Gabriele Miniagio | Dialettica della rappresentazione e ritrazione dell’Io. Una lettura di Fichte

Così l’attività ritorna in sé stessa a mezzo dello scambio reciproco e lo scambio reciproco ritorna in sé stesso tramite l’attività. Tutto riproduce sé stesso e non v’è iato possibile: da ogni termine si è spinti a tutti gli altri. […] L’intero circolo è posto in assoluto. È perché è, e di esso non può indicarsi fondamento più alto.1

 

L’io deve porre originariamente in sé la possibilità che qualcosa eserciti un effetto su di esso; deve mantenersi aperto anche per un altro porre, senza pregiudicare il suo porre assoluto per sé stesso2.

La fichtiana Dottrina della scienza del 1794 è spesso ancora interpretata all’insegna di una teoria in cui l’atto che oppone il Non-Io rimarrebbe tutto interno all’Io, in una sorta di autoaffezione3: così, un Io assoluto produrrebbe da sé stesso la materia della rappresentazione. Nel corso di questo lavoro si cercherà di mostrare che tale atto è piuttosto un’autosoppressione logica, una ritrazione, l’apertura di uno spazio altro, che comporta la posizione di un’attività opposta e correlata dialetticamente alla prima, all’interno di un vertiginoso dinamismo che non si può completamente ridurre né all’attività dell’Io né a quella Non-Io, benché esse non cessino di differirvisi4. Insomma l’Io non genera ontologicamente il Non-Io, ma il vuoto entro cui esso è logicamente pensabile come cooperante principio di spiegazione della rappresentazione all’interno di una sintesi dialettica. Questa sintesi di attività è indicata da Fichte come il principio più alto, la condizione oltre la quale né la filosofia teoretica né la filosofia pratica possono andare. In essa avviene un transito continuo: vi sono due attività opposte, l’Io e il Non-Io, che passano l’una nell’altra, determinando, in questo passare, la rappresentazione come un ingranarsi della forma sulla materia e viceversa; questa determinazione reciproca all’interno della rappresentazione è a sua volta condizione di conoscibilità di quelle due attività e del loro passare. All’interno di questo dinamismo ogni momento si differisce nell’altro e niente è fondante il suo opposto senza esserne a sua volta fondato, niente è condizione senza essere sua volta condizionato.
 
Si analizzeranno più avanti nel dettaglio i momenti che costituiscono questa totalità dinamica. Possiamo anticipare, riservandoci di motivarli nel corso di questo lavoro, gli argomenti in grado di provare tale interpretazione:
 
1. l’opposizione del Non-Io è un atto assoluto, che si trova nell’Io e non è deducibile logicamente dal suo porre sé stesso;
2. l’opposizione del Non-Io è allo stesso tempo una soppressione dell’Io, un’apertura, una ritrazione, una condizione che, una volta posta, deve determinare la rappresentazione;
3. la teoria spesso attribuita a Fichte, della creazione del Non-Io e della materia della rappresentazione da parte dell’Io, è da lui definita come idealismo qualitativo e, al pari dell’idealismo quantitativo, inequivocabilmente rifiutata;
4. l’immaginazione produttiva inventa la materia della rappresentazione, ma non la crea, essendo preceduta da un urto su cui incappa l’attività dell’Io; questo urto rimane un fatto di cui la filosofia teoretica non dà fondamento, ma da cui anzi è fondata: l’urto accade e non è logicamente dedotto dall’autoposizione dell’Io.
 
1. Il dibattito sulla cosa in sé e la posizione di Fichte
Per comprendere la posizione di Fichte è utile partire dall’interpretazione che Reinhold dà della filosofia kantiana e in particolare della rappresentazione. Essa è la risultante di due componenti, l’una, formale, posta dall’Io, l’altra, materiale, posta dalla cosa in sé; esistono dunque tre elementi della conoscenza: l’attività rappresentativa (il soggetto), la rappresentazione (il fenomeno) e l’oggetto della rappresentazione. Ora però se con oggetto delle rappresentazioni Kant intendesse la cosa in sé – e l’interpretazione di Reinhold sembra questa – l’oggettività della conoscenza sarebbe al di là dell’esperienza, quale suo fondamento inattingibile. È da questa lettura di Kant che nasce la disputa sulla cosa in sé.
In effetti che questa interpretazione della Critica della ragion pura sia fuorviante emerge in particolare dalla Deduzione trascendentale delle categorie: lì è chiaro che l’oggetto è il prodotto della regola di costruzione delle rappresentazioni; esso è ciò che si oppone a che quelle siano determinate a casaccio5, insomma esso è il risultato della sintesi che l’intelletto compie sul materiale sensibile spaziotemporalizzato. Il fenomeno è dunque oggettivo; è la regolarità della sintesi che fa sì che i dati percettivi costituiscano i momenti interni di un oggetto dato. Quanto alla cosa in sé Kant nell’Analitica cessava di usare l’espressione, indubbiamente fuorviante, di “causa delle rappresentazioni”, per intenderla come concetto limite, ossia come avvertimento critico sulla centratura dell’esperienza sul soggetto osservatore, che in essa ha un ruolo di costruttore attivo, secondo regole universali e necessarie. Perciò per Kant l’oggettività è dentro l’esperienza e coincide con la sua regolarità; tale regolarità è il prodotto dell’Io penso, che, legando la sintesi percettiva e immaginativa alla propria coscienza d’identità, la trasforma in una sintesi secondo concetti6.
 
Dunque per Reinhold:
1. il fenomeno si identifica con la rappresentazione;
2. l’oggetto non è il fenomeno, ma la sua causa;
3. la cosa in sé è causa della rappresentazione;
4. l’oggettività è al di là dell’esperienza.
Per Kant invece, per lo meno nella formulazione più matura e compiuta:
1. il fenomeno è costituito da una regola invariante che connette fra loro le percezioni (sintesi);
2. il fenomeno è perciò oggetto (prodotto di una regola di costruzione che ha statuto concettuale);
3. la cosa in sé è un concetto limite che ci avverte che l’esperienza è costruita dal soggetto umano;
4. l’oggettività è nell’esperienza (la regolarità che la attraversa).
 
Ora questa interpretazione, proprio per il suo fraintendimento della nozione kantiana di oggettività, lascia ai post-kantiani alcuni problemi: se la categoria di causa può essere applicata soltanto ai fenomeni, non si può dire che la cosa in sé sia causa delle nostre rappresentazioni; avevano buon gioco da questo punto di viste le obiezioni scettiche dell’Enesidemo di Schultze o la famosa sentenza di Jacobi per cui senza la cosa in sé non si può entrare nella filosofia trascendentale, ma con essa non vi si può permanere.
All’interno di questo quadro si aprivano dunque due strade: o eliminare la cosa in sé o ripensarla criticamente. Ora quale delle due operazioni compie Fichte?
Secondo l’interpretazione tradizionale Fichte avrebbe eliminato la cosa in sé, a vantaggio di un Io che crea attraverso l’immaginazione produttiva la materia dell’esperienza; egli aprirebbe così la strada all’idealismo assoluto. Secondo l’interpretazione che qui voglio sostenere, egli avrebbe ripensato la cosa in sé come termine dialettico, ossia opposto e correlato, all’Io sul piano logico; in questa opposizione-correlazione e nel suo dinamismo interno consiste quel processo logico di finitizzazione dell’Io, che permette di pensare la sua esperienza conoscitiva e morale. Se questo è vero, Fichte rimane davvero fedele al criticismo come filosofia del finito e fa dell’Io assoluto non un principio ontologico, ma un’esigenza logica e morale, giustificata dialetticamente.
In effetti, se Fichte considerasse la cosa in sé semplicemente un capo morto da eliminare, egli non sarebbe un continuatore dell’idealismo critico kantiano, come sempre si considerò, ma un restauratore dell’idealismo assoluto di Berkley. A più riprese peraltro egli polemizza con quelle forme di idealismo (il qualitativo e il quantitativo) che assumono una inspiegabile genesi produttiva dell’esperienza dall’Io, senza fare i conti con la sua correlazione dialettica col Non-Io. D’altra parte, valeva la pena la svolta trascendentale nella filosofia, se si trattava semplicemente di tornare all’identità di essere ed esser rappresentato? E, da questo punto di vista, se Fichte avesse inteso “eliminare” la cosa in sé, quale sarebbe il suo contributo alla filosofia, se non un’interpretazione etica e protrettica della filosofia di Berkley? È poi così neutro il fatto che Hegel, filosofo dell’idealismo assoluto, abbia appaiato Kant e Fichte, considerandoli come filosofi della riflessione, ossia come teorici di un soggetto finito7?
La forma involuta del Fondamento dell’intera dottrina della scienza, la continua riscrittura di quest’opera, la finale svolta teologica hanno contribuito ad una lettura in senso quasi emanatistico del secondo principio. Io credo invece che esso non sia intelligibile se non alla luce della domanda che sopra ponevamo: come si può enunciare all’interno di un sistema di filosofia trascendentale qualcosa che abbia la funzione della cosa in sé? Essa deve esser enunciata in campo gnoseologico per affermare che l’esperienza, pur essendo una costruzione del soggetto, anzi un’invenzione, non è una sua creazione dal nulla; una condizione extrasoggettiva della rappresentazione – ed è qui la difficoltà – deve essere spiegata e assunta dal soggetto, deve essere per il soggetto. La dottrina della scienza può quindi essere considerata una metacritica della ragion pura e della ragion pratica in cui viene fondata dall’interno di un sistema filosofico critico-trascendentale, l’enunciabilità di qualcosa che ha la funzione della cosa in sé. Cerchiamo ora di corroborare questa lettura alla luce del testo fichtiano.
 
