in effetti, gli allestimenti previsti dal nostro sono dei parossismi visuali, acustici e plastici che sfruttano fino in fondo i reparti della scena8, capaci di colpire anche gli spettatori più freddi.
I due Manifesti della Crudeltà, datati 1932 e 1933, sono radunati insieme ad altri scritti nel capolavoro Il Teatro e il suo doppio, edito da Gallimard nel 1938; chiude il volume Un atletismo affettivo, breve ma significativo intervento su quella che sarà, d’ora in avanti, la pietra angolare della ricerca artaudiana : l’attore.
Secondo il nostro, il performer non deve calarsi nelle vicende di un personaggio, ma portare in scena le proprie passioni: beninteso, con tale nome Artaud non identifica i sentimenti biografici dell’interprete, che riporterebbero la performance a una cornice quotidiana. Le emozioni vanno spogliate di tutte le strutture umane per essere colte nella loro natura originaria di istinti animali - solo ritrovando questa dimensione, possono liberare sulla scena il massimo grado di energia.
Lo strumento per compiere un simile risveglio è, secondo Artaud, il respiro (souffle). Sulla base dei precetti cabalistici9, il nostro isola tre tipologie del fenomeno: un respiro “maschile”, lungo e teso verso l’esterno, un respiro “femminile”, breve teso e teso verso l’interno, un respiro “androgino”, più regolare ed equilibrato.
La combinazione di tali tipologie in sequenze articolate produrrà nell’organismo del performer una certa alterazione del battito cardiaco, del tono muscolare e della temperatura corporea corrispondente a questa o quella passione: felicità, dolore, sorpresa, paura e così via.
In virtù di ciò Artaud definisce l’attore un “atleta del cuore”10 : il sentimento non ha più un canale di accesso cerebrale ma anche e soprattutto somatico:
«Si può ridurre fisiologicamente l’anima a una matassa di vibrazioni. […] Sapere che una passione è materia, che è soggetta alle fluttuazioni plastiche della materia, garantisce un dominio sulle passioni che allarga la nostra sovranità. Raggiungere le passioni attraverso le loro forze, anziché considerarle astrazioni pure, conferisce all’attore una maestria che lo eguaglia a un autentico guaritore. Sapere che l’anima ha uno sbocco corporeo permette di raggiungere l’anima in senso inverso. […] Conoscere il segreto del ritmo delle passioni, di questa sorta di tempo musicale che ne regola il battito armonico11, ecco un aspetto del teatro cui da tempo il nostro moderno teatro psicologico ha sicuramente cessato di pensare» (Artaud, 1938)
Notiamo come i discorsi di Artaud, apparentemente astratti, trovino sempre un riscontro concreto nel mestiere dell’attore: l’armonia tra corpo e mente invocata dal nostro è conseguita materialmente dal performer mediante la disciplina del souffle, e quindi trasmessa alla platea nel corso dello spettacolo.
Solo con il sostegno di una tecnica, insomma, è possibile compiere la missione del Teatro della Crudeltà – rompere gli argini millenari che separano l’anima dalla carne, restituendo al mondo un essere umano intero.
1.3. L’esilio
I due Manifesti della Crudeltà contenevano un cartellone stagionale di adattamenti prelevati dalle fonti più disparate12 che, puntualmente, non vedranno la luce del debutto.
Nel 1935 Artaud decidere mettersi in gioco in prima persona: scrive, dirige e interpreta Les Cenci, tragedia in quattro atti tratta da Shelley e Stendhal andata in scena nel mese di maggio al Thèâtre des Folies-Wagram. Vessato da limiti economici, l’allestimento manca il bersaglio, non centra il modello di perfomance eliogabalica auspicato nei vari programmi ed è un pesante insuccesso critica.
Deluso dai fallimenti, il regista francese pianifica altri spettacoli, ma d’impulso abbandona le compagnie parigine per soddisfare un bisogno di fuga a lungo covato che inaugura il periodo più oscuro della sua biografia.
La meta del primo viaggio, nel 1936, è il Messico: Artaud si imbarca ad Anversa a gennaio, sosta all’Avana e prosegue per Vera Cruz fino a Città del Messico dove, bisognoso di denaro, tiene alcune conferenze a tema surrealista; nel mese di giugno lascia la capitale per esplorare le regioni interne, alla ricerca delle antiche tribù indigene dei Tarahumara, presso le quali sperimenterà l’uso del peyote.
Artaud viene rimpatriato a novembre, in uno stato di salute mentale tanto incrinato che, invitato tenere una serie di lectiones a Bruxelles, viene allontanato dalla sede per l’eccessiva foga della sua esposizione.
La meta del secondo viaggio, nel 1937, è l’Irlanda: Artaud si lancia un pellegrinaggio che lo condurrà fino alle remote isole Aran dove, tra le altre cose, ritrova interesse per dottrina cristiano-cattolica. La cronologia di questa spedizione è ancora più misteriosa della precedente: per motivi non meglio precisati il nostro viene arrestato dalle autorità locali, tenuto in custodia per vari giorni e rimpatriato a forza sulla nave Washington, a bordo della quale ha uno scontro con l’equipaggio in seguito (pare) a un tentativo suicida.
Sbarcato in Francia, Artaud comincia la sua lunga e tormentata esperienza di internamenti: da Le Havre viene trasferito in uno stato di mutismo completo al manicomio di Sotteville (1937), poi a Sainte-Anne13 (1938) e, infine, a Ville-Evrard (1939): è solo nel terzo istituto che riprenderà ad esprimersi pienamente, firmando lettere ad amici fedeli, come i coniugi Breton, in cui denuncia gli abusi subiti tra le mura ospedaliere.
Nel 1943 il nostro viene ammesso nella clinica di Rodez, diretta dal dottor Gaston Ferdière. Noto per la sua umanità nel trattamento della malattia mentale, quest’ultimo è anche un convinto sostenitore della sismoterapia, al punto di sottoporre Artaud a un totale di 58 sedute di elettroshock; ciononostante, è qui che il nostro riprende la sua attività artistica, a partire dalle migliaia di pagine che costituiscono il corpus dei Cahiers de Rodez.
1.4. Il Secondo Teatro della Crudeltà14
Nel 1946 Artaud viene dimesso: può tornare a Parigi, frequentare amici e colleghi, visitare in completa libertà la clinica di Irvy, presso la quale resterà in cura fino alla morte, sopraggiunta il 4 marzo 1948.
Finalmente, il nostro torna a meditare sul Teatro della Crudeltà15 e su quell’ideale di performance non-rappresentativa in cui ritrovare l’armonia tra corpo e mente; tuttavia, si trova a revisionare le ricerche precedenti nel segno di un materialismo radicale, consolidato al termine degli anni di internamento con un violento rifiuto della dimensione metafisica.
