Marco Basile | Lacan's mirror selfie

Lacan affronta direttamente il tema della voce in occasione del seminario Le psicosi, tenutosi negli anni tra il 1955 e il 1956 e, più tardi, nello scritto Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi steso tra il 1957 il 1958. L’ambito della psicosi costituisce, per Lacan, l’orizzonte privilegiato per una rinnovata riflessione intorno al rapporto tra il soggetto e l’Altro che lo condurrà alla tesi della radicale a-nomia dell’Altro, inteso ormai non più come l’Altro della dimensione intersoggettiva, ma come il registro del simbolico, come la catena dei significanti[1]. Il significante espresso dal «Nome-del-Padre» non detiene più il ruolo di Significante della Legge, rappresentante e garante della catena di tutti i significanti, ma scade a significante interno alla catena stessa. L’Altro risulta costitutivamente in difetto, essendo caratterizzato da un buco. Questa nuova versione dell’Altro si ripercuote sullo stesso soggetto, che non trova più la norma del suo essere nella Legge e il criterio della sua identificazione nell’oggetto fallo, ma ritrova il suo essere più proprio in quel buco del simbolico; meglio, nel modo singolarissimo in cui riesce a supplire a quella mancanza, che corrisponde a ciò che di godimento reale resta a seguito dell’operazione simbolica.
In altri termini si viene a profilare quello scenario per cui l’Altro, l’ordine del linguaggio, si mostra come un ordine essenzialmente violento, privo cioè di alcun senso naturale o sociale. L’effetto di tale ordine sul soggetto sarebbe quello di far cadere quel che resta di più proprio di esso a livello di uno scarto-oggetto, la cui posizione si mostra come paradossale: il “soggetto” sarebbe un prodotto dell’azione simbolica ma come un che di irriducibile a questa, un oggetto post-simbolico che tende a sottrarsi alla presa di questo. Ora tale resto più che denotare un’occasione di riaffermazione del soggetto, una via di riappropriazione dell’essere del soggetto, implica una causalità altrettanto violenta nei confronti del luogo proprio del soggetto, il desiderio, portando alla luce la verità secondo cui il desiderio del soggetto non può che realizzarsi sotto forma di scarto, di oggetto parziale.
La voce costituisce un tale oggetto parziale: è questa la conquista che l’indagine lacaniana intorno alla psicosi ottiene. Essa risulta il luogo del soggetto nella struttura simbolica, luogo indicibile, mai puntualizzabile e quindi definibile. La voce si staglierebbe così come terzo tra la struttura o la catena dei significanti e la Cosa, l’oggetto assoluto di godimento del Seminario VII;
Lacan, nell’affrontare la psicosi, prende in analisi quello che considera il fenomeno che meglio ne mette in mostra la struttura: l’allucinazione verbale. Sulla scorta dell’indagine merleau-pontyana e, andando oltre essa, Lacan rovescia la tradizionale visione dell’allucinazione, rompendo alla radice con la stessa prospettiva fenomenologica.
L’allucinazione verbale non è spiegabile nei termini di una teoria della percezione, ma implica e chiama in causa l’essere più profondo del soggetto, il rapporto che, in riferimento a questo, si stabilisce fra il registro del simbolico e il registro del reale. L’intuizione lacaniana riprende così l’analisi di Merleau-Ponty, che riconosceva nell’allucinazione una modificazione strutturale del rapporto originario tra il soggetto e il reale. Di che cosa si tratta quando abbiamo a che fare con l’allucinazione verbale non può certo essere scoperto sul piano di una teoria della percezione:
 
Se c’è qualcosa che deve distinguere il punto di vista dell’analista, questo qualcosa è forse il chiedersi, a proposito di un’allucinazione verbale, se il soggetto sente poco, o molto, o se la cosa è molto forte, o se esplode, o se è proprio con l’orecchio che lui sente, o se è dall’interno, o se è dal cuore, o dal ventre? […] Se tutto questo ci interessasse anzitutto, come ci hanno insegnato a scuola, la questione di sapere se si tratta di una sensazione o una percezione, o un’appercezione, o un’interpretazione, insomma se ci riduciamo al rapporto elementare con la realtà, nel registro accademico scolastico, affidandoci a una teoria della conoscenza manifestamente incompleta, ne perderemmo tutto il valore.[2]
 
Nell’affrontare il tema Lacan parte piuttosto dalla certezza, dal dato della parola nella voce come un evento appartenente al campo del reale, cioè a ciò che il soggetto dice effettivamente e non al campo della percezione. L’allucinazione verbale muove «da un livello più profondo di realtà» per il soggetto, «testimonia che dalla realtà sorge qualcosa di ostinato, che gli si impone». Il salto lacaniano è il seguente: «ciò che è rifiutato (verworfen) nell’ordine simbolico, risorge nel reale». In questo modo egli opera un corto circuito fra il fenomeno dell’allucinazione e la modalità di negazione freudiana che prende il nome di «preclusione» o «forclusione» (Verwerfung)[3].
Per comprendere a pieno il tipo di negazione che nella psicosi è in gioco, dobbiamo soffermarci un momento sul rapporto che Lacan stabilisce tra il registro simbolico e il registro del reale proprio dell’uomo.
La questione in gioco nella psicosi verbale è «quella dell’accesso primordiale dell’essere umano alla sua realtà», un reale che non presenta i caratteri coadattivi della nozione di «mondo-ambiente» (Umwelt) propria degli animali. Il reale come registro specifico dell’essere umano sorge soltanto attraverso una simbolizzazione “originaria” che colloca l’uomo sempre in una posizione di margine, in uno status scentrato rispetto al reale. Nella prospettiva lacaniana «la realtà è contrassegnata di colpo dall’annientamento simbolico» come mostra la tessitura significante in virtù della quale si costituisce un mondo. Un esempio, che lo stesso Lacan fa, è quello delle nozioni di «giorno» e «notte»: esse hanno origine come codici significanti che l’uomo pone e, a cui, i fenomeni empirici e concreti dell’esser-giorno e dell’esser-notte non giungono che in seguito ad associarsi come correlati immaginari. Il passo lacaniano successivo è che ogni apparizione di un significante come quello di giorno implica già l’accadere di tutto l’ordine del linguaggio:
 