2. La dottrina dei principi nella parte teoretica
Fichte parte da A=A, il principio aristotelico di identità8. Il nesso è valido o che A esista o che non esista. Ma tanto A quanto il nesso d’identità sono pensati dall’Io. Il principio d’identità richiede quindi che l’Io sia posto. La proposizione Io sono deve quindi essere messa alla base del sapere9.
Ora, se il principio d’identità richiede che sia posto l’Io, da un punto di vista puramente logico l’Io non richiede niente se non sé stesso. L’Io è quindi principio primo del sapere. Il primo principio è quindi:
L’Io pone sé stesso10.
Ma l’Io non è qualcosa di semplicemente statico; l’Io non è qualcosa che prima c’è e poi si pone esistente, ma il suo essere consiste nel porsi esistente11. Il suo essere non precede l’atto del porsi esistente, ma è tutto quell’atto. Se c’è qualcosa che esiste senza essere cosciente della propria esistenza, esso non è Io. L’Io è autocoscienza da cima a fondo. Infatti, nella cosa, priva di autocoscienza, possiamo individuare:
 
- un’essenza, che in essa è data e che determina il campo delle sue possibili azioni (operari sequitur esse);
- la sua esistenza, come qualcosa che non rientra in tale essenza, che non è in grado di modificarla (cento talleri non cambiano la loro essenza o che esistano o che non esistano, come insegna Kant).
Nell’Io del primo principio invece non valgono queste due condizioni; dobbiamo infatti dire:
- per quanto riguarda l’essenza, essa non è un semplice dato che determina l’atto dell’Io autocosciente; poiché l’essenza dell’Io è proprio l’atto dell’autocoscienza, essa non preordina il suo fare, ma è tutt’uno con esso (esse sequitur operari);
- per quanto riguarda l’esistenza, essa non è esterna all’essenza; se l’essenza dell’Io è l’autocoscienza e se l’autocoscienza è coscienza della propria esistenza, qui l’esistenza entra nell’essenza.
 
Perciò entrambe, essenza ed esistenza, si radicano nell’atto per cui l’Io è cosciente di sé. L’Io dunque non è cosa, ma atto, azione12: non si può dire semplicemente che l’Io c’è, ma occorre dire che si fa. Questa azione è ciò che Fichte chiama Tathandlung. Se non c’è un essere che precede questa azione, né dal punto di vista essenziale, né dal punto di vista esistenziale, se l’essere dell’Io coincide con quest’atto di porsi esistente, nell’autocoscienza l’Io genera continuamente sé stesso, si produce. L’atto del produrre il proprio essere è la libertà. L’essenza dell’Io è quindi la libertà.
Torniamo ora ai principi della logica aristotelica e analizziamo il principio di non contraddizione: A ≠ non A. Esso non può essere enunciato senza l’atto del contrapporre13. L’atto del contrapporre è comunque un atto di pensiero, dunque un atto dell’Io. Quest’atto del contrapporre l’Io può rivolgerlo a sé stesso e può perciò contrapporsi un Non-Io: se non-A è l’opposto determinato di A, A deve essere posto; ma l’unica cosa che finora si è posta è l’Io; dunque è primaditutto all’Io che qualcosa può essere contrapposto. In virtù di ciò abbiamo il secondo principio:
 
All’Io è in assoluto contrapposto un Non-Io14.
 
Non deve sfuggire la terza persona con cui Fichte lo formula: il secondo principio resta incondizionato quanto alla forma; ciò vuol dire che esso è indeducibile dal primo15. La negazione è qualcosa che l’Io trova in sé stesso e che non deriva logicamente dall’affermazione di sé. Mentre l’esistere dell’Io è tutto nel suo atto, dunque non è un semplice dato, ma qualcosa di posto, il contrapporre è invece qualcosa che si trova nell’Io, un incondizionato. Dunque l’atto dell’opporre il Non-Io non è logicamente generato dall’atto del porre sé, ma è un fatto.
Nella parte pratica Fichte conferma il carattere incondizionato e indeducibile razionalmente dal porsi dell’Io dell’atto che oppone il Non-Io.
 
Oltre al porsi dell’Io a opera propria dev’esserci ancora un altro porre. A priori questa è una pura e semplice ipotesi: che vi sia un tale porre non si può affatto dimostrare se non come un fatto della coscienza e ognuno deve dimostrarlo a sé stesso tramite questo fatto; nessuno può dimostrarlo all’altro ricorrendo a motivazioni razionali16.
 
Ora, questo fatto indeducibile dell’opposizione scava dentro l’Io un vuoto: nella misura in cui è opposto il Non-Io, l’Io non è posto17. A questo proposito, sempre nella parte pratica, Fichte parla di una vera e propria apertura dell’Io in virtù del secondo principio, con un lessico filosofico che sembra anticipare in modo sorprendente alcuni temi della filosofia del Novecento legati all’Altro:
 
Se il Non-Io deve però poter porre qualcosa nell’Io, allora è necessario che la condizione di possibilità di un tale influsso estraneo sia fondata nell’Io stesso, nell’Io assoluto, prima di ogni effettiva causazione estranea; l’io deve porre originariamente in sé la possibilità che qualcosa eserciti un effetto su di esso; deve mantenersi aperto [offen erhalten] anche per un altro porre, senza pregiudicare il suo porre assoluto per sé stesso18.
 
Ma se dev’essere posto un Io, deve di necessità porsi in quanto posto da sé stesso, e, tramite questo nuovo porre che si relaziona a un porre originario, esso si apre, per così dire, alla causazione dall’esterno; unicamente per mezzo di questa ripetizione del porre, l’io pone la possibilità che in esso possa esservi qualcosa di non posto da esso stesso19.
 
È evidente qui l’impossibilità di interpretare il secondo principio come una creazione del Non-Io. Ciò è colto in un lucido passo Hegel:
 
A questo punto ci attenderemmo specialmente che Fichte indicasse il ritorno dell’esser altro nell’autocoscienza assoluta. Ma poiché l’esser altro è stato ammesso come incondizionato, questo ritorno non si compie20.
 
Hegel è qui molto chiaro nell’individuare nel carattere incondizionato della posizione del Non-Io la ragione dell’impossibilità dell’Io di fare ritorno a sé da questo essere-altro, l’impossibilità di chiudere il cerchio dell’autocoscienza con una piena introiezione di questo spazio aperto in cui l’attività dell’Io è soppressa – il che naturalmente è per lui una critica.
Il contrapporre, nel suo carattere di evento assoluto, non è quindi per Fichte un’espansione dell’Io, sotto forma di creazione, fantasmatica ed allucinatoria, del Non-Io, ma l’apertura di uno spazio che andrà d’ora innanzi assunto nel suo carattere insaturo e che solo così potrà ridiventar di nuovo per l’Io. Si tratta insomma di un’autosottrazione, una ritrazione che fa pensare, per molti aspetti, al concetto ebraico di Tzimtzum: il Non-Io non viene posto in senso assoluto, ma in modo correlativo e indissociabile da un’autosoppressione dell’Io; non c’è la generazione di un pieno ma lo scavo di un vuoto.
Sono posti l’Io e il Non-Io dunque. Siamo di fronte a due principi che, se assunti in senso assoluto, si contraddicono l’uno con l’altro: se il primo valesse in assoluto, tutta la realtà sarebbe posta nell’Io e il secondo non potrebbe essere enunciato; se il secondo valesse in senso assoluto, tutta la realtà sarebbe posta nel Non-Io e cadrebbe anche il primo21. Tuttavia sia il primo sia il secondo devono essere posti: se è posto l’Io è posto il Non-Io (fra i suoi atti c’è la negazione che può essere esercitata contro sé stesso) e se è posto il Non-Io è posto l’Io come condizione logico trascendentale della sua posizione. Perciò i due principi devono limitarsi l’uno con l’altro22: il terzo principio è quello in cui compaiono i primi due ma ciascuno come limite dell’altro. Ecco la sua formulazione:
 
Io contrappongo, nell’Io, all’Io divisibile un Non-Io divisibile23.
 