«No, le cose non sono venute da uno spirito infinitesimale che partito dal nulla si è/ ispessito e raccolto fino all’essere. / Sono venute da un corpo esistente,che ha estratto […] dal nulla, / con il suo soffio, / corpi, oggetti e cose che ha foggiato con la sua mano. /Ed è questo il materialismo assoluto. / Il resto che va dall’alta metafisica all’alta mistica […] / non è altro che la puerilità sommaria di un cervello in composizione» (Artaud ,1947)
Negli scritti degli ultimi anni il bersaglio fondamentale di Artaud è dio: con questo nome, espresso rigorosamente in minuscola, il nostro non si riferisce soltanto al Creatore dei monoteismi abramatici.
Dio è, prima di tutto, potere: l’autorità di ogni sistema di governo monarchico, democratico o oligarchico susseguitosi nel corso della storia umana.
Con una folgorante anticipazione delle teorie di Foucault, questo dio-potere non si dà in modo manifesto, ma in modo larvato; non esprime la sua sovranità impartendo ordini, ma dirigendo le attività della cultura, forgiando i saperi della comunità, proliferando reticolarmente tra scuole e posti di lavoro, tra accademie e luoghi di intrattenimento, tra carceri e strutture mediche.
Dai Cahiers de Rodez:
«L’illusionista ha saputo dissimularsi in noi stessi, essere noi e pensare per noi. E noi non siamo altro che i suoi stessi portatori. […] Vivere significa risollevarsi in se stessi, ad ogni secondo, con accanimento, ed è questo sforzo che l’uomo attuale non vuole più fare. Egli preferisce che l’automa dei limbi diriga l’opera del proprio sé» (Artaud, 1945)
Fin qui, sembra che il dio-potere domini i membri della società insediandosi nella loro coscienza; ma il luogo di stabilimento del grande “illusionista” è, prima ancora della mente, il corpo umano e soprattutto i suoi organi.
Nella nostra biologia, gli organi sono ovviamente la piattaforma del bisogno: inchiodano l’individuo alla necessità di respirare, di dormire e riprodursi, di mangiare, bere e digerire.
Gli organi devono essere riempiti da una materia, sia l’ossigeno o il nutrimento, per svolgere le loro funzioni: dunque, benché interni, sono tesi all’esterno; benché chiusi dentro di noi, sono aperti al di fuori; benché riparati, si rivolgono al mondo che ci circonda, esponendosi ad intromissioni di ogni genere – così il dio-potere ha modo di incanalare a piacimento gli istinti primari della persona e controllare ogni aspetto della sua esistenza16.
Contro tale corpo di organi, Artaud invoca un ideale corpo di sangue e ossa libero, autonomo e testardamente restio alle influenze esterne.
In una lettera a Pierre Loeb del 1947, il regista francese parla di un tempo mitico in cui tutti gli esseri umani possedevano questa seconda anatomia: un corpo immortale, privo di viscere e delle malattie ad esse relative; un corpo «glorioso» (Artioli, 1978), la cui energia non era dispersa nella routine della fisiologia, ma investita nel trasporto dell’arte e della danza.
Questo stato adamitico viene meno agli albori la civiltà indoeuropea, epoca in cui si instaurano le prime forme di governo strutturate.
A partire da allora, i corpi originari vengono cambiati in corpi artificiali stipati di organi che, come visto, imprigionano la vita nel sistema del bisogno, degli automatismi, dei rapporti di causa ed effetto, trasformando gli uomini in macchine anabolico-cataboliche manovrabili dall’alto.
Artaud, nella paranoia maturata nei confronti dell’autorità medica , intende questa sostituzione come un vero e proprio intervento chirurgico a cui gli esseri umani vengono sottoposti alla nascita, non appena emersi dal ventre materno17.
«È da 4000 anni che l’uomo ha una anatomia che ha cessato di corrispondere alla sua natura. L’anatomia in cui siamo infagottati è un’anatomia creata da asini patentati , medici e scienziati che non hanno mai potuto capire un corpo semplice e che avevano bisogno per vivere di un ritrovarsi in un corpo che gli rispondesse e che essi comprendessero. Essi si sono impossessati del corpo umano e l’hanno rifatto seguendo i principi di una logica, chiara e sana, punto per punto, organo per organo, analitica a modo loro.
– Ma è una storia che non sta in piedi, signor Artaud, andiamo! – Voi delirate. Vorrei proprio sapere come dei medici e degli scienziati avrebbero potuto procedere per rifare il corpo umano?
[…] Il fatto è che ho appunto come un’idea di avervi assistito e di esserci stato […] Ho come il ricordo di una specie di ignobile operazione chirurgica in cui era proprio il corpo mio, di Antonin Artaud, e non quello di un altro, che si accartocciava e si rivoltava sul ceppo» (Artaud, 1947)
Come liberarsi, dunque, da un «funzionamento sillogistico» (Ibidem) che è stato innestato nei meandri più profondi della carne?
Ebbene, secondo Artaud, è necessario mettere a tacere gli organi, recidere la loro centralità, eliminare tutte le attività quotidiane in cui essi hanno un ruolo. Si tratta di imporre a se stessi una rigida disciplina di rinuncia, a partire dal digiuno e dalla totale astinenza erotico-sessuale.
«Bisogna essere casti per sapere non mangiare/ aprire la bocca, significa offrirsi ai miasmi / allora niente bocca! /Niente bocca / niente lingua / niente denti / niente laringe /niente esofago / niente stomaco /niente ventre /niente ano / io ricostruirò l’uomo che sono» (Artaud, 1948)
L’esito di questo cammino ascetico è magistralmente espresso nel testo della trasmissione radiofonica Per farla finita col giudizio di dio, programmata per il 2 febbraio del 1948 e mai andata in onda per ragioni di censura18:
«L’uomo è malato perché è mal costruito. Bisogna decidersi a metterlo a nudo per grattargli via questa piattola che lo rode mortalmente / dio, / e con dio / i suoi organi. / Legatemi pure se volete, / ma non c’è niente di più inutile di un organo. / Quando gli avrete fatto un corpo senza organi, / allora l’avrete liberato da tutti gli automatismi / e restituito alla sua vera libertà. / Allora gli reinsegnerete a danzare alla rovescia / come nel delirio dei balli musette / e questo rovescio sarà il suo vero diritto» (Artaud, 1948)
Una volta fabbricatosi questo Corpo senza Organi (CsO, nella siglatura di Deleuze e Guattari) l’individuo avrà espulso da se stesso ogni manifestazione di dio – si sarà liberato, insomma, da tutti i condizionamenti della società, della cultura e del potere, appropriandosi della sua vita in maniera totale19.
Il contesto in cui compiere questo percorso di rinuncia e ricostituzione è, ovviamente, il teatro: se negli anni ’30 la scena era il luogo in cui ritrovare armonia tra corpo e mente, negli anni ’40 è il luogo in cui ritrovare l’autonomia del corpo considerato più importante; se prima il palco era la sede di un calvario necessario alla purificazione, ora è descritto come un crogiolo, un patibolo, il tavolo di una sala operatoria su cui assemblare nuove anatomie20.