Il giorno in quanto giorno non è un fenomeno, il giorno in quanto giorno implica la connotazione simbolica, l’alternanza fondamentale del vocale connotante la presenza e l’assenza.[4]
 
La voce, per un verso, implica tutto il campo del verbale che, come originariamente campo di significanti, determina a priori lo statuto di presenza e di assenza, cioè l’emergere o il sottrarsi di un reale. In questa concezione la stessa questione che sorge nella voce Che cosa sono? o Sono? in riferimento al soggetto, comporta una relazione significante fondamentale di cui ne va dell’essere stesso del soggetto.
Ora nel caso della psicosi verbale abbiamo a che fare con una dinamica in cui il vocale in quanto tale emerge nel reale, non rimane cioè nel modo di una funzione o, come lo definirà successivamente Lacan, nel modo di un oggetto sotteso al campo simbolico con il ruolo di garante di quella dialettica di presenza e assenza che caratterizza il registro simbolico; esso piuttosto si stacca dal flusso dei significanti invadendo il reale e bloccando il soggetto intorno all’insistenza a-dialettica di quella domanda, di quell’interrogativo Che cosa sono? Sono?, che non trova più il suo aggancio nell’insieme di significanti che gli vengono dettati nel campo dell’Altro. Si tratta nella psicosi:
 
Del rigetto di un significante primordiale… un processo primordiale di esclusione da un didentro primitivo, che non è il didentro del corpo, ma quello di un primo corpo di significante. È all’interno di questo corpo primordiale che Freud suppone si costituisca il mondo della realtà[5].
 
Preliminare quindi al «giudizio di esistenza» sarebbe un «giudizio di attribuzione» (Bejahung), «una prima divisione di buono e cattivo che non si può concepire che interpretandola come il rigetto di un significante primordiale». Si tratta di un’anteriorità non cronologica bensì logica, di una tappa che nel caso della psicosi è possibile che abbia come esito di non far accadere una parte della simbolizzazione; che questo qualcosa riguardante l’essere del soggetto sia «forcluso» o «precluso». In questa prospettiva il reale proprio dell’uomo, prima di costituirsi nella realtà della conoscenza, che ha come suo criterio base la percezione e che già presuppone la costituzione di un mondo oggettivo, si espone all’incidenza di un godimento che si palesa sempre a posteriori, come godimento interdetto dal processo primario di simbolizzazione, dall’introduzione di un corpo di significante.
L’oggetto del godimento o come Lacan lo chiamerà in seguito, come abbiamo visto nel Seminario VII, «la Cosa» (das Ding), diviene l’oggetto causa del desiderio del soggetto, un oggetto alla ricerca di cui il desiderio non potrà mai essere condotto, perché esso si pone come la condizione del sorgere di questo stesso desiderio e non come il suo termine. Ora l’apprensione umana della realtà è sottomessa, per Lacan, a questa condizione primordiale, a questo ritrovamento dell’oggetto sempre fittizio, per cui si può a ragione parlare di una realtà che, in quanto è sottesa da questo desiderio, è principalmente allucinata.
In questo processo la voce assume un valore rilevante perché costituisce quel corpo di significante del soggetto attraverso cui passa il flusso di significanti che proviene dal campo dell’Altro; in altri termini mi pare che nella voce si possa riscontrare l’istanza della soggettività nel campo dell’Altro o, come Lacan afferma all’epoca della Questione preliminare, che essa testimonia, nello stato normale, la condizione del soggetto S dipendente da ciò che si svolge nell’Altro A. Ciò che vi si svolge è articolato essenzialmente nel modo di un discorso, di cui A rappresenta il «luogo donde può porglisi la questione della sua esistenza», la domanda articolata a partire dall’Altro, «Qui che sono?», in cui il soggetto è chiamato in causa rispetto alla sua «contingenza nell’essere»; in cui esso «è come bagnato dalla questione della sua esistenza, che lo sostiene, lo invade o lo lacera da ogni parte»[6].
Ora l’interesse che lo studio della psicosi rappresenta, per Lacan, è che questa articolazione del desiderio del soggetto nel campo dell’Altro può venire meno durante lo svolgimento dell’esistenza di un individuo. Nella psicosi accade che «nel reale appare qualcosa d’altro da ciò che è messo alla prova e ricercato dal soggetto», cioè normalmente l’oggetto del desiderio. Ciò che riemerge è quella singolarità, quella contingenza del soggetto che non ha trovato posto nella catena dei significanti, quel resto che non ha trovato risposta nelle vie tracciate nella domanda dal campo del simbolico.
 
Che cos’è il fenomeno psicotico? È l’emergenza nella realtà di un significato enorme che sembra nulla – e questo, in quanto non può ricollegarsi a nulla, poiché non è mai entrato nel sistema della simbolizzazione – ma che può, in certe condizioni, minacciare tutto l’edificio […] È chiaro che ciò che appare, appare nel registro del significato, e un significato che non viene da nessuna parte, e che non rinvia a nulla, ma un significato essenziale, che riguarda il soggetto [7].
 