Con il terzo principio si dice che tanta realtà c’è nel Non-Io, quanta ne sopprimo nell’Io e viceversa24. Non deve ingannare l’espressione nell’Io: Fichte infatti non dice che l’Io pone il Non-Io divisibile, ma che lo oppone; e opporre Altro, significa, in conformità al secondo principio, non porre sé, sottrarre realtà all’Io. Qui l’Io non ingloba, ma si svuota. L’immanenza della coscienza in questo atto oppositivo si ritrae e in questa sottrazione apre uno spazio con cui la libertà dell’Io è confrontata. Questa apertura non è una forzatura novecentesca, heideggeriana, lacaniana, dell’interpretazione, è Fichte stesso, come abbiamo visto sopra, che usa il termine apertura. Vedremo poi che questo spazio sarà il teatro della proiezione produttiva dell’immaginazione. Quello che per ora è necessario sottolineare è che accade all’interno dell’Io non una posizione, ma uno svuotamento.
Ciò stabilito, è forse giunto il momento di chiedersi che cosa voglia dire in Fichte il termine porre (setzen). In generale, da tutto quello che si è detto, porre non può voler dire altro che: assumere l’esistenza. Vuol dire anche generare all’esistenza, produrre? Per l’Io senz’altro sì. L’esistenza dell’Io fa tutt’uno col suo pensarsi esistente: se qualcosa non si pensa esistente, non è Io. L’Io dunque esiste come atto del pensare che esiste; è una sorta di loop. Per il Non-Io le cose sembrano diverse, poiché l’atto è quello dell’opporre: l’esistenza del Non-Io può essere riconosciuta soltanto con un atto di opposizione a sé, un cessare di porre che è al tempo stesso un trasporre.
Questo trasporre non può essere semplicemente un negare, perché altrimenti il non essere dell’Io sarebbe non-essere puro e semplice, un arresto dell’attività, e non si spiegherebbe la rappresentazione. Al contrario opporre è riconoscere un’altra attività attraverso la propria passività. Il Non-Io non è un opposto contraddittorio indeterminato, né tantomeno un opposto per privazione, né un semplice contrario: esso è un opposto correlativo. D’altra parte opporre non può significare creare; ciò è emergerà nel discorso sull’idealismo qualitativo e quantitativo: l’attività dell’Io non si limita da sé perché in quel caso non si spiegherebbe la determinatezza della rappresentazione.
Torniamo al ragionamento di Fichte. Il primo e il secondo principio sono ideali, adialettici, non richiedono la determinazione reciproca degli opposti: totalmente il primo (l’assoluta coincidenza di coscienza ed essere), parzialmente il secondo (fra gli atti dell’Io, indeducibile dall’atto del porre, c’è l’opporre, ma questo atto richiede comunque l’unità della coscienza25 oltre che il suo farsi vuota). Il terzo principio, che è reale, è invece pienamente dialettico: per spiegare la rappresentazione e l’azione, i termini opposti (Io e Non-Io) entrano in relazione e nessuno dei due può essere più assunto e definito al di fuori di questa relazione, senza il riferimento all’altro; emerge quindi la dialettica come logica in cui la relazione viene prima dei termini.
Dunque tanta attività è posta nell’Io, quanta ne è tolta al Non-Io; tanta attività è posta nel Non-Io quanta ne è tolta all’Io. Correlativamente all’attività dell’Io è posta la passività del Non-Io; correlativamente all’attività del Non-Io è posta la passività dell’Io: la passività è un quantum di realtà tolta26. È questo lo scambio reciproco di Io e Non-Io, in cui l’attività dell’uno è determinata dalla passività dell’altro e viceversa; tale scambio opera nella rappresentazione: in essa l’Io è tanto attivo (forma) quanto passivo (materia).
 
3. Le due attività e lo scambio. Uno sguardo d’insieme
Ora, a che cosa si deve la materia della rappresentazione nella sua determinatezza? A che cosa invece la forma? Per rispondere a queste domande Fichte chiama in causa due attività assolute dell’Io e del Non-Io come fondamento dello scambio. Non tutta la realtà di Io e Non-Io termina nella rappresentazione come sintesi di materia e forma, perché dell’una e dell’altra dobbiamo poter enunciare filosoficamente le condizioni. Abbiamo dunque:
 
1. le due attività;
2. lo scambio (la rappresentazione).
 
1 è condizione di 2, è la sua ratio essendi. Ma come vedremo e come in parte già è emerso, 2 è condizione di 2, perché non possiamo enunciare la presenza dell’attività del Non-Io se non a partire dal fatto indeducibile dall’Io dell’atto dell’opporre, a sua volta reso necessario per spiegare la materia della rappresentazione27; 2 è dunque la ratio cognoscendi di 1.
Le due attività vanno entrambe presupposte come fondamento dello scambio. Ora, realismo e idealismo, unilateralmente, vogliono fondare lo scambio, ossia la rappresentazione, in una soltanto di queste attività. Il realismo, che si limita ad assumere l’attività del Non-Io, ha però una difficoltà radicale: non riesce a enunciare questa sua propria condizione senza contraddirsi.
 
Ponete come primo caso, stante il semplice concetto di produrre effetti, che la limitazione dell’Io provenga esclusivamente dall’attività del Non-Io. Immaginate che nel momento A il Non-Io non eserciti un’azione sull’Io, allora nell’Io c’è tutta la realtà e sicuramente nessuna negazione e di conseguenza, stando a quanto detto sopra, nessuna realtà è posta nel Non-Io. Immaginate inoltre che nel momento B il Non-Io eserciti un’azione sull’Io con tre gradi di attività, allora, in virtù del concetto di determinazione reciproca, nell’Io sono eliminati tre gradi di attività e in loro luogo sono posti tre gradi di negazione. Ma in ciò l’Io si comporta in modo puramente passivo: i gradi della negazione sono senz’altro posti in esso, tuttavia sono anche semplicemente posti – posti per un qualche essere intelligente all’infuori dell’Io che osservi Io e Non-Io in quell’azione causale e che giudichi attenendosi alla regola della determinazione reciproca, e che non lo sono invece per l’Io stesso. A questo scopo sarebbe necessario che l’Io potesse paragonare il suo stato nel momento A con quello del momento B e distinguere i diversi quanta della sua attività nei due momenti: come sia possibile non è ancora stato mostrato. L’Io, nel caso supposto, sarebbe certamente limitato eppure non consapevole della sua limitazione. Per attenerci ai termini della nostra proposizione, l’Io sarebbe veramente determinato, ma non si porrebbe in quanto determinato, invece potrebbe porlo come determinato un qualche essere a lui esterno28.
 
La lunga citazione descrive la difficoltà del realismo di rendere ragione della cosa in sé, della causa non sensibile del fenomeno. Come posso dire che una realtà extrasoggettiva determina nel soggetto una rappresentazione? Chi è il testimone di questo rapporto causale in cui il Non-Io determinerebbe l’Io? Un altro soggetto? Certo allora non siamo più di fronte ad una realtà extrasoggettiva.
L’idealismo tuttavia non è in minore difficoltà:
 
Oppure ponete come secondo caso, stando al mero concetto di sostanzialità, che l’Io abbia la capacità di porre arbitrariamente in sé un quantum diminuito di realtà, in modo assoluto e indipendente da ogni causazione del Non-Io: il che è presupposto dall’idealismo trascendente e soprattutto dell’armonia prestabilita, la quale è un idealismo di questo tipo. […] ponete l’Io nel momento A con un’attività ridotta di due gradi e nel momento B, di tre gradi: è comprensibilissimo allora come l’Io possa giudicarsi limitato in entrambi i momenti e precisamente nel momento B come maggiormente limitato che nel momento A, mentre non si riesce affatto a capire in che modo l’Io possa riferire questa limitazione a qualcosa nel Non-Io ritenendolo causa di esso. Piuttosto è l’Io che dovrebbe considerarsi come causa di quella limitazione. Nei termini della nostra proposizione allora l’Io si pone come determinato, non però come determinato dal Non-Io29.
 
L’idealismo non riesce a spiegare perché questa rappresentazione e non un’altra, perché l’attività infinita dell’Io produttivo si segmenta in queste visioni, in questi suoni, in queste sensazioni tattili e così via. Fichte è chiaro nel dire che una produttività assoluta, come quella dell’armonia prestabilita, è una soluzione astrusa. Torneremo sul punto più avanti.
Ad ogni modo è chiaro che siamo di fronte a due attitudini filosofiche unilaterali: nella prima (idealismo) l’Io è determinato dal Non-Io, ma non si pone come determinato. Nella seconda (realismo) l’Io si pone come determinato, ma non come determinato dal Non-Io. Insomma l’idealismo fonda lo scambio reciproco di attività e passività nell’Io, l’idealismo nel Non-Io.
 
Se l’Io si pone come determinato, allora non è determinato dal Non-Io, se è determinato dal Non-Io, allora non si pone come determinato30.
 
Dire che l’Io si pone come determinato equivale a dire che dev’esserci da una parte un atto soggettivo, che per così dire, testimonii l’azione del Non-Io sul soggetto perché esso sia determinato; se entra in gioco il Non-Io, l’Io si deve porre come determinato: la sua azione causale sull’Io deve essere per l’Io stesso. Se così non fosse perderemmo il riferimento di ciò che viene saputo all’atto del sapere ed è su questa presunta immediatezza, su questa ingenuità pre filosofica che s’incaglia il realismo: esso assolutizza l’antefatto oggettivo della conoscenza, lo sottrae al riferimento al soggetto (o lo riferisce senza dirlo al soggetto della teoria stessa) e perciò non lo spiega.
D’altra parte l’Io è limitato dal Non-Io non autolimitato; non postulando quest’azione l’idealismo non riesce a spiegare come l’attività rappresentativa possa particolarizzarsi nei vari contenuti rappresentati.
Torniamo ora allo scambio, in cui ha luogo una determinazione reciproca di Io e Non-Io, nei termini di opposizione fra attività dell’uno e passività dell’altro: poste due attività sono poste due passività, in una limitazione reciproca. Tanta attività nell’Io, tanta passività nel Non-Io; tanta attività nel Non-Io tanta passività nell’Io; Io e Non-Io sono posti come attivi e passivi l’uno nei confronti dell’altro. La determinazione reciproca di Io e Non-Io secondo attività e passività è relativamente facile da pensare:
 
L’Io non può porre in sé alcuna passività senza porre attività nel Non-Io, eppure non può porre alcuna attività nel Non-Io senza porre in sé una passività31.
 
