Nicola Gragnani | Cuore puro

Lezione n. 7

Un abisso profondo di conoscenza

si aprirà al cuore che ha realizzato

la quiete, e l’orecchio dello spirito

in quiete udrà allora da Dio cose

straordinarie” (Esichio Presbitero)

Piccole confessioni
Da ragazzo mi sentivo un materialista mangiapreti e amavo leggere i maestri del sospetto. Ero pomposamente nemico di tutte le religioni. Mi trovai però un giorno a Parigi d'estate, ed ero appunto ancora un ateo e anticristo, quando stranamente decisi di entrare in una chiesa e preso da uno strano raptus rubai il messario del prete. Forse volevo soltanto imparare un poco di francese, forse esercitavo una certa attitudine al furto, ma è anche possibile che fossi invece segretamente attratto dal Vangelo, perché mi accorsi che il testo, a sorpresa, mi piaceva. Il furto del Vangelo sancì la mia conversione. Passarono decenni, crebbi e feci come tutti tutta una serie di cose, e così ora sono il rovescio di ciò che fui, ovvero un amico di tutte le religioni, uno spiritualista e un cristiano. Eppure... a pensarci bene e a non volermi prendere per i fondelli, a parte un certo movimento delle idee e qualche inevitabile riflesso morale, non è avvenuta in tutti questi anni alcuna conversione e non sono davvero cristiano. Certo potrei definirmi tale, così talvolta mi definisco davvero e magari anche con buone ragioni, se è vero che ad esempio da ragazzo versai una volta con disprezzo e una certa dose di stupidità il succo di pompelmo nell'acquasantiera di una piccola chiesetta dell'isola di Capraia, e oggi prendo invece talvolta l'eucarestia, come fossi la migliore delle pecorelle smarrite! Ma è cristianamente ridicolo pensarla così, così cristianamente. Infatti in società e per il mondo bisogna che io mi definisca, se non altro se messo alle strette e stanato dal nascondimento della notte, come cristiano o addirittura come cattolico, ma in verità, paradossalmente proprio secondo categorie cristiane, so d'essere privo di fede. 
Procedo dunque a dimostrare a me stesso l'assenza di fede, abbandonando immediatamente la piccola introduzione confessionale e sperando che ciò che segue possa servire non solo a me stesso ma addirittura a tutti i tipi di ricercatori della verità, ai desiderosi di Dio e a quei credenti che non hanno ancora compreso d'essersi impigliati nel credere di credere.
 
Doverosa breve premessa metodologica
- L'interpretazione di alcuni passaggi del Vangelo sarà un'interpretazione di alcuni passaggi del Vangelo. Sarà perciò incompleta, lacunosa e unilaterale. Un'interpretazione.
- L'interpretazione prescinderà interamente dagli aspetti storici e linguistici del Vangelo, che verrà dunque assunto secondo il suo senso immediato e nel suo carattere evocativo di mythos, come un evento rivelativo della verità.
- Si adotterà il metodo kierkegaardiano del porsi mediante l'immaginazione in rapporto di contemporaneità con Gesù. Di conseguenza, opereremo la finzione di dimenticare l'intera plurimillenaria storia della teologia e, ancor più, la costruzione e l'esistenza stessa di una chiesa. Fossimo stati infatti lì con lui, con Gesù, nulla avremmo saputo di tutte le cose ecclesiastiche.
- Poiché non miriamo qui ad alcuna ricostruzione storica, inventeremo di sana pianta tutta una serie di cose, ma non sarà per questo troppo difficile per il lettore discernere ciò che è farina del sacco dello scrittore e ciò che è genuinamente evangelico, anche per l’evidente brusco passaggio dalla sublimità del linguaggio di Gesù alla pochezza di quello dello scrivente.
 
Doveroso breve tentativo di prevenire un doppio equivoco possibile
- Il metodo suddetto non vuole riprodurre la proposta illuministica della chiesa invisibile, dell'unione degli spiriti moralmente puri, ovvero la riduzione razionalistica della religione alla frigida fede nei postulati della ragion pratica. La Chiesa ha infatti anche una sua legittimità visibile.
- Il metodo suddetto non vuole arroccarsi nel testo sacro e condensare l'infinita Verità nelle sue parole, come se tutto il senso di tutte le cose si potesse trovare solo e sempre a partire da quell'unica chiave dell'essere: non si tratta quindi di percorrere la penetrante unilateralità della via protestante. La Chiesa ha infatti anche una sua legittimità extra-evangelica. 
 
Doveroso e ahimè un poco lungo chiarimento sulla natura della Chiesa per supportare il tentativo di prevenire il doppio equivoco e a chiarimento del metodo stesso. 
Tra breve, come accennato, saremo direttamente assieme a Gesù, quando la Chiesa ancora non esisteva. Tuttavia per il momento stiamo discorrendo proprio della Chiesa, ed ecco allora il duplice doveroso chiarimento:
- la Chiesa ha anche una sua legittimità visibile. Sì, perché è paradossalmente irragionevole pensare che la luminosità della ragione possa davvero soppiantare la forza concreta e quasi carnale dell'istituzione, del rito, dell'azione collettiva e, per dirla in una parola, del simbolo. Il simbolo, nella sua potenza, deve poter essere contemplato in immagine e in suono, deve essere una "messa" in scena, lo si deve attraversare come spazio materiale, tempio, esperendo il silenzio e l'odore del sacro. L'intuizione cattolica consiste proprio nell'innestarsi in questa universale esigenza del render sensibile l'idea e per questo la Chiesa è primariamente simbolo, segno visibile sulla terra della Gerusalemme celeste. La Chiesa non è la scaltra furbizia pretesca dell’affermarsi sfruttando la debolezza umana mediante la grossolanità dello sfarzo, del rito o della gerarchia, quanto piuttosto e al contrario il salvare, pur predicando lo spirito, l'intera realtà della materialità. Senza l'immagine infatti, privo del simbolo, l'uomo non si trova più vicino a Dio ma svanisce nell’anoressico vuoto del concetto. Senza la materialità sublimata artisticamente in simbolo la natura stessa resta muta e abissale, splendidamente terrifica e impenetrabile: lo spirito della natura resta criptato finché Dio non irrompe come materialità del tempio. Ma la Chiesa non si legittima tuttavia soltanto mediante questa sua evidente ripresa dell'artisticità dell’impulso pagano, anzi, la sua prima e più pura giustificazione risiede, come è ovvio, nell'idea stessa del Logos fattosi carne, e così di Gesù come immagine-senso, un rimando ad altro, dove l'altro, dal suo nascondimento, indica di nuovo, per esser compreso, verso la materialità della carne, delle piaghe e della resurrezione del corpo del Cristo. Se dunque Gesù stesso chiamava "tempio" il suo corpo, il posto nel quale Dio si trova bene e a suo agio, allora non c'è dubbio che la Chiesa, che venera la contraddizione del Dio visibile, debba essa stessa mostrare la contraddizione mostrandosi, rendendosi visibile, esperibile, potente sì, ma della potenza spiritual-materiale, ovvero assieme imponente ma anche fragile ed esposta al mondo, alla sua violenza e alla possibilità della morte, proprio come il suo Dio.