Esaminiamo tutto ciò in termini tecnici, ribadendo come i discorsi teatrali di Artaud, apparentemente astratti, trovino sempre riscontro concreto nel mestiere dell’attore: di fatto, fin dai tempi dell’internamento, il nostro torna a concentrarsi sulla questione del souffle, ampliando quanto esposto in Un atlelismo affettivo.
Varie testimonianze vedono Artaud svolgere, già a Ville-Evrard, lunghe sessioni di respiri nasali e orali, seguiti da grida e canti, accompagnate da articolate piroette sul posto. Questi esercizi proseguono fuori dalle mura manicomiali e fondano un modo di espressività vocale che Artaud applicherà personalmente nelle apparizioni pubbliche21 degli ultimi anni e che ruota, come sottolineato da Camille Dumoulié22, intorno a tre capisaldi.
Ritornello: la ripetizione ossessiva di una parola, di una frase o di interi periodi con la stessa intonazione.
Percussione: un uso martellante della lingua che insiste sulle consonanti, sospendendo l’emissione vocale in prossimità di esse per poi rilanciarla a maggiore velocità23.
Glossolalia: la divisione dei vocaboli in sillabe, o l’accostamento veloce e sincopato di sillabe inventate24.
Scopo comune di questi espedienti sembra essere, mediante la voce, l’educazione dell’attore al ritmo. A ben vedere, è qui che la crociata del CsO trova il suo compimento: per rifare il corpo bisogna, in ultima analisi, liberarlo dai ritmi degli organi, dai cicli degli apparati e dalle cadenze orarie-giornaliere del metabolismo – in generale, da tutte le scansioni del tempo quotidiano che sono comandate o influenzabili dall’esterno; e l’attore, attraverso il lavoro respiratorio-fonatorio appena considerato, dona alla propria biologia dei ritmi nuovi, personali e indipendenti, di egli cui è il solo padrone; setta la propria esistenza un metronomo che, finalmente, non appartiene a niente e nessun altro.
Suona allora profetica una chiosa precedente, con cui suggelliamo questa prima sezione:
«Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre cadere sulle nostre teste. Insegnarci questo è il primo scopo del teatro» (Artaud, 1938)
1.5. L’eredità artaudiana
La ricerca del Teatro della Crudeltà, che ha il suo culmine nella formulazione del CsO e della tecnica del souffle, è stata al centro di molti fraintendimenti: i primi studi su Artaud hanno privilegiato in modo eccessivo il tema della malattia mentale, inquadrandovi ogni elemento della sua biografia, distorcendo l’insieme dei suoi contributi e producendo due fondamentali lacune nella cultura teatrale del dopoguerra.
1) La prima consiste in una superficialità storiografica: almeno per i venticinque anni successivi alla morte di Artaud, la posterità ha trascurato le ricerche degli anni ’40 per concentrarsi solo su quelle degli anni ’3025.
2) La seconda lacuna consiste in una superficialità esegetica: la maggior parte degli autoproclamati continuatori di Artaud si rifanno al nostro in termini teorici, seguendo i suoi scritti come riferimento filosofico e ignorando la realtà pratica che abbiamo visto implementare ogni tesi.
Questa parzialità è evidente negli esponenti del teatro degli anni ’60-’70 che hanno eletto il regista francese a paladino e nume tutelare – solo un paio di nomi a titolo di esempio: per i membri del Living Theatre Artaud è un’ispirazione politica, nella creazione di performance partecipative; per Jerzy Grotowski è un’ ispirazione spirituale, nello studio scenico del Vero Sé; per Peter Brook , ancora, un’ispirazione antropologica nell’analisi delle proprietà dell’incontro teatrale; eppure, nessuno degli artisti citati ha rivolto reale interesse alla disciplina dell’attore formulata dal nostro26.
Tutt’oggi si ignora quanto il lavoro artaudiano sul respiro e la voce costituisca un metodo27 di valore pari a quello stanisvlaskijano o mejercholdiano, benché l’autore non abbia avuto modo di stenderlo, di elaborarlo in maniera estesa, di articolarlo in un sistema di regole, esercizi e via dicendo.
Dunque, parliamo di un metodo rimasto in potenza; un metodo che pochi hanno tentato di portare in atto; un metodo confinato nella virtualità degli scritti, con il rischio di non risolversi mai in una vera e propria eredità.
A nostro avviso, una delle personalità più importanti del teatro contemporaneo ha costituito l’eccezione a tutto questo.
1.6. Carmelo Bene: teatro e cinema
Carmelo Bene (1937 – 2002) comincia a parlare regolarmente di Artaud a partire dagli anni ’70, dopo aver incontrato il plauso dell’intellighentia europea del tempo; ma è assai probabile che, da enfant terrible della scena romana, pioniere delle avanguardie teatrali, egli conoscesse questo nome fin dai primissimi anni ’6028.
Il debutto di Bene risale al 1 ottobre 1959, in un allestimento del Caligola di Albert Camus al Teatro delle Arti che colpisce, con il suo ritmo forsennato, firme importanti del giornalismo nostrano quali Flaiano e Arbasino.
Al netto di molte trasferte, Bene mantiene la base della sua attività entro i confini della capitale dove, tra il 1962 e il 1968, fonderà una serie di realtà laboratoriali29. Gli spettacoli di questo periodo contengono una polemica, insolita nel panorama italiano, contro l’egemonia del testo sulle possibilità della messa in scena: Bene si confronta fin da subito con i classici della cultura moderna30, allestendoli integralmente, mischiandoli ad altre opere, in ogni caso parodiandone i valori attraverso performance grottesche ed eretiche31. Dunque il tumulto contro il testo, pur costituendo un primo ponte con la poetica di Artaud, rimane ancorato al gusto dello scandalo: provocazioni geniali quanto fini a se stesse che, insieme a posizioni anarchiche successivamente rimosse, testimoniano il bisogno di rivolta di un artista alla scoperta della propria personalità estetica.
Dopo aver partecipato alle riprese di Edipo re (1967) di Pier Paolo Pasolini nel ruolo di Creonte, Bene avvia quella che definirà la «parentesi eroica» (Bene, 1998) della sua carriera scrivendo, dirigendo e interpretando cinque lungometraggi indipendenti: a partire dal capolavoro Nostra Signora dei Turchi (1968), Premio Speciale della Giuria a Venezia32, passando per Capricci (1969), presentato a Cannes, e Don Giovanni (1970), Salomè (1972), Un Amleto di meno (1973).
Il cinema sarà, curiosamente, la via di una riflessione più matura sul teatro rispetto al nichilismo degli esordi romani.