Tuttavia, come si è detto, al di là di questo circolo bisogna pensare alle due condizioni lo innescano, a quella reale e a quella ideale; devono essere poste le due attività assolute:
- quella del Non-Io che agisce sull’Io e che provoca la divisione quantitativa di Io e Non-Io secondo attività e passività;
- quella dell’Io che pensa questa azione originaria attraverso la propria autonegazione.
 
Si tratta delle tracce del secondo e del primo principio nel terzo: infatti l’opporre è indeducibile dal porre e tuttavia si tratta di un atto dell’Io. Il Non-Io non è generato ontologicamente dall’Io, ma deve comunque essere da esso saputo; l’atto dell’opporre contiene entrambe queste caratteristiche: attraverso un togliere realtà a me, sapere qualcosa che agisce su di me come causa di ciò che rappresento.
Ora, come si è visto, queste due attività devono rimanere per così dire in parte al di qua della determinazione reciproca che esse rendono possibile (il circolo, lo scambio di attività e passività), perché devono essere riconoscibili, se vogliamo utilizzare la terminologia kantiana, come condizioni distinte dal condizionato: l’una è l’Io in generale, coscienza, intelligenza e determina la forma32; l’altra è il Non-Io e determina la materia33.Così sintetizza Fichte le due attività assolute:
 
[…] nell’Io è posta un’attività alla quale non è contrapposta nel Non-Io alcuna passività e nel Non-Io un’attività a cui nell’Io non è contrapposta passività alcuna34.
 
Perciò da una parte abbiamo la determinazione reciproca all’interno della rappresentazione:
 
Ogni attività dell’Io determina una passività del Non-Io e viceversa secondo il concetto di determinazione reciproca35.
 
Dall’altra abbiamo le due attività assolute che della rappresentazione sono condizioni:
 
Una certa attività nell’Io non determina alcuna passività nel Non-Io e una certa attività del Non-Io non determina alcuna passività nell’Io36.
 
In entrambi dev’esserci un’attività che non sia determinata dalla passività dell’altro37.
 
L’attività di Io e Non-Io in parte finisce nello scambio, in parte resta in essi.
Fra lo scambio e le sue due condizioni c’è un rapporto dialettico:
 
[…] con il passare è posto l’ingranarsi dei termini dello scambio. Viceversa, mediante l’ingranarsi dei termini dello scambio è posto il passaggio: non appena essi sono posti nel loro ingranarsi, il passare è necessariamente avvenuto. Nessun ingranarsi, nessun passaggio; nessun passaggio nessun ingranarsi: tutt’e due sono un’unica e medesima cosa, distinguibili semplicemente nella riflessione. […]I termini dello scambio vengono posti in quanto tali esclusivamente dal necessario passaggio ed esclusivamente essendo posti soltanto in quanto tali sono posti in generale; viceversa non appena i termini dello scambio reciproco sono posti in quanto tali è posta l’attività che passa e deve passare38.
 
Cosa vuol dire concretamente tutto ciò?
1. L’azione del Non-Io sull’Io è comunque affermata dall’Io (determinazione secondo la forma). L’attività del Non-Io è un non porre sé dell’Io.
 
Secondo la mera forma, l’attività che va presupposta in ordine alla possibilità dello scambio reciproco postulato nel concetto di produrre effetti è un passare, un porre mediante un non porre: per il fatto che (secondo un certo riguardo) non è posta, (secondo un cert’altro riguardo) è posta. Con tale attività della forma dev’essere determinata la materia dello scambio reciproco39.
 
Non si può enunciare la cosa in sé senza dar conto del fatto che la si sta enunciando. Il Non-Io assoluto può essere affermato e pensato sul piano logico solo come termine opposto all’Io, come sua autonegazione.
 
2. Questo però non vuol dire che l’Io genera ontologicamente il Non-Io. Vi è infatti una materia dello scambio reciproco che è spiegabile sulla base di un’attività assoluta del Non-Io. La citazione prosegue così:
 
Questa [la materia dello scambio reciproco] era un’attività indipendente del Non-Io, mediante la quale soltanto era reso possibile quel termine da cui muoveva lo scambio reciproco, una passività dell’Io40.
 
3. Queste due attività assolute, come abbiamo visto, si relazionano l’una all’altra. La prima agisce sulla seconda come un saperla attraverso la propria autonegazione, la seconda agisce sulla prima come un produrre la determinatezza della rappresentazione.
 
4. Esse determinandosi a vicenda innescano la rappresentazione, intesa come scambio reciproco. Le due attività rendono possibile lo scambio, ne sono condizioni di possibilità, ma al tempo stesso esse si rendono visibili soltanto per lo scambio che innescano: la condizione, reale e ideale, non è visibile senza il condizionato, come del resto il condizionato non ci sarebbe e non sarebbe pensabile senza la condizione.
Ecco allora il senso della proposizione sopra enunciata: l’Io si pone come determinato dal Non-Io. Tale proposizione è intrinsecamente dialettica. Se affermiamo che è l’Io che si limita o se affermiamo piuttosto che esso è limitato dal Non-Io siamo di fronte a due unilateralità. La prima è tipica dell’idealismo, la seconda è tipica del realismo. Ebbene, entrambe le affermazioni sono vere, ma solo nel riferimento dell’una all’altra. L’Io limita sé stesso perché l’attività del Non-Io è posta dall’Io mediante un atto di opposizione che è appunto un atto dell’Io; ma questo atto di opposizione è posizione di un’attività autonoma, apertura di uno spazio altro, ritrazione: lì, non è posto più l’Io; una volta compiuto l’atto di opposizione esso deve valere sul serio.
Che l’atto di opposizione non sia creazione ma ritrazione che fa spazio ad altro dall’Io (il Non-Io, appunto) è testimoniato, come si è visto, dalla difficoltà che ha l’idealismo nello spiegare la determinatezza del limite: perché il confine dell’attività dell’Io, il punto che limita la rappresentabilità infinita in una rappresentazione determinata è quello e non un altro? Insomma perché questa rappresentazione e non un’altra? Ecco che l’idealismo dà risposte filosoficamente non accettabili, sia nella forma dell’idealismo qualitativo, sia nella forma dell’idealismo quantitativo.
L’idealismo qualitativo o assoluto è una spiegazione che assume l’attività dell’Io come fondamento esclusivo dello scambio, della determinazione reciproca fra attività e passività di Io e Non-Io: il Non-Io c’è nella misura in cui l’Io si determina come passivo; il fatto che l’Io ponga il suo essere determinato vuol dire che genera il suo limite, l’oggetto, e che, così facendo, si autolimita. Nell’idealismo qualitativo il Non-Io è il limite ideale generato dall’Io.
Ora, questa posizione, che Fichte stesso rifiuta, è proprio quella che tradizionalmente gli viene attribuita: in questo sistema le rappresentazioni, dice il filosofo, si sviluppano dall’Io in modo “ignoto e inattingibile41; l’attività rappresentativa non ha di per sé la ragion sufficiente per segmentarsi in un contenuto, in quella fenomenalità piuttosto che in un’altra. In altri termini questo idealismo non fa seriamente i conti con il secondo principio, il cui significato autentico è un’autosoppressione logica dell’attività dell’Io che deve essere presa sul serio. Dall’Io=Io, dall’atto del rappresentare in quanto atto circolarmente volto su sé stesso non viene alcuna ragione del contenuto rappresentato. E se si dice che l’Io si autolimita non si spiega perché si limiti così e non altrimenti. L’autonegazione dell’Io mette capo ad un opposto contraddittorio, ma non ad un opposto contrario determinato ossia ad una regione logica del tutto indeterminata. È proprio la fatticità della rappresentazione che ci mostra l’atto dell’opporre non come un semplice cessare dell’attività, ma come un riconoscere un’attività Altra. Ecco perché in Fichte Io e Non-Io sono opposti correlativi: lo svuotarsi dell’Io è un aprire lo spazio in cui transita l’attività del Non-Io.
C’è poi l’idealismo quantitativo, un sistema “ancora più astratto” di quello qualitativo42; esso assume la limitatezza dell’Io come un dato immediato. Per quanto esso parta da un fondamento per spiegare la rappresentazione (la limitazione reciproca di Io e Non-Io), mentre il primo la lascia inspiegata, questo fondamento è semplicemente assunto e non giustificato logicamente a partire dall'atto del porre e dall’atto dell’opporre. Insomma l’idealismo quantitativo parte dal terzo principio senza assumere la sua genesi dialettica dal primo e dal secondo, parte dallo scambio senza vedervi l’effetto delle due attività. Esso si risolve in una tautologia: «l’Io è finito perché è finito».43 Il finitizzarsi dell’attività assoluta è sparato con un colpo di pistola, questa posizione non rende ragione di sé stessa, si presenta come un’assunzione arbitraria.
Non meno astratti si rivelano le due forme di realismo. Il realismo qualitativo o assoluto assume l’attività assoluta del Non-Io come fondamento esclusivo dello scambio, ma non assume il ruolo dell’Io nel momento in cui enuncia l’assolutezza del Non-Io; ma come può essere enunciata l’attività assoluta del Non-Io sull’Io senza che esso divenga per l’Io in forza di tale enunciare? L’enunciazione di un’attività assoluta del Non-Io, in quanto enunciazione, fa venir meno la sua assolutezza: a dire “c’è una realtà che precede la coscienza” è pur sempre una coscienza; se si dà una realtà assoluta, in sé, nel momento in cui è enunciata diventa per l’Io44. Il che è come dire che il realismo qualitativo è infondato perché non riesce a dire il suo presupposto realista senza contraddirsi, senza cioè presupporre uno spettatore.
Il realismo quantitativo prende atto che una limitazione si dà all’Io, che vi è in esso una determinazione che in esso è posta non per opera sua, ma non la spiega:
 
V’è una determinazione nell’Io, il cui fondamento non è da porre nell’Io stesso; per il realista quantitativo ciò è un fatto: l’indagine sul fondamento di questa determinazione in sé gli è preclusa, vale a dire essa per lui c’è in assoluto e senza alcuna ragione o fondamento45.
 