La Chiesa, per venire al secondo chiarimento, ha anche una legittimità extra-evangelica. Certo che sì, una legittimità extra-evangelica fondata naturalmente sul Vangelo. Infatti, come noto, certi passaggi evangelici sono stati assunti come fondamento dell’autorità e della necessità della Chiesa, come l’istituzione della Chiesa da parte del Maestro. Pietro infatti, non appena riconobbe Gesù come più che semplice profeta - “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” - si sentì riconoscere a sua volta da Gesù con queste più che note parole : “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Passaggio variamente interpretabile, certo. L’unzione di Pietro non potrebbe riguardare il solo Pietro, in un rapporto di singolo a singolo? Oppure, pensando all’uso del linguaggio simbolico così ricorrente in Gesù, la parola “Chiesa” non potrebbe indicare lo stato di coscienza dell’essere-l’uno-con-l’altro piuttosto che il processo materiale e storico di costruzione di una Chiesa? Sia quel che sia, si ammetterà comunque come per lo meno plausibile anche l’interpretazione cattolica, se non altro nei suoi elementi più semplici: Gesù affidò a Pietro il compito di costituire una comunità, una comunità separata da quella ebraica (“edificherò la mia Chiesa”) e capace di resistere al male probabilmente assai a lungo (“le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”).
L’iniziazione, come si sa, proseguì poi immediatamente con il dono del “potere delle chiavi”. Ad uso degli scarsi conoscitori dei Vangeli (che abbondano ad esempio proprio tra i filosofi, dato evidentemente il loro infallibile sapere “a priori” l’inutilità e la falsità dei Vangeli), ricordiamo le parole dell’investitura: “A te darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Certo, anche qui, potremmo ben dire che soltanto a posteriori, a Chiesa costituita, risulta facile ed immediata l’interpretazione sovrapponente l’operare concreto del prete (che unisce in matrimonio, che battezza, che scomunica ecc..) con l’operazione terrestre immediatamente riflettentesi in leggi celesti oggetto del discorso, così come potremmo di nuovo domandarci se con “a te” Gesù intenda il solo Pietro o anche i successori di Pietro, e così via; tuttavia, anche qui si potrà almeno intravedere che, tra le varie interpretazioni, anche quella cattolica merita comunque attenzione, in quanto perlomeno plausibile. D’altra parte, sulla necessità della Chiesa e sul suo potere, all’interno dei quattro Vangeli canonici, tanto più di questo non si troverà. E’ in effetti assai poco se si vuole sostenere la tesi che i Vangeli indubbiamente istituiscano la Chiesa come un varco nel sensibile verso il sovrasensibile, o meglio del sovrasensibile verso il sensibile, ed è pochissimo se si vuole sostenere la tesi che soltanto la Chiesa Cattolica, e non in generale le chiese cristiane o il singolo ispirato dal Cristo, sia la depositaria unica del potere delle chiavi. La legittimità extra-evangelica comunque, oltre al “potere delle chiavi”, può ben fondarsi anche e soprattutto altrove, ovvero a partire dalle azioni stesse dei primi cristiani, anche perché nel cristianesimo, che non è una filosofia, l’agire è sempre di gran lunga più rilevante delle parole stesse. Il massimamente rilevante di Gesù, ad esempio, è stato il suo agire la morte, che già di per sé avrebbe mostrato, anche se Gesù fosse stato un profeta muto, che è possibile lasciar agire la violenza su di sé senza subire violenza spirituale (così, in quella azione senza parole, tutto il senso dell’etica fu portato al perfetto compimento), e che è in linea di principio possibile, fatti alla mano, sconfiggere la morte (così, nell’atto della resurrezione, tutte le questioni metafisiche scomparvero, risolte).
Sono i discepoli con le loro azioni a contrassegnare dunque l’effettiva Chiesa sempre operante e non solo rammemorante la Verità. Quei discepoli che da piccola comunità si fecero indubbiamente Chiesa, ovvero forza oggettiva medianica, cinquanta giorni dopo la Pasqua, quando “venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi” (Atti, 2,1).
Lo Spirito Santo, questa enigmatica figura cristiana che ispira i singoli possedendoli estaticamente ma senza stravolgerne la ragione, donò quindi agli apostoli il potere di aprirsi a tutte le nazioni della terra, manifestandosi nel giorno della Pentecoste come forza del fuoco che brucia ogni possibile differenza, e con ciò come potenza restauratrice dell’unità e dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Pietro stesso, dopo aver ricevuto la sua lingua di fuoco, spiegò agli astanti che “questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (Atti, 2,32). Ecco dunque la legittimazione extra-evangelica del potere platonicamente erotico della Chiesa: lo Spirito Santo prende e infiamma Pietro, il semplice Pietro (proprio l’uomo che in seguito alla trasfigurazione del Cristo e all’apparizione di Mosè ed Elia pensò bene di montare una tenda per tutti e tre) e ne fa immediatamente, senza mediazione alcuna, non solo un poliglotta ma anche un raffinato teologo, come mostra la sua improvvisa dimestichezza con relazioni quali quella del Cristo con il Padre (“alla destra di Dio”) e quella Padre-Spirito-Cristo-apostoli ad esplicazione dell’effusione dello Spirito. Ecco, lo Spirito “effuso” vieta di pensare che la verità possa esaurirsi nelle sole parole del Maestro, perché la Verità è vita, fluidità, imprevedibile slancio vitale. Lo Spirito soffia quando, quanto, come e dove vuole e, essendo vibrante volontà, soffiò, soffia e soffierà a suo piacere nei secoli dei secoli.