Senza nulla togliere al lavoro visuale33, il traguardo cruciale dell’attività filmica di Bene riguarda il sonoro, e in particolare, l’uso del voice-over: tutte le pellicole prevedono dei monologhi che il nostro registra a parte e poi monta sul girato, creando commenti poetici di grande suggestione34. Tali inserti costituiscono, a tutti gli effetti, la prima scoperta della voce amplificata, della microfonia e della manipolazione elettronica del suono che Bene , dopo il fallimento della sua casa di produzione, non esiterà a portare sulle scene35.
1.7. La phonè e la musica
Fino a questo momento, la voce non era un elemento così centrale nella poetica del nostro.
Negli anni ’60 il timbro tenorile, incredibilmente esteso nei registri inferiori e superiori, era già uno strumento prezioso, ma rimaneva asservito alla foga iconoclasta del periodo: dai pochi documenti disponibili, risulta una voce esagerata e farsesca, al limite della clownerie.
Negli anni ’70, dopo il passaggio all’audiovisivo, Bene padroneggia meglio le sue risorse espressive: la voce non lavora più per esasperazione, ma per contrasti ben dosati, alternando sapientemente acuto e grave, piano e forte, veloce e lento – si pensi alle struggenti letture majakovskijane di Bene! Quattro modi diversi di morire in versi(1974)36.
Al 1976 risale l’ingresso dell’amplificazione sulle tavole del palcoscenico, con un Romeo e Giulietta che consacrerà Bene su scala continentale nel corso di una leggendaria tournèe francese.
Fin da subito, l’amplificazione non si configura come una semplice protesi della battuta teatrale; è più simile a una sessione al microscopio che, ingrandendo la voce, consente di osservarla da vicino – nella sua grana, nei particolari dei suoi toni, nelle frequenze infinitesimali del suo spettro37. In questa dimensione, essa chiede di essere ascoltata per come è, e non per quello che dice; come suono, e non come piattaforma di comunicazione; come phonè, e non come linguaggio.
Il Romeo e Giulietta è seguito da altri adattamenti shakespeariani, quali Riccardo III (1977) e Otello (1979), ma è nel Manfred dello stesso anno che possiamo dire compiuta la “rivoluzione copernicana” della scena contemporanea: in questo spettacolo-concerto, il poema di Byron viene ridotto in forma di oratorio, per la voci soliste di Bene e Lydia Mancinelli e l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
D’ora in avanti, l’artista salentino concentra definitivamente il suo timbro nell’area del naso, stabilendo una “fascia” che gli consente di modulare l’espressione con maggior precisione, in modo consono all’incredibile sensibilità dei microfoni.
Così regolata, la voce è matura per fondersi con la musica: nel Manfred le parole valgono come note, le frasi come temi melodici e i silenzi come pause tra le battute di un pentagramma; la performance di Bene è un tripudio di scale ascendenti e discendenti che commuove le platee internazionali e trova il massimo fulgore nell’Invocazione ad Astarte finale:
«Parlami! Ti ho invocato nelle notti /serene, ho spaventato gli uccelli / addormentati tra i silenziosi rami, /per chiamare te… / Ho risvegliato i lupi montani / ho appreso alla caverne ha riecheggiare / invano il nome tuo adorato; tutto / rispose, tranne la tua voce. Parlami! / Ho errato sulla terra e non ho mai trovato a te l’uguale. Parlami! / T’ho cercato tra le stelle a vanire, / ho contemplato il cielo inutilmente / senza trovarti mai. Parlami! Guarda, / i demoni a me attorno hanno pietà / di me che non li temo ed ho pietà / per te soltanto. Parlami! Sdegnata, / se vuoi, ma parlami! … Dimmi… / Non so che cosa, ma che io ti senta / una volta ancora…» (https://www.youtube.com/watch?v=SiBL8NhCWeI)
La recitazione del nostro bilancia parlato e cantato in maniera magistrale, senza privilegiare l’uno o l’altro come, ad esempio, lo Sprechgesang novecentesco: rimane in equilibrio tra i due estremi, sulla faglia che li separa, creando un codice espressivo sostanzialmente inedito nella storia del teatro.
In questo nuovo canone, la voce cessa di rappresentare: al pari di uno “strumento a fiato” non può e non vuole trasmettere stati psicologici definiti; illustrare un testo o un personaggio; divulgare un senso, un messaggio, un insieme di valori.
Abolita qualsiasi possibilità di significato, l’attore si perde nel vortice dei significanti, si offre dionisiacamente alla musica e, in tale abbandono, dimentica la sua identità, il suo Io e il suo ruolo nel mondo.38
1.8. La phonè e il corpo
La ricerca sulla phonè prosegue nella direzione “concertistica” inaugurata dal Manfred con i successivi Hyperion (1980), Egmont (1983) e Adelchi (1984).
Negli stessi anni si afferma una seconda direzione, che definirei “rumoristica”, destinata a prevalere : già con il Macbeth (1983), con Lorenzaccio (1986) e il progetto di studio su Pentesilea (1989), Bene cessa di dialogare con orchestre e cori lirici dal vivo: ove presente la colonna sonora è registrata e affiancata da interventi dissonanti39; inoltre, la fascia vocale va rarefacendosi, stanziandosi nell’area bassa del registro e abbandonando il virtuosismo musicale per acquisire una sorta di monotonia40.
In questo processo di evanescenza, che durerà fino alla morte di Bene (sopraggiunta per arresto cardiaco il 16 marzo 2002) la recitazione si concentra sul fenomeno dell’emissione colto in tutta la sua materialità: ad ogni parola, il nostro esibisce il fruscìo della lingua, delle labbra e della volta palatale; mostra l’aria che fa vibrare le membrane della gola e i tessuti del viso; mette a nudo l’origine fisica della verbalità, riportandola alla sua natura di soffio, di fiato, di respiro che si trasforma in suono.
Così, la voce cessa di scagliarsi all’infuori, nell’impeto operistico, per torcersi all’indentro ed esplorare la cavità da cui sorge. Ora più che mai, essa non manifesta un’identità; esplorando i meandri della carne e delle ossa, porta in scena il corpo, celebra la sua centralità, gli restituisce, insomma, quell’autonomia radicale invocata dall’Artaud degli anni ’40.
Possiamo sostenere che Bene si muova nella stessa direzione del regista francese, costruendo, attraverso il lavoro respiratorio-fonatorio, un CsO libero dalle ingerenze della società, della cultura e del potere – insomma, da dio.
Per confermare questa tesi, prendiamo ad esempio la lettura dei Canti orfici di Dino Campana (1996), notando quanto precisamente essa rifletta il metodo vocale di Artaud delineato nei paragrafi precedenti.
Ritornello: Bene ripete uno schema intonativo semplice, elementare e spoglio simile a una cantilena.
Lo notiamo nel crescendo di Chimera:
«Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti / e l’immobilità dei firmamenti / e i gonfi rivi che vanno piangenti / e l’ombre del lavoro umano curva là sui poggi algenti / e ancora per teneri cieli lontane ombre correnti / e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera» (https://www.youtube.com/watch?v=6dvlyfgLDZs)
Percussione: Al pari di Artaud, Bene si sofferma sulle consonanti, sospendendo l’emissione vocale in prossimità di esse per poi rilanciarla a maggiore velocità.