Il significato in questione riguarda l’accordo fra l’essere del soggetto e l’Altro, il convenire dell’«appello» al chiarimento intorno al proprio specifico essere, che il soggetto rivolge a sé, a partire dal campo dell’Altro, e del ritrovamento in questo dei significanti atti a rispondere a quell’appello. Questo significato è assicurato normalmente, secondo il Lacan dei due testi che stiamo trattando, dal significante Padre, dal Nome-del-Padre nel Seminario o, come si esprime nella Questione preliminare, dalla metafora paterna: in entrambi i casi si tratta di un elemento che dovrebbe assolvere alla funzione di annodare il registro immaginario del soggetto, il suo “bisogno” metafisico di determinazione esclusiva di identità, con il registro simbolico dell’Altro, con il «mandato» o la «chiamata» attraverso cui l’Altro determinerebbe l’essere del soggetto.
 
La nozione di soggetto è correlativa dell’esistenza di qualcuno di cui penso ─ È lui che ha fatto questo. Non il lui che vedo lì, e che naturalmente fa finta di niente, ma lui che non è lì. Questo lui è il corrispondente del mio essere, senza questo lui il mio essere non potrebbe neppure essere un io[8].
 
Il significante del Nome-del-Padre è il significante che nell’Altro, in quanto campo del significante, rappresenta il significante dell’Altro, in quanto luogo della legge. Il significante Padre, in altri termini si assume l’incarico di innestare l’indeterminatezza dell’essere del soggetto, prodotta dall’annientamento simbolico primordiale, nel quadro normativo della Legge di cui l’Edipo come sappiamo è l’espressione mitica; in altri termini si tratta di fa passare il godimento de-soggettivato e a-nomico, a cui il soggetto è esposto, nelle maglie del desiderio, di quel godimento cioè regolarizzato dall’interdetto della metafora paterna.
Ora la verità dirompente che l’analisi della psicosi rivela e che segna un passaggio irreversibile nella riflessione lacaniana è che il rapporto di interdipendenza dell’Altro con il soggetto è puramente fittizio, letteralmente opera di una finzione. Alla base della psicosi agisce un’impasse, la mancanza essenziale del significante del Nome-del Padre che garantiva l’accordo fra l’appello soggettivo alla significazione e la catena dei significanti. La psicosi mette a nudo un buco, una mancanza a livello del significante che, già verso la fine del Seminario III e poi, esplicitamente, nella Questione preliminare, consiste in un buco non già nell’Altro, ma più radicalmente dell’Altro. Il soggetto psicotico, «a un certo incrocio della sua storia biografica, viene messo a confronto con quel difetto che esiste da sempre»[9], e che mette a nudo il vero volto dell’Altro: l’enigma dell’Altro assoluto, «colui che davanti a noi si rifiuta o accetta, colui che, all’occasione, ci inganna, e di cui non possiamo mai sapere se non ci inganna, colui al quale ci rivolgiamo sempre».[10] Questo «Altro unico su cui s’articola l’esistenza del soggetto», «non soltanto è impermeabile all’esperienza, ma è incapace di comprendere l’uomo vivente; lo coglie solo dall’esterno; ogni interiorità gli è chiusa».[11]
Con la psicosi emerge il vero volto del rapporto fra il soggetto e l’Altro, un rapporto di estraneità, costrizione e violenza[12]; l’Altro non è l’Altro che risponde all’appello del soggetto affermativamente, il luogo di costituzione della «parola piena», come si esprime Lacan, in cui il “bisogno” di identità dell’essere del soggetto è soddisfatto dagli attributi significanti che reperisce nell’Altro. L’Altro che emerge dalla psicosi è quel discorso che nella fenomenologia della psicosi è «promosso di colpo al primo piano della scena, che parla da solo, ad alta voce, nel suo furore e nel suo rumore così come nella sua neutralità»[13]. Rispetto a questo discorso «lo psicotico ne è abitato, posseduto».
Lo studio della psicosi apre un interrogativo drammatico per l’analista Lacan: ad essere messo in questione è il riconoscimento dell’esistenza singolare del soggetto all’interno dell’ordine simbolico, all’interno dell’Altro. Il cambiamento d’accento che subisce l’Altro innesca una secessione fra la singolarità, la contingenza del soggetto e l’ordine del simbolico.
 
C’è infatti qualcosa di radicalmente inassimilabile al significante. È semplicemente l’esistenza singolare del soggetto. Perché c’è? Da dove sbuca? Che ci fa? Perché deve sparire? Il significante è incapace di dargli la risposta, per la buona ragione che appunto lo pone al di là della morte. Il significante lo considera già come morto, lo immortala per essenza.[14]
 