Forse qualcuno potrebbe però tentare, contro quest’ultima conclusione, un pensiero di questo tipo: l’effusione dello Spirito fu il fatto occasionale e irripetibile della Pentecoste, un dono esclusivo per gli eletti. Ma ecco giungere anche San Paolo, senza Pentecoste, a riattualizzare il potere del Cristo: “..un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: «Non vi turbate, è ancora in vita!»” (Atti, 20,9). La forza spirituale agente nella resurrezione di Lazzaro è dunque ancora la stessa che ricondusse alla vita Eutico, ovvero la stessa che permise anche a Pietro di risuscitare Tabità quando “gli si fecero incontro tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Tabità confezionava quando era tra loro. Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto alla salma disse «Tabità, alzati!». Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere” (Atti, 10,39). Gesù, Pietro e Paolo potevano risuscitare i morti: esiste dunque una legittimità extra-evangelica della Chiesa fondata nel Vangelo: la Verità non ama condensarsi in un solo libro e in un solo uomo, e i santi operarono, operano e opereranno l’impossibile, secondo il volere di Dio, nei secoli dei secoli. 
 
Il Vangelo secondo Nicodemo 
C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù di notte e Gesù, vedendolo arrivare, gli disse: “Un maestro non dovrebbe tenere la lucerna sul lucerniere?”. Rispose Nicodemo: “Maestro, non solo i maestri, ma tutti, accendendo la lucerna, la pongono sul lucerniere!”. Gesù allora: “In verità, in verità ti dico: vi sono maestri con la luce nascosta sotto il moggio e maestri con la luce spenta sul lucerniere. Chi tiene oggi la lucerna accesa sul lucerniere per far luce a questa generazione?”. Replicò allora Nicodemo: “Maestro, che cosa significano queste parole?”. Disse Gesù: “Non sei venuto di notte come un ladro per cercare la luce? Dunque la tua fiamma brucia sotto il moggio”. E Nicodemo: “Signore, il tuo linguaggio è duro: chi potrà mai capirti?”. Gesù restò allora in silenzio per qualche secondo, poi rispose: “Ciò che tu non capisci, lo ha già capito il tuo corpo, che ti ha condotto alla Luce. Io parlo al tuo corpo, il tempio del grande Sé”. Disse allora Nicodemo a Gesù: “Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui”. “Credi tu in me?”, replicò Gesù. “Sì Rabbi, io credo in te, perché hai detto a Natanaele cosa ha fatto sotto il fico, a Cafarnao hai cacciato demoni e guarito infermi e a Cana, a detta di alcuni servi, hai tramutato l’acqua in vino: nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui. Come posso dunque seguirti?”. “Sali domani stesso sui tetti di Gerusalemme in pieno giorno” - disse Gesù – “ed urla settanta volte la tua frase: «sappiamo che Gesù è un maestro venuto da Dio perché nessuno può fare i segni che fa se Dio non è con lui»”. Allora Nicodemo, fattosi pensieroso, si allontanò da Gesù.
Il giorno dopo Nicodemo camminava per le vie della città guardando a destra e a sinistra e in alto, ma nessun posto gli sembrava abbastanza alto, abbastanza bello o adeguato al compito affidatogli dal maestro. Sentì allora nel petto un calore e come una misteriosa voce demonica che gli diceva: “Non esiste nessun posto da cercare!”. Spaventato, non sapeva se ascoltare la voce e decidersi ad agire, o piuttosto credere a chi diceva esser Gesù al servizio di Belzebù. Poi in un attimo si ritrovò senza saper come nel mezzo di una piazza assai affollata ed in luogo rialzato. Tutti potevano vederlo e già si erano voltati verso di lui in molti, perché inconsueto era il suo star fermo in piedi, e oramai ci si aspettava da lui qualcosa. “Nicodemo”, gli disse un fariseo che ben lo conosceva, “hai qualcosa di importante da comunicare?”. Nicodemo rispose senza esitazione: “No, assolutamente niente. Cercavo con gli occhi un uomo”. Ciò detto, si mosse subito verso il centro della piazza e si dileguò nella moltitudine della folla.
Rincasato, Nicodemo non riusciva a dormire, perciò decise di tornare da Gesù. Lo trovò e gli disse: “Rabbi, non sono riuscito a parlare perché ho troppa paura della reazione di molti dei miei. Cosa direbbero i dottori e il sinedrio? Maestro, in verità tu non sei amato da loro, ma molto odiato”. Gli rispose Gesù: “Vuoi dunque restare cadavere?”. Replicò Nicodemo: “Maestro, come potrei affrontare l’ira degli scribi e dei farisei?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio”. Gli disse Nicodemo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito”. Gesù chiuse allora gli occhi e restò seduto in silenzio, ma Nicodemo restò lì immobile davanti a lui, perché non aveva capito. Infine disse: “Maestro, so di non aver capito, so che mi piacerebbe capire e so che mi manca la potenza per poter capire. Puoi aprire tu la mia mente alla comprensione delle tue parole?”.
Senza aprire gli occhi e senza modificare la sua posizione, Gesù disse allora: “Nascere da acqua è ciò che insegna Giovanni, la voce che grida nel deserto. L’acqua prende ciò che è sporco e lo getta nella terra, e l’acqua genera la vita ed io sono la Vita. Se vuoi la Vita, devi passare per il battesimo dell’acqua. E che cosa è il battesimo dell’acqua? Recidere i rami secchi e gettarli nel fuoco è il battesimo dell’acqua. Nicodemo, tutto ciò che hai fatto ed hai pensato, eccezion fatta per il tuo venir qui di notte, tutto ciò non è che rami secchi da gettare nel fuoco. Avrai la forza per lasciarti generare dallo Spirito? Ora rispondi pure, Nicodemo: avrai la forza? E Nicodemo esitando rispose: “Rabbi, io sono un capo e quando ordino molti mi obbediscono e molti mi onorano, sono rispettato e ritenuto un uomo forte, intelligente e coraggioso”. Disse Gesù: “Nicodemo, avrai la forza di venire dalla notte alla luce?”. “Sì, Rabbi, sono un Fariseo forte e coraggioso: avrò la forza!”. Gli disse allora Gesù: “Nicodemo, avrai la forza per lasciarti generare dallo Spirito?”. Nicodemo rispose: “Rabbi, come ti ho detto, per te troverò la forza, tu insegnami soltanto le giuste preghiere, il giusto digiuno e le giuste purificazioni”. “Nicodemo, Nicodemo, rispondi soltanto a questo: avrai la forza per lasciarti generare dallo Spirito?”. “No, maestro, non l’avrò”, rispose Nicodemo. “Sarai beato, Nicodemo, perché lo hai riconosciuto”, disse Gesù.