Lo notiamo nei versi centrali, allitteranti in “t”, di Una troia dagli occhi ferrigni:
«Prostituta! / Chi ti chiamò alla vita? Donde vieni? / Dagli acri porti tirreni, / Dalle fiere cantanti di Toscana? / O nelle sabbie ardenti voltolata?» (https://www.youtube.com/watch?v=BdgMs2O914c)
Glossolalia: Bene attua sistematicamente la divisone in sillabe, studiando a fondo la tramatura acustica della parola e attentando alla sua unità linguistica41.
Lo notiamo nella scansione del termine “rose” al congedo di In un momento:
«Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi / Le rose che non erano le nostre rose / Le mie rose le sue rose / P. S. E così dimenticammo le rose»42 (https://www.youtube.com/watch?v=Qc9kSZH26qg)
Siamo così giunti allo snodo centrale.
Diversamente da altri esponenti del teatro novecentesco, Bene porta avanti la poetica del Teatro della Crudeltà perché si rifà ad Artaud non solo in termini teorici, ma anche pratici; non solo in termini filosofici, ma anche tecnici; non solo in termini ideali, ma anche pedagogici.
E se in una prospettiva accademica la parola “eredità” suona monolitica, possiamo parlare di una “staffetta”43 che copre la seconda metà del secolo scorso: consapevolmente o meno, Bene si configura come il migliore allievo del regista francese, capace di mettere in atto un metodo rimasto per decenni in mera potenza.
1.9. Congedo
In chiusura, consideriamo le differenze sostanziali tra il CsO di Artaud e quello di Carmelo Bene.
Per il primo, la conquista dell’autonomia del corpo è in ultima analisi sinonimo di presenza: la disciplina vocale libera l’individuo dai condizionamenti quotidiani, portando al recupero di un’identità originaria che era stata sottratta.
Viceversa, per il secondo, la conquista dell’autonomia corpo è in ultima analisi sinonimo di assenza: la disciplina vocale non conduce a un restauro ma, semplicemente, alla soppressione dell’identità.
A tal proposito, Bene riflette la lettura artaudiana di Gilles Deleuze e Felix Guattari44, contenuta nei due volumi che compongono Capitalismo e schizofrenia e indissolubilmente legata alla polemica contro la psicanalisi.
Nell’Anti-Edipo (1972), gli studiosi definiscono CsO un corpo “liscio”, non ancora “striato” dalle strutture della società, in cui fluisce liberamente il desiderio: desiderio come motore energetico dell’inconscio che non si rivolge a questo o quell’oggetto, ma alla totalità stessa del mondo, muovendosi su ogni superficie, ramificandosi in tutti i sensi, producendo relazioni, nodi e concatenamenti tra i fenomeni circostanti che esulano i nessi della logica.
A questo stadio, l’essere umano esiste in quanto macchina desiderante, ed è privo di un’identità vera e propria: ciò che lo designa come individuo e lo distingue dagli altri non è una serie di norme stabilite a livello comunitario, ma la gamma di sensazioni che esperisce ogni momento, nel suo conato di scoperta del reale.
A dire di Deleuze e Guattari, in epoca moderna il magistero freudiano avrebbe limitato l’area di espansione del desiderio, imponendogli un oggetto fondamentale, ossia l’amore per la figura materna, ostacolato da quella paterna nei primi anni di vita.
In un sol colpo, l’inconscio si contrae da paesaggio amorfo a ritratto familiaristico dai contorni ben definiti:
«La grande scoperta della psicanalisi è stata quella della produzione desiderante […]. Con Edipo, questa scoperta è stata preso occultata da un nuovo idealismo: all’inconscio come fabbrica si è sostituito un teatro antico; alle unità di produzione dell’inconscio si è sostituita la rappresentazione; all’inconscio produttivo si è sostituito un inconscio che non poteva più che esprimersi (il mito, la tragedia, il sogno…)» (Deleuze e Guattari, 1972)
Arriviamo subito al nucleo della polemica: il fallimento della conquista genitoriale trasforma il desiderio in mancanza, stabilisce una perdita originaria che gli impedisce di fiorire pienamente, lasciandolo alle pastoie dei conflitti psicologici, emotivi e morali; così, la società capitalistica impiega il complesso edipico come dispositivo di repressione volto a contenere la mole delle nostre pulsioni entro binari chiari e precisi; stabilita questa base, può procedere al controllo del CsO, triangolando i bisogni primari dell’uomo secondo le modalità studiate da Artaud45.
Contro un simile impianto, Deleuze e Guattari rivolgono particolare attenzione alla condizione dello schizofrenico: questi, non riconoscendo patologicamente il limite che separa se stesso dall’altro, è impermeabile ai ruoli parentali, al rimando triadico, allo schema madre-padre-figlio in cui la cultura occidentale tenta di imbrigliare il desiderio46. Affascinati dalla natura anedipica della psicosi, in Mille piani (1980) i due autori formulano il manifesto di una schizoanalisi applicabile ad ogni aspetto della vita quotidiana: sostituire un modo di pensiero arborescente, lineare e costante (proprio della teoria freudiana) con un modo di pensiero rizomatico, complesso e variabile (proprio del vissuto delirante), in grado di riconsegnare l’essere umano all’andamento centrifugo del desiderio e a quel campo di infinite possibilità esperienziali che è il CsO.
Semplificando ai fini del nostro studio possiamo dire che, mentre nell’ultimo Artaud l’influenza del potere si traduce in una politica del corpo, in Deleuze e Guattari riguarda anche la politica della mente; dunque, secondo gli autori di Capitalismo e Schizofrenia, la libertà della persona passa in maniera imprescindibile per l’emancipazione dall’identità, dall’Io e dai programmi di soggettivazione che pervadono le società odierne.
È questa importante integrazione che Bene assume e porta all’estremo sulla scena: l’artista salentino considera il CsO come un non-essere in cui tumulare tutte le determinazioni della coscienza individuale e collettiva – un corpo che si trincera nel suo oblio, che si sottrae a qualsiasi progetto e a qualsiasi scopo, che si rifiuta di scendere a compromessi con la civiltà, rimanendo eternamente latente, al di fuori della Storia.
C’è da domandarsi come una simile ricerca possa proseguire sulle scene odierne: sembrerà audace, ma è possibile che incontri il teatro cosiddetto tradizionale fatto di storie, personaggi e conflitti.
Oggi, il mondo dello spettacolo va superando a fatica la tara della cultura tardonovecentesca, fondata sullo smantellamento delle strutture filosofiche ed estetiche; oscilla consapevolmente tra l’ impossibilità di rappresentare e il desiderio di tornare a farlo; tra l’intolleranza per le narrazioni e il bisogno di raccontare; tra l’incapacità di comprendere la realtà e la necessità di testimoniare le istanze umane della nostra epoca.