Il realismo quantitativo insomma, a parti invertite, si imbatte nella stessa difficoltà dell’idealismo quantitativo.
La discussione sui quattro possibili sistemi gnoseologici mostra insomma come sia impossibile fare a meno di considerare una duplice attività indipendente46, in rapporto di determinazione reciproca con lo scambio.
 
Possiamo riassumere tutto questo così.
L’idealismo qualitativo fonda lo scambio esclusivamente nell’attività assoluta dell’Io.
Il realismo qualitativo fonda lo scambio esclusivamente nell’attività assoluta del Non-Io.
L’idealismo quantitativo e il realismo quantitativo si limitano allo scambio senza spiegarlo in relazione alle due attività.
 
4. Le due attività e lo scambio. Analisi dei passaggi dialettici.
Abbiamo dunque quattro termini, di cui occorre esplorare il nesso dialettico.
L’attività dell’Io (attività secondo la forma).
L’attività del Non-Io (attività secondo la materia).
Attività dell’Io correlata nello scambio alla passività del Non-Io.
Attività del Non-Io correlata nello scambio alla passività dell’Io.
Nella sezione E Fichte mostra come essi entrino in relazione.
1. Un’attività indipendente (2) è determinata da un reciproco agire e patire (3 e 4).
2. Un reciproco agire e patire (3 e 4)sono determinati da un’attività indipendente (1).
3. Entrambi sono determinati reciprocamente.
 
Analizziamoli, sia pur sommariamente, punto per punto.
1. Un’attività indipendente è determinata da un reciproco agire e patire. Ponendo attività in uno dei due termini, è posta la passività nell’altro47; se sopprimo due gradi di attività nell’Io, li pongo nell’attività del Non-Io. Ora l’equilibrio specifico di attività e passività è posto in un terzo termine (X), che ne è il fondamento di relazione48: abbiamo visto infatti che l’attività assoluta dell’Io non spiega la determinatezza del contenuto rappresentativo. La ragione per cui una passività è posta nell’Io non può dunque essere che il Non-Io49. Scrive Fichte in modo perspicuo:
 
Un’attività del Non-Io indipendente dallo scambio reciproco, già presupposta per la possibilità di quest’ultimo, è il fondamento reale della passività50.
 
Questa prima sequenza argomentativa ci mostra dunque che tramite lo scambio è posta l’attività indipendente del Non-Io: un’attività indipendente è determinata in sé stessa, è posta nella sua determinatezza, è riconoscibile come attività del Non-Io, tramite il reciproco agire e patire, che esige appunto un fondamento reale di divisione.
In altri termini lo scambio di attività e passività, ossia l’attività diminuita, che si rende evidente dall’indeducibilità dall’Io del contenuto preso nella sua determinatezza, mostra la necessità di porre l’attività del Non-Io. Posta la contingenza della materia rappresentativa rispetto all’Io, è posta la necessità del suo fondamento nel Non-Io.
 
2. Un reciproco agire e patire sono determinati da un’attività indipendente. Se nella prima sequenza abbiamo messo in evidenza il fondamento materiale dello scambio, ossia l’attività del Non-Io, qui ora emerge il fondamento della forma51: si tratta chiaramente dell’attività dell’Io52.
Prima avevamo riferito il contenuto della rappresentazione, la materia, all’attività indipendente del Non-Io; ora invece emerge il ruolo dell’Io nell’essere cosciente di quella divisione nella rappresentazione operata dal Non-Io. Ma come può enunciare questa condizione extrasoggettiva della rappresentazione? Lo abbiamo già visto: con la dialettica, autonegandosi; l’Io trasferisce così attività sul Non-Io53. Se noi riflettiamo sul fenomeno e sulla sua condizione materiale, entrambi diventano per noi in virtù di un atto dialettico originario, quello dell’opporre, che, per quanto incondizionato, è pur sempre un atto dell’Io, un atto che, lo ricordiamo, ha scavato all’interno dell’Io un’apertura. Vi è dunque, al di qua dell’attività assoluta del Non-Io e del suo ruolo causale nei confronti della rappresentazione, un’attività dell’Io che deve poterlo pensare, grazie al fatto di aver posto quel fondamento mediante un atto di opposizione a sé54. Non si può spiegare la rappresentazione esclusivamente a partire dalla cosa in sé, da una realtà extrasoggettiva, perché essa è inenunciabile nella sua assolutezza; deve essere fornita la condizione della sua enunciabilità e tale condizione dialettica, risiede nell’atto per cui l’attività dell’Io oppone dialetticamente il Non-Io. Nell’ordine del pensiero ciò da cui si parte è comunque un’assoluta attività dell’Io, che ad un certo punto smette di porre sé stessa e oppone il Non-Io come fondamento della sua passività.
 
3. Entrambi sono determinati reciprocamente. Lo scambio non ci sarebbe se non ci fossero le due attività, ma esso è al tempo stesso il luogo in cui esse si alternano, poiché proprio in esso è il punto in cui s’innesca la prima e si disinnesca la seconda. Possiamo riprendere quanto sopra accennavamo: le due attività sono ratio essendi dello scambio e lo scambio ratio cognoscendi delle due attività. Dunque se non ci fossero le attività non ci sarebbe lo scambio; ma è lo scambio l’origine a partire dalla quale l’attività dell’una cede all’attività dell’altra ed è esattamente da quel punto che esse sono discernibili. Scrive Fichte:
 
L’attività, quale unità sintetica, è un passare assoluto; lo scambio reciproco un ingranarsi assoluto completamente determinato da sé stesso. Che la prima determini l’ultimo significherebbe: l’ingranarsi dei termini dello scambio vien posto semplicemente per il fatto che vi è passaggio; che l’ultimo determini la prima significherebbe: l’ingranarsi dei termini dello scambio viene posto unicamente per il fatto che vi è passaggio; che l’ultimo determini la prima significherebbe: al modo in cui i termini ingranano così necessariamente l’attività deve passare dall’uno all’altro55.
 
Qui dobbiamo vedere come due cerchi che si toccano in un punto, come un 8 rovesciato; immaginiamo che il primo faccia un giro completo su sé stesso in senso antiorario fino al punto X e che da tale punto s’inneschi il movimento del secondo in senso inverso: il movimento dei due cerchi rappresenta le due attività, il punto di contatto lo scambio. Lo scambio mostra che Io e Non-Io mantengono sempre, per così dire, la loro giurisdizione: la passività dell’Io mostra l’attività del Non-Io, in quanto termine opposto a sé dall’Io: l’opporre il Non-Io è pur sempre un atto dell’Io, ma con ciò il Non-Io è posto. Molto efficacemente Fichte parla della materia come di un conduttore:
 
L’ultima attività offre l’X sopra cercato (pag.271) , che è contenuto in entrambi i termini dello scambio e può essere contenuto soltanto in tutt’e due e non in uno solo; ciò ci impedisce di accontentarci soltanto di un termine (la realtà o la negazione) costringendoci invece a porre insieme l’altro, perché rende evidente l’incompiutezza dell’uno senza l’altro – quell’X a cui procede l’unità della coscienza, e deve necessariamente procedere se in essa non deve sorgere alcuno iato, per così dire il conduttore di essa. La prima attività è la coscienza stessa, in quanto essa procede a questo X al di sopra dei termini dello scambio reciproco – è unica sebbene scambi alternativamente i suoi oggetti, cioè questi termini, e deve necessariamente scambiarli, alternandoli reciprocamente, se deve essere unica56.
 
Abbiamo dunque da una parte le due attività che pongono lo scambio, dall’altra lo scambio che pone le due attività. Fichte precisa i segmenti di questa terza sequenza: α. L’attività indipendente della forma determina quella della materia; β. La forma e la materia si determinano all’interno dello scambio; γ. Lo scambio in quanto unità sintetica determina l’attività come unità sintetica.
 
Seguiamo questa ulteriore scansione
α. L’attività indipendente della forma determina quella della materia. Accade un atto di opposizione del Non-Io che comunque è per l’Io: i due termini passano l’uno nell’altro. Come più volte detto senza il Non-Io non si spiega la materia della rappresentazione e dunque la passività dell’Io in quanto determinata così e non altrimenti; l’Io però è anche condizione di enunciazione del Non-Io. Fra i due termini vi è un passare assoluto, un fatto, del cui carattere di fondamento primo non spiegabile ulteriormente Fichte parla apertamente:
 
Il passare stesso fonda ciò in cui si passa, il passare diviene possibile puramente e semplicemente passando. Che l’ultimo [l’attività secondo la materia] determini la prima [l’attività secondo la forma] significherebbe: ciò in cui si passa fonda il passare quale azione; per il fatto che quello è posto, è posto immediatamente il passare stesso. […] Il passare è possibile perché di fatto accade ed è un’azione assoluta, senza altra determinazione e senz’altra condizione al di fuori di sé stesso.57
 
Il fatto assoluto è dunque la determinazione reciproca delle due attività.
 