Nicodemo si recò allora a Ennon, vicino a Salim, per cercare Giovanni, accompagnato da altri farisei, da sacerdoti e da leviti. Giovanni aveva catturato delle locuste e le stava mangiando vive, e nessuno osava avvicinarlo. Nicodemo si fece invece avanti e Giovanni vedendolo venire verso di lui gli disse: “Ecco un uomo che cerca la verità di notte! Tu già conosci il nazareno e vieni da me, che battezzo con acqua?”. Nicodemo rispose: “Vedo che sei davvero un profeta, Rabbi”. Giovanni replicò: “Sei venuto per confessare i tuoi peccati?”. Nicodemo disse allora: “No, maestro, vorrei invece interrogarti su Gesù di Nazaret. Tu chi credi che sia?”. Giovanni rispose: “Ho visto il cielo aperto e una colomba scendere dal cielo e posarsi su di lui, come mi aveva detto colui che mi ha mandato a battezzare con acqua. E io ho visto e rendo testimonianza che questi è il Figlio di Dio che battezza in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula la brucerà con fuoco inestinguibile”. Quando si allontanarono le folle, Nicodemo ritornò sui suoi passi e chiese a Giovanni d’essere battezzato. Ma Giovanni rispose: “Vattene!”.
Nicodemo ritornò allora il giorno dopo e quando vide che nessuno di quelli che conosceva si trovavano presso l’acqua, si avvicinò a Giovanni per farsi battezzare. Ma Giovanni gli disse: “Razza di ipocrita! Vuoi sottrarti all’ira imminente?”. Così non lo battezzò. Quella notte Nicodemo non riuscì a dormire e scoppiò a piangere a lungo. Il giorno dopo era nuovamente da Giovanni e quando vide che quelli che lo conoscevano si trovavano presso l’acqua, si avvicinò a Giovanni per farsi battezzare. Giovanni gli disse: “Confessa il tuo peccato”, e Nicodemo replicò: “Maestro, credo che Gesù sia il Cristo ma non ho il coraggio di rendergli testimonianza come fai tu”. Allora Giovanni lo prese e gli mise la testa sott’acqua e lo tenne molto sott’acqua, e alcuni dicevano: “Vorrà forse ucciderlo?”. Giovanni però non voleva ucciderlo, ma aiutarlo a ricapitolare la sua vita.
Ritornato ancora un altro giorno dal profeta, lo interrogò dicendogli: “Ti prego, maestro, placa la mia sete di conoscenza svelandomi il significato delle tue parole «Questi è il Figlio di Dio che battezza in Spirito Santo e fuoco», perché queste parole mi piacciono, ma sono per me oscure. Potresti, Rabbi, spiegare tutto ciò con semplicità?”. Al che Giovanni rispose: “Le mie parole sono oscure perché non io parlo, ma «Io sono ciò che sarà» è ciò che vive in me e che io ascolto. Ciò che ascolto è ciò che conosco, e questo è il discorso che conosco: il tempo del regno è giunto: muoiono gli dèi e tacciono i profeti perché i cieli abitano tra di noi. Il Figlio di Dio tiene una colomba sul palmo della mano destra, ma una spada terribile di fuoco nella sinistra; con l’occhio destro soccorre gli ultimi, ma il sinistro incenerisce i primi d’un odio inestinguibile. Sarà innalzato come serpente nel deserto e vivrà per sempre chi crederà in lui, ma morirà eternamente chi non lo riconoscerà». Nicodemo disse allora: “Io credo nel Cristo! Avrò dunque la vita eterna?». Rispose Giovanni: «Anche i pagani credono in questo o in quello, e disputano con la filosofia per difendere questo o quello. Ma il Figlio di Dio toglie i peccati del mondo senza insegnare dottrine». Al che Nicodemo replicò: «La vita vera e la salvezza sono nel Tempio, non è vero?». Giovanni disse: «Vuoi credere nella dottrina e nel Tempio? Stolto! Crederai di credere, ma cosa otterrai dello Spirito della fede?». Nicodemo allora: «Maestro, le tue parole mi turbano! Cosa sarà mai allora la fede? E chi potrà salvarsi? Rabbi, potresti essere tu il mio maestro?». Disse allora Giovanni: “Va’ dal nazareno, perché io devo ora diminuire, e lui aumentare fino ad una misura che non possiamo misurare”.
Nicodemo non ebbe timore a dichiarare ai capi farisei che era stato da Giovanni, e neppure che era intenzionato a vedere Gesù. Cominciarono allora a pensare a come escluderlo dalle cariche per emarginarlo. Nicodemo non se ne preoccupò e andò a cercare Gesù in pieno giorno. Ma non lo trovò. Gli dissero però dove era andato e partì allora per la Galilea. Lungo la strada un uomo zoppo gli rivolse la parola rivelandogli d’essere disperato, perché il suo figlio primogenito aveva lasciato la famiglia e il lavoro per seguire Gesù. Lavorando da solo in bottega e già in là con l’età si era presto ammalato per lo sforzo, e la moglie doveva badare ai quattro bambini e non aveva tempo per il lavoro; così l’assenza del figlio li aveva privati del necessario per vivere e i piccoli oramai mangiavano un solo pugno di farina cotta al giorno. Gli spiegò che Gesù venne in città e predicò l’odio verso la famiglia, dicendo d’essere più della famiglia e che chi si preoccupa della famiglia anziché abbandonarla e seguirlo non è degno di lui. Gli spiegò anche che Gesù venne a distruggere il lavoro, dicendo di non preoccuparsi di ciò che si mangia e si beve e di come ci si veste e di cessare dal proprio lavoro perché Dio avrebbe provveduto a tutti come sempre provvede ai gigli dei campi e agli uccelli del cielo. Lo zoppo spiegò così a Nicodemo che Gesù, parlando con grande autorità e usando bene le parole, aveva convinto molti a seguirlo generando così aspri litigi tra padri e figli, e aveva persino seminato il dubbio sulla legittimità delle norme di Mosè, sull’autorità degli scribi e dei farisei e addirittura sulla necessità di pregare nel Tempio e pubblicamente, dicendo al contrario esser meglio il pregare nella propria camera e senza tante parole. Disse infine lo zoppo a Nicodemo, con le lacrime agli occhi: “Nicodemo, un uomo non deve forse lavorare, avere una famiglia e onorare la legge di Mosè nel Tempio? Tutte le belle parole che negano questo non sono forse cataste di paglia? Una vita senza famiglia e lavoro, abbandonando famiglia e lavoro, non è forse una vita costruita sulla sabbia? E se il nazareno fosse anche capace di convertire dell’acqua in vino, e allora? Non è più salutare l’acqua del vino? E cosa ci importa a noi Giudei di queste magie da sacerdoti egiziani, se il frutto delle azioni di Gesù è la rovina delle famiglie e l’odio del figlio contro il padre e del padre contro i sacerdoti e così la rovina di tutta la tribù? No, Nicodemo, questo Gesù non è il messia che pensi, ma agisce secondo i dettami di Satana. Infatti, come dai frutti si riconoscono gli alberi, dalle azioni degli uomini si riconoscono i buoni e i cattivi; ecco, ora giudica tu Gesù, ma certo quanto odio, quanta fame hanno fruttato, quanto odio, quanta fame frutteranno le azioni di Gesù!”. Nicodemo ascoltò il tutto con grande attenzione ed enorme turbamento nel cuore. Alla fine il turbamento cessò e gli sembrò che gli fossero stati aperti gli occhi. Salutò lo zoppo e invertì la direzione di marcia, ritornando a Gerusalemme e alla sua vita. Riprese le sue attività regolarmente, e nessuno più mormorò contro di lui.