La contingenza del soggetto è ciò che l’ordine del significante non può assumere e né salvare, anzi è ciò che, come la psicosi evidenzia, l’Altro come linguaggio sacrifica, mortifica. Il montaggio che mette in atto l’ordine simbolico ha, come effetto, di iscrivere il soggetto sotto l’insegna annichilente del Nome-del-Padre, per il quale il soggetto nella sua singolarità non è più niente; ma, nello stesso tempo, di farlo essere come desiderio inserito in un campo della realtà che è quello propriamente umano del significante. Nella psicosi questo montaggio salta, o, in altri termini, l’Altro non assolve alla sua supposta funzione di mediazione nel soggetto fra la pulsione di godimento e l’universo significante, ma si mostra come l’«Über-Ich», una «legge senza dialettica», che si riconosce attraverso, per esempio, l’«imperativo categorico» kantiano-sadiano nella sua «neutralità malefica».
Giungiamo al cuore della struttura psicotica il che riporta in primo piano, come vedremo, il ruolo della voce. L’Altro si rivela come l’ordine del discorso, il flusso continuo dei significanti che parla nel soggetto come un corpo estraneo. Lacan dedica tutta la parte finale del suo Seminario III, riprendendola poi come centrale nella Questione preliminare, alla esplicazione di questa natura di discorso che nella psicosi emerge dal reale come corpo autonomo, estraneo, svincolato da ogni significazione che non sia una significazione sempre sospesa, interrotta, come nelle frasi dello psicotico. Esse risultano sempre spezzate a metà, manca ad esse l’attribuzione significativa che riempia di un senso, di un destino il posto vuoto del soggetto che, nella prima parte delle frasi, è rappresentato dalle funzioni pronominali, da quelli che nella linguistica strutturale sono definiti come «commutatori» (shifters).[15]
Dobbiamo a questo punto distinguere due scenari per comprendere il rapporto del soggetto con la catena significante: da una parte, si dà la scena in cui il monologo interiore, il discorso della coscienza o del Super-io che accompagna sempre il discorso esteriore del soggetto, rimane tacito, inavvertito dal soggetto. È questo il caso in cui il soggetto è assicurato, crede in un interlocutore posto dietro a quel discorso, l’Altro rappresentato dalla funzione del Padre che annoda la pretesa identità immaginaria di un io con un mondo di oggetti simbolici che sostituiscono adeguatamente l’oggetto innominabile del godimento. Con tale mondo ci riferiamo a quello che, anche nella Questione preliminare, Lacan continua a chiamare lo «schermo del fantasma». Esso impedisce il riemergere nel reale, cioè nel discorso del soggetto, di quel significato che riguarda l’essere più proprio del soggetto, quell’oggetto rigettato che caratterizza la singolarità del soggetto e a cui è legata la sua contingenza come essere esistente nell’ordine simbolico[16].
Nella scena che la psicosi innesca accade, invece, che lo schermo del fantasma salta e, con esso, la distanza fra il monologo interiore e il discorso esteriore del soggetto. L’Altro come interlocutore si ritira da questa scena in un altrove assoluto, lasciando il campo ad un discorso esteriore ormai invaso da un profluvio di significanti. La realtà umana si mostra, allora, sotto tutt’altra sembianza al soggetto psicotico, come una realtà di significanti che non ha nessun senso prestabilito ancorato al suo interno. Quel che viene meno non è il senso di realtà, bensì va in frantumi quel mondo strutturato secondo la dialettica di desiderio e legge che spinge il soggetto ad orientarsi. Per lo psicotico il senso è da creare, anzi il senso del reale si rivela come una continua creazione e questo è fonte di godimento e sofferenza nello stesso tempo, perché gli interlocutori nel suo discorso si rivelano come puramente immaginari. Da una parte, il discorso che abita il soggetto lo mette di fronte allo stato di radicale solitudine a cui è condannato l’uomo e questo gli procura sofferenza; d’altra parte, questo stesso discorso senza più mediazione, letteralmente si incarna, agisce sul corpo del soggetto trasformandolo da corpo simbolico a insieme di organi, veicolo del getto significante attraverso cui passa il godimento.
In questo quadro va chiarito con precisione il ruolo e il posto della voce. La voce lacaniana non ha a che fare con il parlare, con quella linguistica dell’intonazione che cerca di analizzare e definire i significanti dell’intonazione secondo gli effetti di senso di cui si caricano. La posizione della voce, al contrario, è essenzialmente fuori senso. La voce si deve indagare nella prospettiva lacaniana come una funzione della catena significante in quanto tale, non solo parlata e sentita, ma anche in quanto scritta e letta. Il proprio della voce è che la produzione di una catena significante non è legata a un particolare organo di senso o a un particolare registro sensoriale.
La voce è l’incarnazione della catena significante, detto in altri termini l’attribuzione soggettiva che questa catena comporta. La prospettiva lacaniana si discosta del tutto da quella fenomenologica perché essa prende in considerazione il tema, il concetto della voce, muovendo dal presupposto che la voce è una funzione del significante, quella propriamente distributiva, assegnante le menzioni, i posti del significante rispetto alla catena, al discorso. Si tratta del luogo della distanza tra l’enunciato e l’enunciazione in cui propriamente si colloca il soggetto. La voce è questo luogo, per cui ogni catena significante è a più voci, il che significa far equivalere la voce all’enunciazione.
L’esempio lacaniano per mostrare il ruolo della voce nelle psicosi è un caso clinico di allucinazione verbale, dove Lacan accosta in un’unica catena significante spezzata l’insieme costituito da un’ingiuria udita (“troia”) e da un’ideale frase precedente (“sono stata dal salumiere”), dove si è costituita quindi una distribuzione dell’assegnazione soggettiva. Nella frase “troia, sono stata dal salumiere” Lacan riconosce il fantasma del soggetto in questione di essere fatto a pezzi, per cui nella parola “troia” sente risuonare la parola del proprio essere. In questo caso è il carico affettivo, libidico della parola “troia” a operare una rottura di continuità nella catena significante e un effetto di rigetto nel reale. La voce assume in questo caso un portato libidico che non può essere assunto dal soggetto del desiderio e che passa nel reale venendo assegnato a un altro immaginario.
Nella struttura della psicosi, come Lacan la sta delineando, la voce si stacca dal discorso interiore del soggetto, da quel discorso che come inconscio parla costantemente nel soggetto di lui, per mostrarsi, per riuscire nel reale, nel discorso esteriore, effettivo che il soggetto produce.
Essa costituisce precisamente nella forma dell’allucinazione psicotica l’indice del soggetto nel suo rapporto con l’Altro, con il registro del simbolico. In particolare essa rimanda nel reale l’interrogazione assordante del soggetto intorno alla sua posizione e al suo ruolo in riferimento all’Altro, senza che questa interrogazione possa trovare una risposta nell’Altro, mancando in esso il significante che renda possibile l’operazione di identificazione del soggetto, quel passaggio che in Lacan è messo in atto dal significante Nome-del-Padre.
Lacan approfondisce nell’ultimo capitolo del Seminario sulle psicosi il modo in cui nel discorso dello psicotico agisca questa interrogazione vuota del soggetto e ciò che si evidenzia è il rovesciamento della modalità attraverso cui si presenta l’interrogazione. La voce assume il tono dell’intimazione, appuntandosi nella seconda persona, in un Tu ammonente nel quale Lacan riscontra il Super-io freudiano.
 