β. La forma e la materia si determinano all’interno dello scambio. Attività è passività di Io e Non-Io, come detto più volte, sono correlati, ingranano l’una nell’altra58: tanti gradi di passività nell’Io, altrettanti di attività nel Non-Io e viceversa. I termini, forma e materia, ingranano (eingreifen), l’uno prende (greifen) l’altro.
 
γ. Lo scambio in quanto unità sintetica determina l’attività come unità sintetica. Abbiamo qui due totalità che sono in un rapporto reciproco. Non ci sarebbe una forma e una materia della rappresentazione se, come abbiamo visto, le attività non passassero l’una nell’altra, se non vi fosse un atto di opposizione del Non-Io, in cui l’Io traspone attività nel Non-Io, e se il Non-Io non retroagisse sull’Io determinandone la materia: l’unità sintetica delle due attività fonda lo scambio. Ma al tempo stesso questo atto di opposizione è assoluto, è pensabile cioè perché la rappresentazione di fatto è così: lo scambio fonda l’unità sintetica delle due attività. Fichte chiama passare il transito da un’attività all’altra e ingranarsi l’accordo di forma e materia in una rappresentazione determinata. Perciò egli può scrivere:
 
Nessun ingranarsi, nessun passaggio; nessun passaggio, nessun ingranarsi: tutt’e due sono un’unica e medesima cosa, distinguibili soltanto nella riflessione. […] Così l’attività ritorna in sé stessa a mezzo dello scambio reciproco e lo scambio reciproco ritorna in sé stesso tramite attività. Tutto riproduce sé stesso e non v’è iato possibile: da ogni termine si è spinti a tutti gli altri. L’attività della forma determina quella della materia, questa la materia dello scambio reciproco, questa la sua forma, la forma di questa l’attività della forma e così via. L’azione ritorna in sé con un circolo. L’intero circolo è posto in assoluto. È perché è, e di esso non può indicarsi fondamento più alto.59
 
Difficilmente si potrà trovare in queste parole, non prive di una loro solennità, un solo appiglio per la concezione secondo cui il Non-Io sarebbe ontologicamente generato dall’Io. Il fondamento primo è il transito reciproco fra l’attività dell’Io e quella del Non-Io, che si scarica in una rappresentazione costituita secondo un ingranarsi reciproco di forma e materia, il quale a sua volta è condizione di conoscibilità di quel transito. Il fondamento della scienza, nella sua parte teoretica e nella sua parte pratica, è questo circolo.
 
5. L’immaginazione produttiva.
Finora si è visto che il fondamento dell’intera serie teoretica sta in un passaggio fra due attività, quella dell’Io e quella del Non-Io, correlate e inscindibili, a loro volta determinanti un ingranarsi reciproco all’interno della rappresentazione fra attività e passività, forma e materia, e a loro volta determinate da esso. Niente a che vedere dunque con una creazione del Non-Io da parte dell’Io, piuttosto con una posizione logico dialettica dei due termini, la quale si innesca a partire da un incondizionato atto di contrapporre, logicamente indeducibile dall’atto del porre assoluto60.
Ora, si dirà, la dottrina dell’immaginazione produttiva fichtiana, in cui si dice espressamente che il Non-Io è un prodotto di essa, non contraddice quanto appena sostenuto? Se leggiamo attentamente il testo fichtiano la risposta è negativa.
L’immaginazione produttiva infatti si innesca a partire da un urto che l’attività assoluta dell’Io subisce in un certo punto C; questo urto, dice Fichte, accade (gescheht), non è posto dall’Io61. È un evento assoluto, di cui l’Io non è fondamento; esso è la condizione di possibilità dell’atto di contrapporre, anch’esso quanto alla forma, come si è visto, incondizionato.
Prima di analizzare dettagliatamente, nell’Appendice che segue, i singoli passaggi con cui Fichte deduce l’immaginazione produttiva, per non disperderci in un ragionamento complesso e talvolta tortuoso, vediamo il senso complessivo del discorso e i nodi argomentativi principali.
 
1. Fichte sceglie come inizio l’attività assoluta dell’Io, che dal punto A si estende, virtualmente all’infinito62.
2. Ora questa attività subisce un urto nel punto C63.
3. Essa viene così riflessa nella direzione che va da C ad A64.
4. Questa attività riflessa verso A deve reagire fino a C65.
5. Questa attività che di nuovo da A va verso C è l’intuizione66.
6. L’attività però prosegue anche oltre C 67, verso infinito.
7. Questa attività pone un intuìto al di là di C ed è dunque immaginazione68.
8. È questa seconda attività che, ponendo l’intuìto, determina dialetticamente l’attività intuente69, riflettendola e permettendole di arrivare alla coscienza. Avviene qui una seconda riflessione da non confondere con la prima, che origina dall’urto70.
9. Questo intuìto prodotto dall’immaginazione è il Non-Io71.
10. L’intuìto è determinato dall’intelletto e dalla sua azione fissante72.
11. L’immaginazione è un’attività che si libra fra direzioni contrapposte73, al di qua e al di là del limite, fra Io finito ed Io infinito.
 
Già da questo primo schema, di cui fra un attimo si vedranno più nel dettaglio i passaggi argomentativi, emerge un punto fondamentale: la radice di tutte le facoltà conoscitive è l’immaginazione. L’immaginazione riveste di contenuto ciò che è al di là del limite, per l’attività intuitiva che essa stessa è. L’immaginazione è dunque all’origine della distinzione tra forma e materia della conoscenza. Tale materia non è l’effetto della cosa in sé come causa non sensibile della sensazione, secondo la formula dell’Estetica Trascendentale kantiana, irrigidita dall’interpretazione di Reinhold, non è mera ricettività, ma attività inconscia. L’attività produttiva, che va oltre il limite, e l’intuizione, che intuisce ciò che da esso viene, non sono altro che il gioco dell’immaginazione con sé stessa. In altri termini immaginazione che va oltre il limite e intuizione che intuisce ciò che da esso viene sono la stessa cosa. Il circolo sopra emerso è insomma l’immaginazione.
Questo vuol dire che per Fichte mondo materiale è creato dallo spirito? Niente affatto. E non solo per le ragioni sopra esposte a proposito dell’indeducibilità del porre e delle critiche a idealismo qualitativo e idealismo quantitativo, ma anche per questa: il gioco dell’immaginazione con sé stessa, in cui essa dà luogo alla forma e alla materia della conoscenza, ha una precondizione, una regola senza il quale non potrebbe essere giocato: l’inspiegabile trauma dell’urto e la riflessione dell’attività.
L’immaginazione produttiva, il suo librarsi al di qua e al di là del limite, entra in gioco solo dopo l’urto e non è all’origine di questo evento assoluto e privo di fondamento nell’Io. La prima riflessione, l’evento dell’urto, non va confusa con la seconda, che, anzi, ne è la condizione74: l’immaginazione va oltre il limite, pone il Non-Io come termine contrapposto dell’attività intuente che essa stessa è, ma solo in quanto innescata dalla prima riflessione.
Viceversa nel Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling il limite è posto dall’Io stesso, che si rende finito proprio per poter essere infinito.
 
Il fatto che l’attività originariamente infinita dell’Io limiti sé stessa, cioè si trasformi in un’attività finita (nell’autocoscienza), è concepibile se si può dimostrare che l’io in quanto io possa essere illimitato solo nelle misura in cui è limitato e, inversamente, che possa essere limitato quale io solo nella misura in cui è illimitato75.
 
Il carattere assoluto dell’urto non è messo in discussione, anzi è confermato e rilanciato dalla parte pratica del Fondamento in molti passi indicativi di questa indeducibilità 76. Questo che segue sembra particolarmente chiaro:
 
Ora, l’attività dell’Io procedente all’infinito dev’essere però urtata in un qualche punto e respinta in sé stessa e l’Io non deve saturare l’infinità. Che ciò accada come fatto non è in alcun deducibile dall’Io, com’è stato ricordato più volte; invece si può dimostrare la necessità che tale fatto accada, se un’effettiva coscienza reale dev’essere possibile77.
 
Nessuna traccia qui dell’urto come evento assoluto. Qui il movimento è tutto dell’autocoscienza. In Fichte vi è invece un punto originario di riflessione assoluto, che l’autocoscienza è chiamata a riferire a sé, ma mai a sopprimere.
La parte pratica su questo non introduce niente di nuovo rispetto alla parte teoretica, salvo la mobilità del punto sul quale l’attività dell’Io viene limitata. È così che mentre il principio della parte teoretica è: l’Io si pone come determinato dal Non-Io, quello della parte pratica è: l’Io si pone come determinante il Non-Io. Lo sforzo è in grado di spostare il confine sul quale l’attività infinita dell’Io è stata limitata, ma certo mai di sopprimerlo, perché così sopprimerebbe sé stesso.
 
L’io è finito perché dev’essere delimitato, però in questa finitezza è infinito, perché il confine può essere spostato sempre più in là, nell’infinito. È infinito secondo la sua finitezza e finito secondo la sua infinità78.
 