Più di due anni dopo, Nicodemo stava recandosi a Betania quando vide presso il monte degli Ulivi una gran folla di discepoli di Gesù che esultavano e lodavano Dio dicendo a gran voce: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. I discepoli di Gesù stavano salutando così l’arrivo a Gerusalemme del loro maestro. I discepoli riconoscevano infatti che Gesù è il Cristo re. Allora un fariseo di nome Tommaso che viaggiava con Nicodemo disse a Gesù, che cavalcava un asino: “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”. Ma egli rispose: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”. Scandalizzato, Tommaso guardò Nicodemo, e Nicodemo, vedendo che Gesù guardava altrove, imitò il gesto di strapparsi le vesti. Ma Gesù, che vedeva tutto, si girò di scatto e lo fissò negli occhi con durezza. Nicodemo sentì in quell’istante come se una lancia gli avesse trapassato il cuore. Si congedò dall’amico e decise di rientrare a Gerusalemme.
Quella notte Nicodemo non dormì perché il cuore continuava a dolergli e quasi gli pareva di morire. Angosciato e tormentato dal dolore nel petto, cominciò allora ad invocare il perdono di Dio dicendo incessantemente: “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Mentre pregava avvenne che il corpo si paralizzò tutto, tanto che persino le labbra non potevano più muoversi per pronunciare le parole di preghiera. Nicodemo si stupì allora di non essere affatto spaventato e continuò a pregare nella mente, pur non potendo neppure chiudere gli occhi e continuando a sentire male al cuore. Dopo molte preghiere gli venne Gesù in visione e si avvicinò a lui, intrecciò l’indice col medio e gli batté due volte le dita sul cuore. Allora cessò il dolore e Nicodemo si sentì come sollevare da una mano invisibile, così fluttuava nell’aria. Si trovò poi con Gesù entro delle mura e c’era un uomo paralizzato nel letto con gli occhi spalancati. Nicodemo si avvicinò all’uomo e si accorse che era proprio lui che giaceva sul letto, e allora ebbe una grande paura e portò il suo volto sul petto di Gesù. Gesù gli disse però: “Nicodemo, non avere paura. Avvicinati invece al letto e guardati negli occhi”. Allora Nicodemo si staccò dal maestro e si avviò al letto, si avvicinò molto e fissò negli occhi l’altro Nicodemo, quello sul letto. Negli occhi del Nicodemo disteso, vide allora riflesso con chiarezza Nicodemo che stava parlando in un giardino con Gesù.
Negli occhi di Nicodemo, Nicodemo vide dunque Gesù che diceva: “Perché hai creduto allo zoppo?”, al che quel Nicodemo nel giardino, che era più alto e più robusto del Nicodemo di carne, rispose: “Perché lo zoppo disse che tu predichi l’abbandono della famiglia”. Replicò Gesù: “Lo zoppo disse la verità. Allora, Nicodemo, perché credesti nello zoppo?”. Nicodemo rispose: “Perché lo zoppo disse che tu predichi l’abbandono del lavoro”. Gesù replicò: “Anche questo fu ben detto dallo zoppo. Allora, Nicodemo, perché credesti nello zoppo?”. Nicodemo rispose: “Ora vedo, maestro, che una parte del mio cuore voleva che lo zoppo avesse ragione, perché volevo salvare la mia vita”.
Il Gesù che era negli occhi di Nicodemo disse allora: “Beati i puri di cuore, Nicodemo, perché vedranno Dio! Nicodemo, guarda ora con il cuore dentro il tuo cuore, dentro il mio cuore”. Nicodemo, quel Nicodemo che Nicodemo stava osservando con grande attenzione, sentì allora come se Dio fosse con lui, e anche il Nicodemo che osservava il Nicodemo dormiente sentì con grande emozione la presenza del Signore, e sentendo come risuonare le due sillabe “Ge” e “sù” divenne tutto caldo dall’interno tanto da sudare copiosamente e gli pareva che dal cuore di Gesù, dal proprio cuore, emanassero sottili raggi verdi che tutto lo avvolgevano. Allora la visione svanì e Nicodemo si accorse di poter muovere gli arti e chiudere gli occhi.
Nicodemo chiuse finalmente gli occhi e pur senza addormentarsi cominciò a sognare. Sognò un albero d’ulivo accanto a sé, un albero che trovava bello tanto che cominciò ad arrampicarsi. Ma un ramo si spezzò e Nicodemo cadde col ramo a terra. Il ramo era fatto in modo strano ad uno degli estremi, e Nicodemo lo avvicinò a sé per esaminarlo. Nicodemo scoprì che il legno era cosiffatto da sembrare il volto dello zoppo, e allora ne ebbe disgusto e lo girò dall’altra parte, e molto si stupì nel vedere che dall’altro lato il volto era invece chiaramente quello di Gesù. Eppure non era il volto di Gesù che Nicodemo conosceva. Guardandolo con attenzione Nicodemo capì che era il volto di Gesù morto, allora volle prendere il ramo per portarlo con sé, ma il sogno svanì. Terminato il sogno, Nicodemo si alzò con grande agitazione, si lavò, si preparò con cura e si recò dal governatore della Giudea, Ponzio Pilato. Nicodemo conosceva infatti i piani dei farisei per uccidere Gesù.
Dopo avere atteso molte ore per parlare con Pilato, finalmente lo incontrò e chiese a Pilato il permesso di parlargli di Gesù. Ma Pilato lo interruppe dicendogli: “Questo Gesù è un uomo che vuole rovesciare il governo di Roma?”. Rispose Nicodemo: “No, è un uomo mite e puro di cuore”. Pilato si mise allora a ridere, non volle più sapere niente di Gesù e congedò Nicodemo. Nicodemo raggiunse allora i capi dei Giudei, parlò con alcuni di loro e capì che avevano pensato ad un piano per arrestare Gesù. Ma non gli dissero i dettagli, perché non si fidavano di lui.