Allora il dialogo apparentemente ossimorico tra un teatro di testo e un teatro di pura performance, come quello beniano (o artaudiano), potrebbe essere la perfetta sintesi dei contrasti che animano la sensibilità scenica del nuovo millennio.
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1 Cfr. U. Artioli, Le origini della regia teatrale (in R. Alonge e G. Davico Bonino, Storia del teatro moderno e contramporaneo, vol. 2, Einaudi, Torino 2000)
2 Nel 1921, con Les Scrupules de Sganarelle di Henri de Régnier, per la regia di Aurélien Lugné-Poe.
Dopo aver lavorato con maestri quali Charles Dullin e Georges Pitoëff, Artaud termina la sua carriera di interprete teatrale nel 1924, con R.U.R. di Karel Čapek, per la regia di Theodore Komisarjevsky;
3 Nel 1923, con Fait divers di Claude Autant-Lara.
Artaud parteciperà in ruoli di comprimario a film muti e parlati fino al 1935, con Koenigsmark di Maurice Tourneur.
4 Negli anni di attività del Teatro Jarry, Artaud riesce a portare compiutamente in scena solo quattro spettacoli: il suo Le ventre brûlée ou la mère folle (1927), Le partage de Midi di Claudel (1928) Le Songe di Strindberg (1928) e Victor ou les Enfants au Pouvoir di Vitrac (1928)
5 Molti riformisti, come nota Nicola Savarese, sono ispirati dal confronto con l’arte performativa orientale: impossibile separare la ricerca di Copeau dalla scoperta del Teatro Nō, la ricerca di Mejerchol’d dal confronto con il Teatro Kabuki, la ricercadi Craig dall’interesse per il Teatro Kathakali – ma ricordiamo anche l'incontro di Bertolt Brecht con l'attore cinese Mei Lafang, determinante alla genesi della teoria dello straniamento. Nel caso di Artaud, la cultura asiatica non viene positivisticamente riportata ai canoni della cultura eruopea, ma colta nella sua radicale alterità per cortocircuitare le abitudini del pensiero nostrano: insomma, il fascino per l’esotico non consiste «nel rendere comprensibile […] ciò che è diverso ma, al contrario, nel rendere estraneo ciò che è familiare» (Cfr. N. Savarese, Laterza, Roma-Bari, 2002).
6 Benché al riguardo si riscontrino aperture precedenti: nell’opsucolo Il Teatro Alfred Jarry e l’ostilità pubblica del 1930, ad esempio, Artaud scrive: «Il Teatro Alfred Jarry, consapevole della sconfitta del teatro di fronte allo sviluppo dilagante della tecnica, si propone con mezzi specificamente teatrali di contribuire alla distruzione del teatro quale attualmente esiste in Francia».
7 Ad essere precisi il termine “Crudeltà” va inteso, in senso nietzschiano-schopeuariano, come : 1) Forza vitale cieca, feroce e irrefrenabile sopita nella natura di ogni essere umano; 2) Disciplina rigorosa nell’applicare quotidianamente tale appetito a stessi e alla propria arte.
8 Riassumiamo le principali coordinate tecnico-artistiche del Teatro della Crudeltà così come espresse da Artaud.
Il luogo scenico abolisce la classica divisione tra palco e platea «sostituendole con una sorta di luogo unico. […] La sala sarà cirondata da quattro pareti assolutamente disadorne, e il pubblico sarà seduto in mezzo su poltrone girevoli per poter seguire lo spettacolo che si svolgerà tutt’intorno a lui. […] In alto, come in certi quadri di Primitivi, correranno intorno alla sala delle gallerie, le quali permetteranno […] all’azione di svilupparsi su tutti i piani».
La musica deve offrire performance nuove, originali e intense a costo di creare ex novo strumenti che, «formati con fusioni speciali o nuove leghe di metalli, possano raggiungere nell’ottava un nuovo diapason e produrre suoni o rumori insopportabili e lancinanti».
Le luci non hanno un fine ornamentale, ma partecipano alla vertigine della performance diffondendosi «a onde, a cascate, o come una scarica di frecce infuocate» (Artaud, 1938).
La scenografia non prevede arredamento, ma solo elementi astratti sparsi per l’ambiente – sculture, manichini e fantocci mastodontici che collaborino all’inquietudine della platea.
I soli costumi ammessi sono maschere e abiti sacerdotali in grado di conferire un’atmosfera rituale ad ogni allestimento.
9Artaud dimostra, fin dagli anni ’20, un grande interesse per i saperi ermetici, mistici ed esoterici: in particolare, l’idea gnostica di una scissione metafisica tra spirito e materia trova eco nella scissione culturale tra mente e corpo che il Teatro della Crudeltà promette di sanare, quanto nella scissione personale di Artaud, tormentato da crisi schizofreniche in grado di distruggere l’unità del suo organismo.
10 «L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un atletismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. […] Là dove l’atleta s’appoggia per correre, l’attore si appoggia per urlare un spasmodica imprecazione, ma la sua corsa è proiettata verso l’interno» (Artaud, 1938).
11 Assunto che Artaud condivide con altri riformisti otto-novecenteschi: basti pensare al metodo delle Azioni Fisiche del secondo Stanislavskij (mutuato dall’ex allievo Mejerchol’d), per cui il dato emotivo viene destato nel corpo dell’attore attivando un “tempo-ritmo” corrispondente.
12 Dal teatro elisabettiano a quello romantico passando per romanzi, testi sacri e melodrammi.
13 Qui Artaud viene vistato da un giovanissimo Jacques Lacan che, secondo la testimonianza di Roger Blin, liquida il caso in modo lapidario: «E’ fissato, vivrà fino a ottant’anni, non scriverà più una riga, è fissato». In effetti la previsione del grande psicanalista si dimostrerà infondata tanto sulla longevità, quanto sulla produzione artistica del nostro: come sottolinea De Marinis, dei 26 volumi che attualmente compongono le Opere complete di Artaud, solo 8 sono stati scritti prima del periodo degli internamenti.
14 Espressione coniata da Marco De Marinis, a cui va il merito di aver inaugurato il corso di studi sull’ultima poetica teatrale di Artaud (cfr. M. De Marinis, La danza alla rovescia di Artaud. Il Secondo Teatro della Crudeltà (1945-1948), Bulzoni, Roma 1999)
15 Dopo tanto tempo, il primo riferimento di Artaud a Il Teatro e il suo doppio è contenuto in una lettera a Jean Paulhan del 17 febbraio 1943, poco dopo il trasferimento a Rodez.
16 In questo scenario biopolitico, i genitali sono gli organi che maggiormente espongono l’individuo al mondo esterno, muovendolo alla ricerca dell’altro attraverso il piacere, il desiderio e l’istinto di riprodursi: così, si configurano come l’apparato più sensibile alle influenze del dio-potere.