Questa ridefinizione del confine è continua, poiché l’attività dell’Io, una volta arrestata, può essere ripristinata:
 
[…] quest’attività può essere posta come ripristinata soltanto nella misura in cui è stata arrestata e può essere posta come arrestata soltanto nella misura in cui è posta come ripristinata79.
 
Poste queste precisazioni, torniamo all’immaginazione; essa si situa in un ideale terzo tempo: in un primo tempo vi è l’attività assoluta dell’Io, non ancora riflessa; in un secondo tempo l’urto che la riflette; infine il suo gioco in cui al di qua del limite intuisce e al di là produce.
L’immaginazione fichtiana crea il reale? Non direi, direi piuttosto che lo inventa, in modo non dissimile a ciò che nelle scienze cognitive va oggi sotto il nome di costruttivismo; del resto esso si presenta continuatore del trascendentalismo kantiano80.
Vale la pena forse soffermarsi su questo punto: per il costruttivismo la concordanza di una cognizione percettiva, di cui un essere organico sia in possesso, con la realtà, insomma la verità, non è un rispecchiamento; le cognizioni non rappresentano la realtà esterna, ma la inventano. Questa realtà immaginata è in grado di innescare comportamenti più o meno efficaci81, che l’ambiente sanziona evolutivamente. L’organismo sarebbe perciò un circuito chiuso su sé stesso, che immagina la realtà per una sorta di omeostasi cognitivo-comportamentale, in cui, attraverso comportamenti efficaci, si riesce a preservarlo dalle perturbazioni dell’ambiente82. Perciò, quando crediamo di percepire l’esterno, saremmo in realtà noi che lo inventiamo: l’ambiente non farebbe che sollecitarci di volta in volta ad una invenzione cognitiva, in cui è in gioco non l’“essere adeguato” all’esterno, ma l’“essere efficace”, non il piano veritativo, ma un piano creativo-funzionale. Insomma l’occhio del costruttivismo radicale è introflesso, rivolto ad un processo inventivo che avviene all’interno dell’organismo e che ingrana con l’esterno soltanto per via dei comportamenti che innesca.
Ora il piano filosofico del discorso di Fichte non è chiaramente l’adattamento all’ambiente, ma un idealismo pratico in cui l’agire sopravanzi ciò che è meramente posto, in cui l’Io si ponga come determinante il Non-Io; ciò avviene nella seconda parte del Fondamento. Nonostante la distanza fra i due orizzonti, il richiamo al costruttivismo può essere utile a mettere a fuoco lo statuto dell’immaginazione fichtiana: essa è radice di tutte le facoltà conoscitive, compreso l’intelletto, produce la materia della conoscenza, è invenzione, è sguardo introflesso dell’Io. Ma questo statuto inventivo dell’immaginazione non vuol dire, almeno nel Fondamento del 1794, produzione dal nulla della materia da parte di uno spirito assoluto. Assoluto, nel senso di non spiegabile, di non generabile logicamente, insomma di fondamento non suscettibile di fondazione egologica, è, oltre all’attività dell’Io libero, l’evento dell’urto.
L’immaginazione a seguito di questo urto, si lancia in un gioco continuo: l’intuìto si presenta all’intuizione, in un confine ben saldo fra i due. Ma questo confine l’immaginazione lo ha già inconsciamente oltrepassato, scaricandosi in un prodotto che essa, tornata entro il confine e divenuta intuizione, tramite l’intelletto determina. L’intelletto è per così dire il momento apollineo dell’immaginazione, che perciò al di qua del limite si configura come intuizione di forma determinate; ma al di là del limite l’immaginazione è fucina dionisiaca di fenomenicità impermanente. L’immaginazione gioca con sé stessa, al di qua e al di là del limite, come intuizione e produzione. Se l’immaginazione è questo gioco di oltrepassamento, l’urto è ciò che ne ha stabilito le regole che lo rendono possibile.
 
APPENDICE. DEDUZIONE DELL’IMMAGINAZIONE
Diamo ora uno schema più dettagliato dei passaggi argomentativi attraverso cui avviene la deduzione dell’immaginazione.
 
1. Vi è un’attività assoluto dall’Io che subisce un urto e che viene riflessa. L’urto accade non è logicamente dedotto dall’autoposizione dell’Io83. Vi è dunque un’attività originaria che da A va a C e un’attività riflessa che da C torna ad A.
 
2. Il fondamento e la ragione di quest’urto stanno nel Non-Io84, che viene così opposto.
 
3. L’attività riflessa innesca una nuova reazione, un’attività dell’Io da A a C85.
 
4. Questa seconda attività da A a C l’immaginazione; essa si situa fra due attività di verso opposto86.
 
5. Lo stato dell’Io in quanto, si situa fra A e C, il segmento iniziale di questa seconda attività, che resiste a quella che era stata riflessa da C ad A è l’intuizione87.
 
6. Tale attività non si limita al suo primo segmento e procede anche oltre C, in una direzione volta virtualmente ad infinito88.
 
7. L’Io si pone come intuente, come attivo89.
 
8. Ma questo è possibile solo se si contrappone qualcosa di intuìto90.
 
9. Tale intuìto è Non-Io91.
 
10. Tale intuìto è prodotto in modo inconscio92.
 
11. L’intuìto inconsciamente prodotto è opera dell’immaginazione, che ha oltrepassato il limite in C.93
 
12. L’Io si ascrive così un’attività intuente94.
 
13. Tale attività intuente (il primo segmento) ha direzione verso C e resiste all’opposta direzione verso A95.
 
14. Questa attività intuente, per poter arrivare alla coscienza deve essere riflessa96.
 
15. Abbiamo quindi una difficoltà: c’è già un’attività riflessa, quella cioè che seguiva l’urto; le due riflessioni non vanno confuse97. Questo punto è fondamentale ai fini dell’interpretazione che qui si sostiene. L’attività è riflessa – lo si vedrà – dall’intuìto prodotto dall’immaginazione. Ma l’immaginazione, come si è visto ai punti 3 e 6, è preceduta dall’evento assoluto e infondato dell’urto. L’urto non è un prodotto dell’immaginazione, ma la sua condizione di possibilità.
 
16. La prima attività è riflessa da un urto impresso dall’esterno, questa dall’assoluta spontaneità98, ossia dall’immaginazione che, al di là del limite, si scarica in un contenuto fenomenico.
 
17. Ora è chiaro in concreto come avvenga la dialettica fra intuente ed intuìto, che permette la distinzione e la correlazione di entrambi99.
 
18. L’intuizione è un librarsi dell’immaginazione fra direzioni contrastanti100. Punto importante anche questo: intuire e immaginare sono sostanzialmente la stessa cosa.
 
19. L’immaginazione non può librarsi più a lungo perché con ciò l’intuizione sarebbe completamente annientata101. Anche questo è un punto rilevante. Se l’immaginazione non tornasse al di qua del limite essa non potrebbe mai essere intuizione, si perderebbe in una sregolata produzione di forme. Si potrebbe, con qualche forzatura, applicare questa concezione fichtiana alla psicosi, intesa proprio come pericolo di un collasso strutturale del principio di realtà.
 
20. L’operazione che compie l’intuizione è di tipo fissante. Ciò che proviene dall’al-di-là del limite viene determinato ed è questo il prodotto dell’immaginazione102.
 
21. L’operazione fissante è opera dell’intelletto, una facoltà in cui il mutevole permane (Verstand)103. Se l’intuizione è un segmento dell’immaginazione, l’intelletto è una capacità operativa interna all’intuizione. Senza questa capacità essa sarebbe risospinta nell’al-di-là del limite e niente avrebbe mai forma. L’intelletto è per così dire il momento apollineo dell’immaginazione, che perciò al di qua del limite si configura come intuizione; al di là del limite l’immaginazione è fucina dionisiaca di fenomenicità impermanente.
 
22. Senza l’intelletto non c’è realtà104. Il vero principio di realtà è dunque l’intelletto. Senza di esso, l’immaginazione sregolata non consolida alcun prodotto.
 
23. La seconda riflessione non avviene per via di un’attività resistente, ma per un’attività sic et simpliciter, ossia quella dell’immaginazione produttiva105.
 
24. L’attività intuente è dunque limitata dall’attività assoluta che agisce nella riflessione.
 
25. Un prodotto è posto oltre C, ossia il Non-Io per via dell’immaginazione106. Essa riempie di fenomenalità questo spazio vuoto oltre C.
 
26. L’attività intuente è tenuta ferma dall’intelletto. Senza ciò le due attività si annullerebbero107. Se non si può distinguere più fra attività intuente ed intuìto, il limite fra soggetto e mondo salta, in un’esperienza di fluidità. Anche qui un parallelo con la psicosi può essere utile: senza il principio di realtà scompare la distinzione stessa fra l’interno e l’esterno; le allucinazioni che lo psicotico vive come esterne sono proiezioni e investimenti che provengono dall’esterno.
 
27. Questa attività intuente va da A a C; essa sta nel limite108.
 
28. Essa si lascia regolare dall’intelletto, nel senso che può anche riprodurre quanto da esso fissato. Siamo qui nell’immaginazione riproduttiva kantiana109.
 