Dopo qualche giorno, Gesù venne arrestato e consegnato a Pilato. Nicodemo si recò allora con altri capi al palazzo del governatore. Pilato stava ascoltando le accuse e le testimonianze, anche quelle a favore di Gesù. Quando poté parlare, Nicodemo chiese a Pilato la parola e Pilato gli rispose: “Dì pure”. Nicodemo disse allora, davanti ai suoi ed al governatore: “Agli anziani, ai sacerdoti e ai leviti e a tutta la moltitudine degli Ebrei io dico: che avete con quest’uomo? Quest’uomo fa molti segni e molte cose mirabili che nessun uomo ha mai fatto né può fare. Lasciatelo e non vogliate comportarvi malamente contro di lui: non è, infatti, degno di morte”. I Giudei fremevano e digrignavano i denti contro Nicodemo. Gli dissero allora i Giudei: “Accetta pure la sua verità e abbi parte con lui!”. Nicodemo rispose: “Amen, amen, amen! Accetterò come dite”.
Gesù venne condannato a morte e crocifisso sul monte del Golgota. Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, per concessione di Pilato, si recarono alla croce. Nicodemo portò con sé una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici e lo deposero in un sepolcro nuovo.
 
Frammenti di una fede sconosciuta
Nicodemo ha vissuto la frantumazione della sua personalità ed è degno d’essere chiamato “cristiano” perché ha ottenuto la pienezza della fede nell’abbandono a forze salvatrici che lo sovrastano. Tuttavia.. ha davvero ottenuto la fede? Siamo sicuri che Gesù, a questo punto dell’iniziazione di Nicodemo, lo avrebbe definito un credente? Ovvero, per porre la questione in altro modo: siamo sicuri di sapere che cosa intendiamo con la parola “fede”? Mantenendoci fedeli al proposito dell’esser immaginativamente contemporanei di Gesù, ascoltiamo dunque risuonare la parola immediatamente, quando Gesù la utilizzava e come le persone immediatamente la comprendevano.
Ecco ad esempio una donna, affetta da emorragia di sangue da anni, riuscire a farsi strada tra la folla accompagnante Gesù fino a giungere a toccare il suo mantello, nella ferma e assurda convinzione di poter guarire toccando il mantello del Maestro. Toccato che ebbe il mantello, in effetti il flusso di sangue si arrestò e Gesù voltandosi chiese (altrettanto assurdamente, data la folla che lo pressava accalcandosi attorno a lui): “Chi mi ha toccato il mantello?”, al che la donna tremante si fece avanti e Gesù le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male” (Mc 5,28). Ora, noi qui prima di tutto ipotizziamo, e sembra anche l’unica ipotesi riguardosa nei confronti di Gesù, che Gesù rivolgendosi all’emorroissa e parlandole volesse essere da lei compreso. Chiediamoci: come può comprendere l’emorroissa guarita, in quel momento, la parola “fede”?
Figlia, la tua fede ti ha salvata”. Marco sembra in effetti facilitarci il compito ermeneutico, perché appunto e come accennato il narratore introduce il miracolo lasciandolo precedere dalla descrizione del pensiero della donna, da quel “se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. L’evangelista sa quindi che l’emorroissa deve avere compreso così la benedizione di Gesù, come un’attestazione della verità del suo assurdo pensiero precedente, l’idea del poter essere sanata toccando un mantello, e per dipiù toccandolo senza che il terapeuta ne potesse saper nulla, ad insaputa del medico, in un certo senso imbrogliando il taumaturgo stesso. Questo meraviglioso imbroglio sacro è la fede dell’emorroissa. Le cose stanno davvero così, perché l’evangelista afferma che “Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla..”, ovvero Gesù si volta quasi stupito, non avendo operato infatti alcuna guarigione secondo la sua volontà ed essendo stato invece derubato della sua potenza, come noi veniamo derubati del portafogli in metropolitana. L’emorroissa doveva dunque e senza dubbio aver intuito egregiamente, finezza dello spirito femminile, che Gesù, di cui aveva solo sentito parlare, fosse o ospitasse una potenza tale da poter superare tutte le escogitazioni dell’umana arte medica, che da dodici anni avevano davvero svuotato le sue tasche. I medici rubarono all’emorroissa, l’emorroissa rubò a Gesù e la fede è il furto ai danni di una potenza che non disdegna d’essere derubata.
L’emorroissa comprende quindi “la tua fede ti ha salvata” come un “la mia convinzione di poter guarire mi ha salvata”. Così ha utilizzato la parola “fede” Gesù in quel contesto, senza alcun riferimento diretto al proprio essere divino, né alla Chiesa, né a qualsivoglia dottrina esplicitamente o implicitamente presente alla mente dell’emorroissa. Probabilmente l’emorroissa era infatti lontana dal poter pensare a qualcosa di così cristiano (nel senso del post-Gesù) come l’uomo-Dio, nulla sapeva di Trinità o d’altro, ma Gesù attestò la fede in questa donna. Dunque la fede, almeno nel senso che aveva nel discorrere di Gesù, non implicava un complesso di convinzioni “cristiane”, non implicava delle credenze, era qualcosa di più immediato, di più semplice. Mi sembra perciò perlomeno cristianamente lecito, sulla scorta dell’autorità di Gesù, recuperare la parola fede anche in questa sua iniziale e semplice accezione, come convinzione di poter essere sanato che talvolta si risolve in furto della potenza.
Piccola osservazione supplementare: la fede non è affatto semplicemente la convinzione, come alcuni potrebbero pensare. La convinzione è infatti soltanto il lato soggettivo della fede, ma da sola non costituisce la fede. E’ bene ricordarlo in tempi sospetti come i nostri, con molteplici corsi spirituali in cui le persone si ripetono nella testa le affermazioni “sono sano, sono buono, tutti i mali sono ora fuoriusciti da me, posso ottenere ciò che voglio, sono pieno di energia pura” e altre cose di questo tipo, che implicano la credenza nella potenza infinita della volontà. Qui in effetti il movimento della fede inizia sì dall’azione dell’io, dal desiderio dell’emorroissa d’essere sanata, ma si evolve nell’intuizione di poter essere sanata confidando nella potenza oggettiva esistente al di fuori della propria anima e capace di sanare l’umanamente insanabile. E infatti la potenza esiste, c’è, come attestato dal passo già detto, e solo in virtù di questa forza extra-individuale l’agire fiducioso dell’io giunge a compimento. Nella fede dell’emorroissa è perciò implicitamente contenuta l’intuizione dell’Altro, della potenza estranea e superiore all’io nascosta in un mantello, e questa è la fede, almeno nell’episodio in questione.