17 A partire da ciò, Artaud nostro parla di una serie di affattura menti (envoûtements) scagliati quotidianamente dalle istituzioni sui membri della società: autentici sortilegi che rendono l’individuo docile, impedendogli di rivoltarsi contro la pseudo-autonomia che gli è stata affibbiata.
18 L’opera, commissionata da Fernand Poeuy, a capo della parte della Radio Francese, è un collage di brani composti nell’autunno del 1947: eseguiti da Artaud insieme ad altri interpreti (Maria Casarès, Roger Blin e Paule Thévenin), i testi vengono registrati nel mese novembre e montati con l’aggiunta effetti musicali-rumoristici entro la metà di gennaio. Alla vigilia della messa in onda, il 1 febbraio del 1948, il direttore generale della stazione, William Porché, blocca il progetto. A nulla serviranno le due audizioni private fissate in data in 5 e 23 febbraio per riabilitarlo: il testo di Per farla finita con il giudizio di dio sarà pubblicato dopo la morte di Artaud senza passare via etere.
Un risarcimento giungerà solo cinquant’anni dopo quando, la sera del 24 ottobre 1999, Radio France trasmette la registrazione originale insieme a un dossier di lettere e articoli giornalistici relativi alla controversia.
19 A questo punto, la libertà della persona dai vincoli esterni è tale da cancellare anche i legami di sangue e giungere a un paradosso di autogenerazione: «Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, mia / madre / e me» (Artaud, 1947)
20 De Marinis nota vari elementi di continuità tra Primo e Secondo Teatro della Crudeltà, su tutti il ruolo terapeutico, curativo ed “esorcistico” dell’arte scenica.
Allo stesso tempo, gli elementi di discontinuità sono lampanti. In una brillante sintesi, Franco Ruffini sostiene che negli anni ’30 Artaud si rivolga all’«uomo in quanto attore» e negli anni ’40 all’«attore in quanto uomo» (Ruffini, 2014): nell’ultima parte della sua vita, il regista francese evita l’allestimento di spettacoli, non considerando il teatro come fine, ma come strumento di studio dell’essere umano nella contemporaneità; in questo, anticipa gli esponenti della Seconda Riforma della Regia, più interessati all’aspetto del processo che a quello del prodotto – fino al caso estremo di Grotowski che, a partire dagli anni’70, volterà definitivamente le spalle alla messa in scena. (Cfr. M. Schino, Alchimisti della scena. Teatri laboratorio del Novecento europeo, Laterza, Roma-Bari 2009)
21 Possiamo citare almeno due eventi in cui Artaud, dimesso dalla clinica di Rodez, ha modo di recitare i suoi testi, manifestando una presenza scenica, un istrionismo, un’oratoria tesa e violenta che colpiscono profondamente gli astanti: una conferenza al Teatro del Vieux- Colombier (gennaio 1946) e una lettura alla Galerie Pierre (luglio 1947), nel corso di una mostra di suoi quadri e disegni.
22 Cfr. C. Dumoulié, Antonin Artaud, Costa & Nolan, Genova 1998 (1996)
23 A questo espediente Artaud dà il nome di xilofenia: il neologismo, traducibile come “apparizione del legno”, rimanda a un esercizio fisico praticato dal nostro nelle case di cura, consistente nel colpire ripetutamente un ceppo con la lama di un coltello.
24 Citiamo anche l’attività di scrittura vocale riportata da Paule Thévenin, amica nonché redattrice postuma delle opere del nostro: Artaud è solito scrivere parlando, per applicare ai testi la vitalità del flusso orale e liberarli dalla mortalità dello stile letterario e della retorica. Questa ricerca di estemporaneità non riguarda solo la fase creativa, ma anche quella editoriale, con scelte particolarissime nella gestione della pagina, dei paragrafi e degli a capo.
Un simile modo compositivo riguarda anche le arti grafiche: tra le mura del manicomio, Artaud si dedica intensamente al disegno, ispirandosi con mormorii e salmodiamenti. La produzione figurativa del nostro, su cui non abbiamo avuto modo di soffermarci, influenza quella teatrale e ne è influenzata fin dai tempi giovanili – tanto che Ruffini considera la scoperta de Le figlie di Lot di Luca di Leida fondamentale alla genesi del Teatro della Crudeltà quanto l’esperienza della danza balinese. (Cfr. F. Ruffini, Teatro e boxe. L’“atleta del cuore” sulla scena del Novecento, Il Mulino, Bologna 1994).
I disegni degli ultimi anni, in particolare, costituiscono una preziosa integrazione alla ricerca sul CsO: come espresso in Van Gogh il suicidato della società (1947), al rifiuto del corpo perseguito sulla scena corrisponde un rifiuto dei canoni matematico-geometrici dell’anatomia perseguito sulla tela.
25 Basti pensare che il testo di Per farla finita con il giudizio di dio è stato incluso nelle Opere Complete del nostro
solamente nel 1974, con l’uscita del VIII volume.
26 Una sintesi dei malintesi che ruotano intorno alla figura di Artaud emerge dalle pagine di Per un teatro povero, dove Grotowski arriva a sostenere che il regista francese «non ha lasciato dietro di sé nessuna tecnica concreta, non ha indicato nessun metodo. Ci ha lasciato solo visioni e metafore […] Non era in grado di colmare il profondo abisso che si era stabilito fra l’area delle visioni (intuizioni) e lo stadio di lucidità cosciente, perché aveva rinnegato tutto quanto riporta a un ordine e non intraprendeva più alcuno sforzo per acquisire la precisione o la padronanza delle cose» (Grotowski, 1968).
27 D’altronde, vari attori degli anni ’40 si sono interessati alla recitazione di Artaud tanto da intraprendere veri e propri tirocini in sua compagnia – su tutti, ricordiamo Colette Thomas e Marthe Robert, che lo affiancheranno nella lettura alla Galerie Pierre già menzionata.
28 Anche grazie ai membri del Living Theatre che Bene, stando alla sua autobiografia, incontra nel 1963: «Ero all’“Arlecchino”, oggi “Flaiano”, a recitare un grandioso Edoardo II. Quelli del “Living”, di passaggio a Roma, si presentarono in massa. Da allora, ci frequentammo assiduamente. Loro venivano a vedere me, io ricambiavo. Abbiamo spesso abitato negli stessi spazi con gli attori di Julien, giocando a poker fino all’alba» (Bene e Dotto, 1998).
29 Parliamo del Teatro Laboratorio (1962-63), del Beat ’72 (1967) e del Teatro Carmelo Bene (1968). Gli ultimi due saranno gestiti insieme a Lydia Mancinelli, attrice , manager nonché compagna di Bene fino al 1981; gli altri interpreti sono prelevati dal calderone delle antiche compagnie di giro, come la D’Origlia-Palmi, patria dei guitti Manlio Nevastri, Luigi Mezzanottee Alfierio Vincenti, che collaborerà con Bene fino al 1974.