Il tu che qui si tue, si uccide, è quello che conosciamo perfettamente dalla fenomenologia della psicosi, e dall’esperienza comune, è il tu, quel tu che si fa sempre sentire più o meno discretamente, quel tu che parla da solo e che ci dice tu vedi, o tu sei sempre lo stesso.[17]
 
Questo tu è come un osservatore che «vede tutto, sente tutto, annota tutto», che provoca il soggetto «a risposte del tutto prive di senso» e che soprattutto, nota Lacan, è «lì come un corpo estraneo». Questo tu fa le veci dell’Altro come il significante a cui è connesso lo stesso senso di realtà dell’allucinazione.
 
Se il soggetto non dubita della realtà di ciò che sente, è in funzione di questo carattere di corpo estraneo che l’intimazione del tu delirante presenta.[18]
 
L’interrogazione fondamentale, la questione che l’io si pone su ciò che l’io è, o può sperare di essere, si pone sempre a partire dalla parola dell’Altro, dall’apparizione di una parola che Lacan definisce nei termini di «missione», «mandato», e ancora di «delega» o «devoluzione». È dal significante che il soggetto riceve dall’Altro che si apre la questione della sua presunta identità. Ora, nel discorso psicotico questa parola assume la forma della intimazione ossessiva da parte di un altro catturato totalmente all’interno della dimensione immaginaria. La parola dell’Altro è nella psicosi una parola vuota, priva del «clivaggio» con un insieme di significati come è proprio invece della parola piena, di quella parola proferita a partire da quell’Altro che detiene in sé il significante fondamentale, il significante Padre.
L’Altro dell’ordine simbolico si fa nella psicosi l’altro del registro immaginario. Lo sviluppo che assumerà questa concezione dell’Altro nella psicosi condurrà già nello scritto Una questione preliminare alla tesi secondo la quale la psicosi rivelerebbe un buco non nell’Altro, ma dell’Altro, giungendo così a una messa in discussione radicale della completezza dell’ordine simbolico. La locuzione «non c’è Altro dell’Altro» indicherà questa verità.
È indicativo come Lacan mostri questo buco a partire dalla frase interrotta in cui consiste la voce dello psicotico: «tu sei colui che mi…». Essa si arresta nel punto in cui dovrebbe scaturire un significante che abbia la funzione di assegnare alla frase il suo peso e al tu il suo accento. Tale significante, che Lacan individua qui in «seguirai», aprirebbe al problema dell’attribuzione da parte del soggetto di un certo numero di significazioni a un determinato registro significante. È come se un significante maestro dovesse tracciare la strada, la via in cui andranno a distribuirsi un insieme di significati che il soggetto adotterà come un quadrante per determinare la propria posizione rispetto all’Altro.
 
La strada maestra è così un esempio particolarmente tangibile di ciò che vi dico quando parlo della funzione del significante in quanto polarizza, aggancia, raggruppa in fasci i significati. C’è una vera antinomia tra la funzione del significante e l’induzione che essa esercita sui raggruppamenti di significati. Il significante è polarizzante. È il significante a creare il campo dei significati.[19]
 
Nella psicosi questo significante che, ribadiamo, per Lacan è il Nome-del-Padre, manca, con la conseguenza che l’Altro si slega, si sgancia da qualsiasi riconoscimento simbolico da parte del soggetto, divenendo quindi un «altro tanto più radicale, tanto più radicalmente altro, che non c’è nulla che lo situi a un livello significante cui il soggetto possa in qualche modo accordarsi»[20]
Ecco che la voce allucinata riflette questa esteriorità assoluta dell’Altro nel soggetto; il fatto che nella psicosi l’Altro rivela la sua inafferrabilità sostanziale, in quanto fonda la sua “presenza” nel campo del linguaggio.
 
Il radicalismo che vi ho manifestato a proposito della relazione tra soggetto e soggetto, porta a un’interrogazione sull’Altro come tale che lo mostra come propriamente inafferrabile — esso non sostiene, non può mai sostenere totalmente la scommessa che gli proponiamo.[21]
 
La scoperta o, per meglio dire, la svolta teorica che Lacan intraprende riguarda questa insostenibilità radicale dell’Altro, il fatto che l’Altro sia sempre sospeso intorno a un appello che è quello implicato nella persona del tu, a cui si assegna una realtà sempre e soltanto a partire da «tutto un universo istituito dal discorso». La realtà, la presenza dell’Altro è ancorata al luogo del discorso in cui dei significanti si incontrano con un complesso si significazioni.
 
L’importante è che riusciate a cogliere come il tu non abbia valore univoco, e che dunque è ben lungi dal permetterci di ipostatizzare l’altro. Il tu è nel significante ciò che chiamiamo un modo di far abboccare l’altro, di uncinarlo nel discorso, di agganciargli la significazione […] Il tu è l’uncinamento dell’altro nella onda della significazione[22].
 
In questa prospettiva si offrono alla nostra attenzione due scenari: quello psicotico, in cui il tu richiama un comando, un imperativo e, quello edipizzato o fantasmatico, in cui il tu richiama un mandato, una missione. C’è qui tutta la differenza tra l’accento vocale della costanza o della persistenza e quello della fedeltà; una differenza che va a caratterizzare in uno o nell’altro senso l’Altro in quanto tale. Nel caso della voce psicotica, il tu si da nel modo del comando, rivelando l’estraneità e l’alterità dell’Altro, che Lacan riconoscerà all'interno di Una questione preliminare come l’unico Altro, quello che si identifica con il campo del linguaggio, con la catena significante. Nel caso, invece, del discorso “normale”, nel discorso dove la voce come resto dell’operazione simbolica è occultata dal fantasma, dalla presenza della «metafora paterna», l’Altro si dà, ancora nel Seminario sulle psicosi, a partire dall’«invocazione» che lo investe di una realtà fantasmatica a cui corrisponde nel discorso «ciò che viene a esserne il soggetto».
 