(Quanti sono, invece, soprattutto nell’universo intellettuale, si tratti persino di sacerdoti, vescovi, papi o illustrissimi medici francescani, coloro che dicono di credere ma, a conti fatti, di fronte al miracoloso in atto o possibile, e non al comodo evento miracoloso già avvenuto duemila anni fa, si schierano proprio contro il miracoloso nella ferma convinzione - una fede oggi ben più forte della fede - che sia vero solo ciò che si sente e si tocca, che la materia non possa essere sovrastata da nessuna forza e che nulla possa accadere al di là delle leggi della causa e dell’effetto scoperte dalle scienze e dal buon sano senso comune?).
Quando a Gerico il cieco mendicante Bartimeo sentì avvicinarsi una folla e seppe del passaggio di Gesù Nazareno, si attrezzò, secondo le sue possibilità, per attirare l’attenzione del Maestro mettendosi a gridare a squarciagola: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Fu presto sgridato da molti, intanto perché risultava e sempre risulta sconveniente il gridare in pubblico, ma anche perché ancor più sconveniente doveva suonare il dichiarare così spudoratamente Gesù come il “Figlio di Davide” ovvero, si badi bene, il nominarlo e riconoscerlo come il Messia. Gesù, nonostante le solite masse accalcate attorno a lui, come nel caso dell’emorroissa, isolò allora questa voce come significativa, fece chiamare il cieco e gli chiese cosa volesse da lui, “e il cieco a lui: «Rabbuni, che io riabbia la vista!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato»”. Anche qui, dunque, la fede sembra indicare il movimento spirituale della soggettività del cieco, cooperante con l’assenso di Gesù, con l’aggiunta qui del riconoscimento della natura messianica del nazareno (e la sottrazione dell’elemento del “furto sacro”). Si badi bene, però: il riconoscimento che merita al cieco la salvezza non è un “credo che tu sia il Logos”, ma, semplicemente, l’intuizione di essere al cospetto del Messia, del liberatore di Israele.
Poteva pensare, il cieco Bartimeo, alla Trinità? Avrebbe mai potuto pensare di trovarsi di fronte Jahwè stesso? Altamente improbabile. Eppure Gesù riconosce in lui una forza operante e questa forza operante, così povera di concetto come la trova, la denomina “fede”. Due affermazioni correlate, dunque, le possiamo considerare valevoli per entrambi gli episodi:
La fede è una forza operante, effettiva, agente, non un tener-per-vero x o y
La fede si mostra come intuizione, non giunge cioè dopo attenta ponderazione del problema Dio e neppure al compimento di un lungo processo di esercizi spirituali interiori. La fede sboccia senza filosofia e senza meditazione ed i pensieri stessi di Gesù miravano infatti, nella loro incisività immediata, al risveglio di un organo spirituale specifico, il cuore. La fede è intuizione del cuore.
Tuttavia, ora vogliamo scoprire anche qualche cosa d’altro, di apparentemente opposto al già detto: l’infinita difficoltà della fede, la sua radicalità e la rarità del suo possesso. Si pensi ad esempio all’episodio della barca in tempesta, con Gesù tranquillo a dormire mentre le onde minacciavano di rovesciare l’imbarcazione e gli apostoli terrorizzati che lo svegliarono per essere salvati dal naufragio. Ecco, gli apostoli credettero che Gesù potesse salvarli da una tempesta, dunque si affidarono a lui non considerandolo affatto un provetto marinaio ma credendo proprio in Lui, credendo che potesse risolvere l’irrisolvibile. Secondo il già detto: perfetti credenti. Gesù però si svegliò e li apostrofò dicendo: “Perché avete paura, uomini di poca fede?” (Mt 8,26). Come noto, Gesù si mise allora a sgridare i venti e il mare ed essi, riconoscendo in Gesù il signore degli sciamani, cessarono la loro attività.
Ora, perché Gesù non è contento degli apostoli? Perché, qui come altrove, trova che gli apostoli abbiano poca fede? (ne segue anche: chi può dire “io ho fede” se gli apostoli, che lasciarono tutto per seguire Gesù, vennero più volte indicati da lui come esempi di fede debole o inesistente?). La risposta è già lì, nelle parole di Gesù: gli apostoli hanno paura, perciò hanno poca fede. Ecco una ulteriore determinazione della fede, molto interessante: la fede non conosce la paura. Se la tempesta infuria continuare a dormire è cosa cristiana, preoccuparsi per la nave che affonda è invece antico paganesimo (l’esempio di fede perfetta infatti è pur sempre il comportamento di Gesù). La fede è dunque una virtù guerriera, difficilissima da ottenere. Cosa dovevano fare infatti gli Apostoli? Non affidarsi al maestro, evidentemente, ma sbrigarsela da soli, ovvero assumere da se stessi e in proprio il comando delle forze della natura, signoreggiando la materia con la potenza dello spirito. La fede è perciò uno stato di coscienza che non conosce assoggettamento alle forze naturali e restaura l’antico dominio dello spirituale sulle cose.
L’ultimo esempio, anch’esso nel senso della difficoltà estrema dell’arte di credere, lo ricaviamo dal Vangelo di Giovanni. Gesù si rivolge agli apostoli e afferma: “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre” (Gv 14, 12). É questo il compimento della fede, ancora incomprensibile agli apostoli, e solo una virtù guerriera può ambire a tale vetta iniziatica. Facciamo però un piccolo passo indietro. Potremmo dire, schematicamente, che vediamo ora configurarsi nel nostro discorrere quattro fattispecie di “fede” raggruppate in due coppie: la coppia della fede semplice, possibile, umana (differente però da ogni possibile “credo” nel senso usuale, niceno, della parola) e la coppia della fede impossibile e sovrumana. L’emorroissa è infatti già presso l’Assoluto, è cuore puramente intuente una potenza salvifica, l’intuizione indeterminata dell’infinita disponibilità dell’Essere ad essere defraudato. Ma il cieco di Gerico si trova su un gradino più alto, perché determina la fede come riconoscimento del figlio di Davide, individuato come forza atta a veicolare la potenza salvifica. Ma al terzo livello della fede siamo ad uno stato di coscienza proprio soltanto dello stesso Gesù, siamo già nella fede sovrumana che riposa nella tempesta ed ha superato ogni preoccuparsi mondano.