30 Su tutti Amleto e Pinocchio, che attraverseranno la teatrografia del nostro in maniera costante, con rispettivamente cinque e quattro edizioni sceniche.
31 L’esempio più noto riguarda l’happening Cristo’63 (1963) durante il quale, con la complicità di Bene, l’artista Alberto Greco orina sull’ambasciatore argentino seduto in prima fila scatenando il panico generale.
32 Ex aequo con Le Socrate di Robert Lapoujade (1968)
33 Bene porta all’estremo i parametri fotografici del cinema, con immagini sovra o sotto esposte, colori eccessivamente saturi e movimenti di camera al limite dell’isteria; il montaggio presenta stacchi frequentissimi (una media di 85 al minuto nel caso di Salomè) e non lineari che sovvertono la continuità dell’azione, mescolando passato, presente e futuro in unico blocco. Dunque Bene infrange l’unità spazio-temporale dell’inquadratura, concentrandosi sulla sua energia visiva e sonora a dispetto della capacità di rappresentare – un lavoro vicino a quello che Delezue, nei suoi volumi sul cinema, definirà Immagine Crsitallo. (Cfr. G. Deleuze, L'immagine tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989, cap. IV)
34 Tra gli altri, il celebre Ci sono cretini che hanno visto la Madonna… presente in Nostra Signora dei Turchi (https://www.youtube.com/watch?v=PueXMOiJ-sY)
35 Ma anche nella radiofonia, a partire dalle Interviste impossibili del ’73, e in televisione, a partire da Bene! Quattro modi diversi di morire in versi, lettura di Blok, Majakovskij, Esènin e Pasternak prodotta dalla Rai nel 1974 e trasmessa in due puntate nell’ottobre del 1977.
36 Specialmente in All’amato me stesso (https://www.youtube.com/watch?v=V2g9KPbjlmc).
37
Così Bene parla dell’amplificazione, attraverso un esempio che ricorrerà più volte negli scritti, nelle interviste e nei seminari della maturità: «Se – ancora un esempio – osserviamo a distanza un’immagine dipinta […] , non riusciamo comunque a dimetterci criticamente: a non (am) mirarla da soggetti pensanti, come se fosse inscritta dentro un boccascena. Se avviciniamo questa figurazione, rinunceremo via via alla sua visione totale, ai particolari periferici fino a un ravvicinatissimo dettaglio sfocato. Se addirittura il nostro naso ne sfiora la superficie, sarà come aver chiuso gli occhi del tutto su quella visione. Questo buio del tutto equivale al culmine dell’ingrandimento acustico. […] Recisa ogni mediazione, la dinamica energetica della voce unicamente brucia nel suo proprio interno (di chi dice e chi ascolta), disindividuata e inaudita, intestimoniabile» (Bene, 1995).
38 A questo interprete spossessato di sé Bene darà, tra anni ’70 e ’80, il nome di “Macchina Attoriale”.
39 Sempre più spesso, inoltre, gli attori e le attrici che affiancano Bene sul palco recitano in playback.
40 Lo scarto tra i due momenti della phonè risulta evidente nel confronto tra la Lectura Dantis bolognese del 1981, eseguita nel primo anniversario della strage, e la Lectura Dantis otrantina del 2001 , ultima apparizione di un Bene prostrato dalla malattia cardiovascolare: prendendo ad esempio il Canto XXXIII dell’Inferno constatiamo, nel primo caso, una vocalità assai variegata (https://www.youtube.com/watch?v=nbIkyBZvA8o); nel secondo caso, un andamento monocorde simile a una nenia (https://www.youtube.com/watch?v=YVPEmEhJ_3E&t=345s).
41 Dunque Bene lavora su sillabe reali e non, come Artaud, su sillabe inventate: tuttavia, dimostra una grande familiarità con il neologismo nei suoi scritti, in particolare nel poema ’L mal de’ fiori (2000), rapsodia di lingue e dialetti, miscuglio babelico di idiomi a cui viene riconosciuto, fin da subito, il merito di aver “scritto la voce”.
42 In effetti Carmelo Bene applica alla sua vasta produzione romanziera, poetica e saggistica la stessa scrittura vocale considerata in nota 24.
Come Artaud, il nostro tenta di infondere ai testi la vitalità del flusso orale: la sua lingua, che mescola italiano medievale, moderno e contemporaneo non è, dice Jean Paul Manganaro, «preparata in silenzio a tavolino, ma dettata dalle esigenze fisiche di chi poi la intona» (Manganaro, 1990).
Ancora, questa ricerca di estemporaneità non riguarda solo la fase creativa ma anche a quella editoriale: Elisabetta Sgarbi ricorda l’estremo interesse di Bene per l’impaginazione delle sue Opere (1995), in vista della pubblicazione con Bompiani: «Riuscì a violentare il carattere tipografico della collana, chiedendoci di salire di qualche corpo, [e di ] aumentare i margini. […]. Per lui la pagina doveva avere respiro, quindi fece crescere a dismisura questo volume» (Cfr. La voce che si spense, di M. Contini e M. Ventre, Italia, 2003).
Per finire, un’ultima analogia con Artaud riguarda proprio l’arte figurativa: nell’ultimo decennio di vita, come testimonia la compagna Luisa Viglietti, Bene si dedica saltuariamente alla pittura. Questa produzione, meritevole di uno studio approfondito, è ispirata all’estetica “sensoriale” di Francis Bacon assai cara al nostro; tuttavia, tanto l’interesse per la tematica religiosa, quanto l’uso violento della linea e del colore ricordano da vicino i disegni dell’ultimo Artaud.
43 Felice espressione usata da Giancarlo Dotto nella biografia scritta a quattro mani con Bene. (Cfr. C. Bene e G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2005, p. 311)
44 A partire dagli anni ’70-’80, Bene attinge a piene mani dalla corrente filosofica del poststrutturalismo: nelle sue apparizioni pubbliche, sono frequentissimi i richiami all’idiosincrasia tra scritto e orale (Derrida), tra significante e significato (Lacan), tra eros e porno (Klossowski), tra atto e azione (Deleuze).
45 Benché il problema, per Deleuze e Guattari, non sia costituito dagli organi, quanto dall’organismo inteso come piattaforma di coordinamento delle funzioni biologiche: «L’organismo non è per nulla […] il CsO, ma uno strato sul CsO, cioè un fenomeno di accumulazione,coagulazione, sedimentazione che gli impone delle forme, […] delle organizzazioni dominanti e gerarchizzate, delle trascendenze organizzate per estrarne lavoro utile» (Delezue e Guattari, 1974).
Un concetto non dissimile a quello di “differenziazione organica” formulato da Derrida nella sua precedente lettura artaudiana (Cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971).
46 Non possiamo che rilanciare la visione “partogenica” di Artaud già menzionata: «Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, mia / madre / e me» (Artaud, 1947)
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