A guardar meglio, vedete che se il tu sei colui che mi seguirai è delega, consacrazione, è per il fatto che la risposta non è un gioco di parole, ma un je te suis, ti seguo, je suis, sono, sono ciò che tu hai detto.[23]
 
La formula dell’invocazione è «ciò per cui faccio passare nell’altro quella fede che è mia»; è quella voce evocatrice di tutti i significanti che fanno da insegna, nel Lacan del Seminario III, del “vero” Altro.
L’analisi di Lacan, a prescindere dal taglio cui prende la questione in questo momento della sua riflessione, mette in luce la dimensione essenzialmente vocale del rapporto tra il soggetto e l’Altro: «È dal livello del significante vociferato che dipende la natura e la qualità del tu che è chiamato a rispondere».[24] Il modo di “presenza” dell’Altro e ciò che io sono di conseguenza, la determinazione dell’essere del soggetto connessa a quella presenza, dipendono dal modo di significanza della voce; per usare il linguaggio di Una questione preliminare, si tratta dell’inclusione o dell’esclusione del significante voce rispetto all’universo simbolico costituito dal discorso inconscio.
Chiudiamo così questa lettura dell’analisi lacaniana della psicosi soffermandoci per un momento ancora sulla nuova concezione dell’Altro affiorata già nelle pagine del Seminario III e che lo scritto Una questione preliminare elabora compiutamente, come quella che più ci interessa sottolineare. L’Altro assume il volto inquietante dell’autómaton, di «ciò che pensa veramente da sé senza alcun legame con quel al di là, l’ego, che dà il suo soggetto al pensiero»; questo è l’Altro come linguaggio che l’universo di discorso del soggetto psicotico porta alla luce, nella sua frantumazione in un gioco di voci carico di una significanza indicibile.
Nello scritto Una questione preliminare Lacan concepisce ormai decisamente l’Altro non più come il referente presupposto dalla dimensione intersoggettiva della parola, ma come la catena significante che parla nel soggetto al modo dell’autòmaton. Tale catena «si impone al soggetto per se stessa e nella sua dimensione di voce» ed essa comporta una «attribuzione soggettiva» che non è mai univoca ma sempre a più voci. Come emerge dal testo sulle psicosi, le voci distribuiscono quella rete di significanti che determinano nel discorso l’essere del soggetto. Lo scenario che ci si presenta vede così correlati l’Altro, la voce e il soggetto. In questo nuovo quadro il ruolo della voce diventa decisivo per collocare il soggetto sotto il campo del significante fallico e quindi all’interno del normale ordine simbolico o per escludere, come nel caso delle psicosi, il soggetto fuori dall’ordine fantasmatico, lasciandolo in balìa della pura catena significante. Questo comporta però, per Lacan, un passo nuovo nella sua concezione del rapporto tra il registro del simbolico e l’oggetto reale, l’oggetto della pulsione o, come dirà successivamente, l’oggetto «più di godere» (plus de jouir). Il passaggio è formulato già nella Questione preliminare:
 
Il discorso è giunto a realizzare nell’allucinazione la sua intenzione di rigetto. Nel luogo in cui l’oggetto indicibile è rigettato nel reale si fa sentire una parola, perché, venendo al posto di ciò che non ha nome, non ha potuto seguire l’intenzione del soggetto senza staccarsene… Questo esempio è stato portato solo per cogliere nel vivo che la funzione di irrealizzazione non è tutta nel simbolo.[25]
 
Vi è un effetto del significante che è precisamente quello che si ha nella voce allucinata, che è un effetto reale non più simbolico. La voce nelle psicosi emerge in primo piano come un oggetto indicibile, si stacca dal flusso che vede normalmente intrecciati significanti e significati, per riapparire nel reale, cioè nel discorso effettivo del soggetto come una voce che si ode. La portata di questo “fenomeno” risulta dirompente per il registro stesso del simbolico perché porta a concludere che il processo di irrealizzazione del simbolico non è completo, ma segnato da una beanza, da un buco. L’oggetto del godimento, che marca il soggetto nell’atto stesso della sua iscrizione nel simbolico, è “presente” nel registro simbolico stesso, nella catena dei significanti. La presenza dell’oggetto che corrisponde, come abbiamo analizzato, alla preclusione del significante Nome-del-Padre, non è una possibilità da addebitare al soggetto in quanto affetto da una mancanza, ma, è un dato strutturale dell’Altro, del linguaggio.
Lo studio della psicosi apre le porte a «un’altra scena» (ein anderer Schauplatz), in cui l’identificazione del soggetto con la funzione immaginaria del fallo, fondamentale per cucire il soggetto del desiderio con quello che Lacan definisce il campo del fantasma, è reso possibile soltanto se preliminarmente è avvenuta l’estrazione di ciò che, dallo scritto Una questione preliminare, andrà chiamato propriamente l’oggetto a. La voce costituisce la forma che l’oggetto impossibile, il godimento proibito che è riferito qui alla Madre come oggetto del desiderio proibito, assume al momento dell’iscrizione del soggetto nel campo dell’Altro, inteso ora come la catena significante.
Quel che Lacan elabora nel suo percorso di analisi delle psicosi è che tale oggetto, la voce è presente nella struttura stessa, è un resto reale che si articola con la catena dei significanti rivelando il buco, il difetto di quella che nella Questione preliminare definisce la «metafora paterna». Questa assolve al compito di significante che fa da rappresentante dell’Altro, da Garante della Legge, il significante che rappresenta la catena dei significanti. Il Padre si sostituisce all’oggetto proibito rappresentato dal significante Madre e in questo modo assicura l’identificazione del soggetto con il fallo e la sua iscrizione all’interno del campo fantasmatico. La metafora paterna assicurerebbe così la terzietà dell’Altro, l’esistenza di un metalinguaggio che regola la relazione duale del soggetto con il proprio altro speculare. Ora questa terzietà è minata all’origine dalla preclusione del significante Padre che espone il soggetto, nel caso della psicosi, all’oggetto d’orrore che è il godimento altro, con la precipitazione dell’intero universo significante nella beanza reale del godimento, con l’asservimento della catena significante ad un godimento estraneo ed imperante per il soggetto.
La voce esprime questo resto reale a cui il soggetto è legato nel suo essere, il che fa del soggetto nel suo essere più intimo, in virtù della sua necessaria mortificazione simbolica, uno scarto, un rifiuto:
 