Il quarto elemento della fede suona dunque, lo ripetiamo, così: “chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”.
Chi crede in me”: il riconoscimento si determina qui non più secondo le possibilità offerte dalla religione vigente, ovvero come riconoscimento del Messia, del liberatore, ma secondo la richiesta di una nuova e imprevedibile intuizione metafisica, quella dell’intimo e misterioso legame, quasi identitario, dell’uomo Gesù con l’essenza e l’origine di tutto ciò che è. A Filippo infatti, che gli aveva appena richiesto di mostrargli il Padre, Gesù aveva risposto: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Questa chiara visione essenziale non era possibile per nessun apostolo, e soltanto l’abitudine plurimillenaria all’idea dell’uomo-Dio ha potuto neutralizzarne l’aspetto scandaloso. In un certo senso solo apparentemente paradossale, la fede nel Cristo non può essere la base della fede, che dovrebbe maturare piuttosto a partire dallo stato di coscienza della sofferenza, del dissanguamento, di quel perdere vita che scandisce la pena del succedersi dei giorni e costringe al grido presago di verità che ricerca la cura dell’invisibile, insomma dal grado di coscienza denominabile “emorroissa”. La fede nel Cristo è invece da pensarsi come vertice della scala iniziatica, come compimento.
Che le cose debbano stare così, che la fede nel Cristo sia vertice e compimento e pienezza d’essere, lo dimostra il seguito, il “… compirà le opere che io compio”, perché dal riconoscimento corretto di Gesù, dall’intuizione reale, non formale e labiale, della presenza del Padre nella persona Gesù, deriva al credente tutta la potenza del Figlio di Dio. Quando il cristiano ha fede accadono eventi eccezionali. Se un uomo non sa cacciare demoni e operare portenti, non è dunque un cristiano. L’eccezionalità è infatti uno dei contrassegni, assieme all’amore reciproco, del risveglio della coscienza cristiana, della fede. La vita dei santi, come la vita di Gesù del resto, è perciò tutta immersa nel miracoloso, perché una ulteriore ed evidente determinazione della fede è proprio la possibilità di operare sulla terra l’impossibile (L’operazione dei “lumi” di distillare la fede dal miracoloso, alla quale siamo assuefatti, è solo un’astrazione intellettuale, come tale totalmente estranea alla reale dinamica della fede).
Ma come può avvenire tutto ciò? Come possono degli uomini superare in opere persino Gesù? “… perché io vado al Padre”: questa è la risposta del Gesù di Giovanni. Accenniamo un’ipotesi interpretativa. Non un’intensa concentrazione sulla vita e sulle parole del Maestro permetterà a Pietro e a Paolo, dopo la morte di Gesù, di resuscitare i morti, e neppure lunghe preghiere o meticolose ritualità avrebbero potuto mai risvegliare in loro stessi e nei santi a venire la potenza che vanifica la potenza della natura; al contrario, fu proprio il morire indiandosi e l’effusione del Paracleto, insomma fu l’agire cosmico di Gesù (“Io vado al Padre”) a rendere possibile la fede del terzo e del quarto tipo, la fede perfetta che compie prodigi.
Fermiamoci qui, sulla soglia del mistero del Golgota. Per quanto mi riguarda, ho oramai pienamente dimostrato a me stesso la mia assenza di fede, e così facendo ho sollevato alcune questioni sulla fede, sul cuore, su Gesù. É per questa via che abbiamo scoperto l’eccezionale e il miracoloso della fede, della fede del quarto tipo. La fede del quarto tipo è uno stato di coscienza non ordinario, straordinario, eccezionale. Che tuttavia qua e là si ripete, e di cui è giusto che si occupi accuratamente la filosofia dell’eccezionale, il tentativo di avvicinare il Sacro nelle zone più improbabili dell’essere, tra mitologie e sogni, visioni sciamaniche e magiche alchimie del cuore. Il cuore. É infatti questo, il cuore, il cuore del nostro discorso, perché il cuore della fede sembra essere il cuore. Il cuore risvegliato di Nicodemo. Ma cosa significa “cuore”? Il cuore non è soltanto una metafora dell’amore? Che il cuore, il cuore fisico, possa essere una base per il salto nello spirito, come in qualche modo (occulto) accade al cervello per il pensiero? Una base, meglio, per un salto dello spirito nello Spirito? Perché i monaci della Cappadocia si contorcevano sul proprio petto?
D’altra parte, diceva già tutto o quasi, sulla fede e sul cuore, il buon vecchio Pascal (pens. 148): “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione”. Ora, Dio è senza dubbio il più abissale dei misteri, l’oscurità del Nulla promessa dalla luminosità della fede nascosta nei ventricoli del cuore. Se l’uomo del XXI secolo vorrà ancora tentare una scienza di Dio, dovrà dunque risvegliare il pensiero del cuore. In un modo o nell’altro, ma dovrà farlo. É questa la cosa più importante del mondo.
Ad uno scienziato del cuore del XX secolo, forse un cristiano della fede del quarto tipo, venne chiesto una volta da un giornalista se fossero autentici i fenomeni da lui prodotti e come potesse ottenere certi esperimenti, come ad esempio la scrittura a distanza su fogli di carta rigorosamente nuovi, bianchi, ripiegati e tenuti nascosti dai suoi occhi. L’alchimista di San Secondo rispose a modo suo, agendo magicamente e così indicando il suo Athanor alchemico, il centro organico delle possibilità aperte dalla legge terribile. Le cose andarono così: il giornalista fu invitato a nascondersi in tasca un foglio ripiegato e a scegliere un libro tra molti, mentre con due mazzi di carte vennero ricavati casualmente due numeri di pagina nei quali trovare, tra le prime parole, la risposta al quesito “sono autentici?” e a quello “come fa a realizzare simili cose?”. Così, a pagina 264 il giornalista lesse, nel libro da lui scelto: “Autentico senza alcun artificio”, e a pag.172, ciò che ci interessa ora assai di più, questa preziosa indicazione: “Componendoli nel suo cuore”. Il giornalista, già sconcertato, estrasse allora il foglio che si era infilato nella tasca e trovò scritto, «nella limpida grafia di Rol: “Autentico senza nessun artificio”. Più sotto: “Componendoli nel suo cuore”. Rol sorrise. Poi si fece serio e disse: “Nel suo cuore. Ricordi bene, nel suo cuore”».
 
Ricordiamo
nel
Cuore