29. L’intuente deve determinarsi come attività110.
 
30. Ciò avviene perché, come si è visto, gli si contrappone l’attività dell’immaginazione che riviene da C111.
 
31. Essa riviene sotto forma di prodotto, come intuìto112.
 
32. L’attività produttiva oltrepassa C e si stende all’infinito113.
 
33. Questa contrapposta attività è intuita come attività contrapposta, ossia come Non-Io114.
 
34. Questo intuìto è determinato da un non intuìto, ossia dall’attività produttiva inconscia115.
 
35. È così che un Non-Io intuìto si trova al di là del limite116.
 
36. Il rapporto tra i due come sempre è dialettico: nessun intuìto nessun intuente e viceversa117.
 
37. L’intuente è contrapposto ad un’attività oggettiva, l’immaginazione appunto118. È la prima volta che Fichte chiama questo segmento dell’immaginazione attività oggettiva. Il termine sarà poi recepito nel Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling.
 
38. L’attività oggettiva è determinata dall’attività assoluta119. Essa è il suo fondamento reale. Senza l’attività iniziale nessuna riflessione dell’immaginazione sull’intuizione.
 
39. L’attività in generale non è determinata da quella oggettiva se non dal termine suo contrapposto, la passività120. L’intuizione, come passività dell’io, non è altro che la reazione alla riflessione della sua attività.
 
40. Entrambe si determinano a vicenda, nel senso che deve essere posto il loro confine121. La rappresentazione presuppone il confine fra l’intuìto e l’intuente, un confine – beninteso – che l’immaginazione ha inconsciamente oltrepassato scaricandosi in un prodotto che essa, tornata entro il confine e divenuta intuizione, tramite l’intelletto determinerà.
 
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1 J. G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, trad. it. di Guido Boffi, Bompiani, Milano 2003; p. 311.

2 Ivi, p. 529. Secondo corsivo mio.

3 È merito dell’interpretazione di L. Pareyson aver posto sul terreno una lettura autenticamente finitistica del pensiero di Fichte. Ancora più radicalmente, con qualche forzatura, E. Severino vi vede una filosofia radicalmente non idealistica.

4 J. G. Fichte, Fondamento , cit., p. 311.

5«È qui necessario farsi un’idea di che cosa si intenda con l’espressione: oggetto delle rappresentazioni. […]. È facile comprendere che questo oggetti deve essere pensato solamente come qualcosa in generale (= x), poiché al di fuori della nostra conoscenza noi non possediamo nulla da poter contrapporre come corrispodente a tale conoscenza. Noi troviamo peraltro che il nostro pensiero sulla relazione di ogni conoscenza con il suo oggetto porta con sé un elemento di necessità: tale oggetto in effetti viene considerato come ciò che si oppone a che le nostre conoscenze vengano determinate a casaccio o arbitrariamente […]. In realtà in quanto tali conoscenze sono destinate a riferirsi ad un oggetto, esse devono altresì – a riguardo di quell’oggetto – accordarsi necessariamente tra loro, cioè possedere quell’unità che costituisce il concetto di un oggetto»; Kant, Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi 1976 (1957); pp. 168-178.

6 «Questa medesima unità trascendentale dell’appercezione trasforma d’altronde tutte le apparenze – che possano eventualmente coesistere in un’esperienza – in una connessione di tute queste rappresentazioni in base a leggi. La coscienza originaria e necessaria dell’identità di sé è dunque al tempo stesso una coscienza di un’unità di tutte le apparenze in base a concetti, cioè in base a regole, le quali le rendono non soltanto riproducibili, ma in tal modo determinano altresì un oggetto per la loro intuizione»; Ivi, pp. 175- 176. Si consideri anche il seguente passo: «L’io stabile e permanente dell’appercezione pura costituisce veramente il termine correlativo di tutte le nostre rappresentazioni in quanto risulti mai possibile divenir coscienti di esse. […]. È appunto questa appercezione che deve aggiungersi alla capacità d’immaginazione allo scopo di rendere intellettuale la sua funzione»; Ivi, pp. 202-203. Mi permetto di rimandare anche a G. Miniagio, http://spazidifilosofia.altervista.org/joomla/sezioni/fenomenologica/50-gabriele-miniagio-la-deduzione-trascendentale-delle-categorie-appunti-per-un-ipotesi-di-lettura

7 Hegel, Scienza della logica, trad. it. A. Moni rivista da C. Cesa, Laterza, Bari 1988; p. 26-29. Cfr. anche Id, Lezioni sulla storia della filosofia, 3/II, trad. it. a cura di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1945 pp. 354-359.

8 J. G. Fichte, Fondamento, p. 141.

9 Ivi, p.143.

10 Ivi, p.149.

11 «L’Io è ciò il cui essere consiste nel porre sé stesso come esistente»; Ivi, p.p 151.

12 Ivi, p.149.

13 Ivi, p.163.

14 Ivi, p.167.

15 «[…] questo contrapporre riguardo alla sua forma è un’azione assolutamente possibile, non sottoposta a condizione alcuna e non basata su un più elevato fondamento»; Ivi, p.163.

16 Ivi, p.487.

17 Ivi, p. 171.

18 Ivi, p.529. Secondo corsivo mio.

19 Ivi, p.539; corsivo mio.

20 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, 3/II, cit., pp. 354-355.

21 J. G. Fichte, Fondamento, cit., Ivi, p.171.

22 Ivi, p.175.

23 Ivi, p.181.

24 Ivi, p.178-179.

25 Ivi, p. 163.

26 Ivi, p. 243-245.

27 Ivi, p. 487; p. 303-305.

28 Ivi, p.259-261.

29 Ivi, p.261.

30 Ivi, p. 263; corsivi miei.

31 Ivi, p.263.

32 Ivi, p.303.

33 Ivi, p.313.

34 Ivi, p.265.

35 Ivi, p.265.

36 Ivi, p.265.

37 Ivi, p.267.

38 Ivi, p.310-311.

39 Ivi, p.313.

40 Ivi, p.313.

41 «In quell’idealismo le rappresentazioni, in quanto tali, si sviluppavano dall’Io in modo totalmente ignoto e inattingibile, per esempio come una coerente, cioè idealistica armonia prestabilita»; ivi 341

42 Ivi, p.339.

43 Ivi, p.341.

44 Ivi, p.347.

45 Ivi, p.345.

46 Ivi, p.267.

47 Ivi, p.271.

48 Ivi, p.271.

49 Ivi, p.276.

50 Ivi, p.277.

51 Ivi, p.289.

52 Lo scambio, ossia il fatto che nella rappresentazione ci sia un aspetto passivo dell’Io in relazione al Non-Io, deve comunque essere posto dall’Io: oltre ad un osservatore di primo grado che riflette sul fenomeno, che osserva un contenuto rappresentativo, ci dev’essere un osservatore di secondo grado che riflette sulla riflessione, ossia che riferisce il contenuto rappresentato all’atto del rappresentare; cfr. ivi, p.p. 291.

53 Ivi, p.293.

54 Ivi, p.297.

55 Ivi, p.308-309.

56 Ivi, p.303.

57 Ivi, p.303-305.

58 Ivi, p.305.

59 Ivi, p.311.

60 Ivi, p.163 e 487.

61 Ivi, p.413e 432.

62 Ivi, p.433.

63 Ivi, p.433

64 Ivi, p.433.

65 Ivi, p.435.

66 Ivi, p.435.

67 Ivi, p.437.

68 Ivi, p.439.

69 Ivi, p.439.

70 Ivi, p.441.

71 Ivi, p.439.

72 Ivi, p.445.

73 Ivi, p.435.

74 Ivi, p.441.

75 F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi, Rusconi, Milano 1997, p. 133. Si vedano in generale pp. 129-141.

76 Per esempio Ivi, p.pp. 479; 483; 515

77 Ivi, p.537.

78 Ivi, p.497.

79 Ivi, p.517.

80 Cfr. E. Von Glaserfeld,“Introduzione al costruttivismo radicale; p. 25 in WATZLAWICK P., Die erfundene Wirchlichkeit (a cura di), Piper & Co Verlag, München 1981; trad. it. La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, Feltrinelli, Milano 1988).

81 Analogamente una chiave è adatta ad una serratura anche se non è adeguata alla sua forma; cfr. Id., p, 20

82 Cfr. Von Foerster “La costruzione della realtà”, ivi, pp. 52-53

83 Fichte, Fondamento…, cit.; 433.

84 Ivi, p.433.

85 Ivi, p.435.

86 Ivi, p.435.

87 Ivi, p.435.

88 Ivi, p.437.

89 Ivi, p.437.

90 Ivi, p.439.

91 Ivi, p.439.

92 Ivi, p.439.

93 Ivi, p.439.

94 Ivi, p.439.

95 Ivi, p.439.

96 Ivi, p.441.

97 Ivi, p.441.

98 Ivi, p.441.

99 Ivi, p.443.

100 Ivi, p.443.

101 Ivi, p.443.

102 Ivi, p.445.

103 Ivi, p.445.

104 Ivi, p.447.

105 Ivi, p.449.

106 Ivi, p.449.

107 Ivi, p.449.

108 Ivi, p.449.

109 Ivi, p.451.

110 Ivi, p.451.

111 Ivi, p.451.

112 Ivi, p.451.

113 Ivi, p.451.

114 Ivi, p.453.

115 Ivi, p.453.

116 Ivi, p.453.

117 Ivi, p.453.

118 Ivi, p.453.

119 Ivi, p.455.

120 Ivi, p.455.

121 Ivi, p.455.