Non i suoi stracci, ma l’essere stesso dell’uomo viene a prender posto tra i rifiuti dove i suoi primi trastulli han trovato il loro corteo, in quanto la legge della simbolizzazione in cui il suo desiderio deve impegnarsi lo prende nella sua rete per via della posizione di un oggetto parziale in cui egli si offre arrivando al mondo, un mondo in cui il desiderio dell’Altro è legge.[26]
 
Il Lacan studioso delle psicosi scopre così un’altra scena in cui si configura il rapporto del soggetto con l’Altro, una scena più inquietante dove una possibile «riconciliazione» (Versöhnung) nel modo dialettico dell’intersoggettività è inficiata alla base dalla messa ai margini, da parte dell’Altro, del soggetto come un resto reale di cui la voce costituisce un significante eccezionale. Al termine della Questione preliminare la voce si profila come un oggetto che si occulta, si sottrae per lasciare che il soggetto sbarrato, il soggetto del desiderio possa sostenere il campo della realtà fantasmatica. È su questo duplice tratto della voce come oggetto residuale e causale che Lacan si soffermerà in particolare nel seminario L’angoscia.
 
Dunque, è in quanto rappresentante della rappresentazione nel fantasma, cioè come soggetto originariamente rimosso, che l’S sbarrato del desiderio fa da supporto al campo della realtà, e quest’ultimo non si sostiene che per l’estrazione da esso dell’oggetto a, che peraltro gli fornisce il suo quadro.[27].
 
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[1] Lacan aveva iniziato la sua attività proprio come studioso di casi di paranoia particolarmente violenta, il caso Aimée e quello delle sorelle Papin. Ricordiamo la sua tesi di dottorato, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità del 1932. Ma il caso esemplare per la formulazione più esaustiva della sua lettura della psicosi è quello del presidente Schreber, indagato precedentemente da Freud in Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber) (1910), Opere, vol.VI, Boringhieri, 1974, pp. 333-406. Fin dalle prime analisi Lacan aveva sottolineato la natura sociale della paranoia, in particolare il fatto che la dimensione intersoggettiva si mostrava, nella paranoia, nella sua costitutiva carica aggressiva dovuta all’originario impianto immaginario dell’Io sociale o, in altri termini della coscienza morale. L’ordine sociale, la Legge svelava la sua genesi come dialettica immaginaria di io e l’altro nel/del soggetto.    
[2] Jacques Lacan, Le séminaire, Livre III. Le psychoses (1955-1956), Éditions du Seuil, 1981; trad.it., Il seminario Le psicosi (1955-1956), Einaudi, 1955, pp. 130-131.
[3] Per tale modalità di negazione vedere in Sigmund Freud,  GW XIV (pp.11-15); trad. it, La negazione in  Inibizione, sintomo  e angoscia e altri scritti 1924-1924, Bollati e Boringhieri, 2000.
[4] Lacan, ibid., p. 176
[5] Lacan, ibid., p. 178
[6] Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966; trad. it., Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi (1957-1958), in Scritti (II), Einaudi, 1974, p. 545
[7] Lacan, Le psicosi, op. cit., pp. 101-102
[8] Lacan, ibid., p. 119
[9] Lacan, ibid., p. 239
[10] Lacan, ibid., p. 301
[11] Lacan, Scritti (II), op. cit., p. 558
[12] «Nella follia, dunque, il soggetto è innanzitutto perseguitato. È perseguitato, nel reale, dallo sguardo (e dalla voce) dell’Altro. In questo senso essa rivela un’altra verità della struttura: ovvero, l’aspetto strutturalmente persecutorio dell’Altro» (M. Recalcati, Follia e struttura in Jacques Lacan, pp. 139-165, in «Aut aut », n. 285-286, 1998, p. 159). L’autore traccia un percorso in cui il tema della follia è affrontato secondo lo svolgimento che esso ha subito all’interno della produzione lacaniana. In riferimento all’esito o all’ultima tappa, a cui l’elaborazione lacaniana della follia, nella versione determinata della psicosi, approderebbe, riteniamo a differenza dell’autore che già nella Questione preliminare si possa riscontrare lo slittamento in cui incorre la forclusione, l’impasse da tratto accidentale ad aspetto strutturale dell’ordine simbolico, dell’Altro. All’interno dello scritto in questione si riscontrano le condizioni per quella conseguente psicotizzazione del reale, a cui Recalcati allude e con cui concordiamo: la psicosi, in questa prospettiva, evidenzierebbe non una «mancanza della mancanza», come la vulgata di certe teorie del desiderio vuole, ma la mancanza di un oggetto; quello che per noi è l’oggetto a e che Recalcati individua, anticipando l’elaborazione del tardo Lacan, nella supplenza al buco interno al simbolico. «[...] la psicosi risulta non tanto da un difetto del simbolico ma dal difetto della supplenza― questa sì universale― al buco interno al simbolico; difetto di ciò che supplisce al difetto fondamentale della struttura» (Recalcati, ibid., p. 164).
Il passo ulteriore, che Recalcati in questo studio non fa è, dalla nostra ottica, la rivisitazione del rapporto tra il soggetto e l’Altro, alla luce di questo salto nella teoria della psicosi. Ed è qui che, di nuovo, non ci troviamo concordi con Recalcati nel definire «nichilistico» l’approdo lacaniano. La patente di nichilismo rievoca dalla finestra quel che era stato fatto uscire dalla porta principale: l’idea di soggetto come mancanza ontologica che emergerebbe come scarto incolmabile tra il piano del significante e il piano del godimento. Rispetto a questo ci sentiamo di dire che l’Altro, nella psicosi, diventa l’Altro del Reale, un agente di godimento che si vuole assoluto e che quindi si immaginarizza; ad essere forcluso è quel che del reale inciampa, osta rispetto a questo godimento immaginario, precisamente il “soggetto”, inteso come una supplenza contingente che scioglie il nodo di reale e immaginario che s’instaura nella psicosi. La clinica della psicosi che si afferma dagli anni sessanta in poi, testimonia che l’Altro del simbolico non esiste; ad essere in causa non è più l’esistenza o meno della Legge, perché l’Altro risponde soltanto alla logica dell’autómaton, la catena dei significanti; il salto si compie nel rilevare che questa stessa logica è investita dal Reale del godimento, per cui il non senso del Reale s’identifica con il non senso della logica del significante, il Simbolico. Questo annodamento è propriamente l’ordine psicotico generalizzato che domina oggi la sfera sociale. Ora, la chiave di lettura che Lacan trae da questa psicotizzazione, è che essa risulta immaginaria, in quanto poggia sulla forclusione di ciò che supplisce all’impossibilità di questo nodo. L’impossibile che si scrive, «che cessa di non scriversi» è un modo singolare di accettare, di sostenere l’impossibilità stessa del nodo tra il Reale e il Simbolico. In questo senso, quel che rimane del “soggetto” è questa singolarità, contingenza, non un presupposto, ma un risultato, la pietra di inciampo del nodo immaginario; un rifiuto, uno scarto prodotto dalla stretta mortale del «godi-senso» (joui-sense), dell’intreccio Reale-Simbolico. È questa contingenza che abita l’uomo, ciò che di inumano agita l’uomo e che fa di nuovo emergere il buco del reale, il tratto di eccesso, di fuori-senso, di impossibile che connota il Reale nella sua alterità irriducibile a qualsiasi irretimento immaginario nel Simbolico. Non una presunta mancanza d’essere, ma un eccesso, un sinthomo strappa il reale dell’uomo dalla riduzione immaginaria all’autómaton. Il reale non può mai farsi autómaton  in quanto quel che del reale è necessario secondo la logica del significante è inficiato dalla contingenza.            
[13] Lacan, Le psicosi, op. cit., p. 298
[14] Lacan, ibid., p. 212
[15] Si rimanda a Roman Jakobson, Shifters, verbal categories, and the Russian verb, Russian Language Project, Dep. Of Slavic Languages and Literatures, Harvard University, 1957; trad. it., Commutatori, categorie verbali e il verbo russo, in: Saggi di Linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Feltrinelli, 2002, pp. 149-170
[16] Sul legame tra significato e soggetto in Lacan ha insistito molto Lyotard: «Quando dice significato, Lacan pensa al soggetto. Tutta la teoria della metafora è una teoria della metafora del soggetto: questi si apprende solo tramite la metafora, e cioè mancandosi, appunto perché è significato di un significante» (J. F. Lyotard, Discours, figures, Klincksieck, 1971, p. 315). Ci pare che Lyotard schiacci fortemente la concezione del linguaggio e del discorso sul piano della metafora, che seppure risulta importante nella strutturazione del linguaggio mi pare legata, soprattutto, alla fase lacaniana dove il discorso simbolico è tutto incentrato sul valore della parola piena e su una formulazione dell’inconscio ancora troppo dipendente dalla freudiana analisi dell’Intepretazione dei sogni. Successivamente con la teoria dell’oggetto a vi sarà un disabbonamento all’inconscio che slega, a nostro parere, la soggettività dalla nozione di significato nella metafora. Il soggetto non sarà il significato che slitta al di sotto del significante come sempre mancato, ma semmai ciò che resiste come un «osso» al gioco della metafora.     
[17] Lacan, ibid., p. 326
[18] Lacan, ibid., p. 327
[19] Lacan, ibid., pp. 344-345
[20] Lacan, ibid., p. 334
[21] Lacan, ibid., p. 342
[22] Lacan, ibid., pp. 353-354. Non possiamo non menzionare almeno in nota l’importante contributo a questa formulazione del legame tra Io e Tu, scaturente dalla struttura stessa del linguaggio, che è provenuto a Lacan da Benveniste: «qual è la realtà alla quale si riferiscono io o tu? Unicamente una realtà di discorso, che è una cosa affatto particolare. Io può essere definito solo in termini di locuzione, e non in termini di oggetto, come lo può invece essere il segno nominale. Io significa la persona che enuncia l’attuale situazione di discorso contenente io […] Si ottiene una definizione simmetrica per tu, come l’individuo al quale ci si rivolge allocutivamente nell’attuale situazione di discorso contenente l’istanza linguistica del Tu» (E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, vol. I, Il Saggiatore, 1971, p. 302).
[23] Lacan, ibid., p. 359
[24] Lacan, ibid., p. 360
[25] Lacan, Scritti (II), op. cit., 531-532
[26] Lacan, ibid., pp. 578-579 (nota 1)
[27] Lacan, ibid., p. 550 (nota 1)