Nicola Gragnani | Teoretica del sogno

Lezione n. 4
 
“Ora dormi piccolo, buonanotte”
“Sì, ma non vedo l’ora che sia mattina”
“Perché?”
“Perché la notte è come se non esistessi”
(Emanuele, 6 anni, mio figlio).

E se Emanuele avesse ragione? Se davvero noi, di notte, non fossimo affatto? Ma no, ci affrettiamo a dire, questo proprio non può essere: nulla nasce dal nulla. Il risveglio non sarebbe infatti, secondo l’ipotesi infantile, un improbabile ri-nascere dal nulla? In fondo, però, a ben vedere, l’affermazione non presenta caratteri così perentori, non suona infatti “la notte non siamo”, ma, con prudenza e saggezza infantile: “la notte è come se non fossimo”. Vi è infatti nel nostro stato d’esistenza notturno ancora una traccia d’essere, un esistere nella prossimità dell’inesistenza. L’esserci cade in stato di sonno e quasi si disintegra nel niente o quasi si forma ex nihilo, si attualizza la potenzialità del risveglio o del dormire, ed è pur sempre e indubbiamente l’accadimento di un essere del non essere, l’essere della potenza, pur non coincidendo con l’evento apparentemente impossibile del niente generatore. Ma che cos’è in questo caso la potenza? Prima infatti sono cosciente e sveglio, poi mi distendo per lungo su un comodo materasso e non lo sono più, e quindi, da un certo punto di vista, non sono. Il corpo sembra restare solo una massa solida sul letto, abbandonato al suo stesso meccanismo, cullato dalla respirazione, mentre la mente sprofonda nel corpo, oltre i pensieri, oltre le immagini e i ricordi, giù nel corpo, o ancora più giù. Nell’abisso. E’ proprio così che, tutte le notti, non-esperiamo l’esperienza del sonno, e allora davvero noi non siamo, non esistiamo, moriamo. La potenza resta in potenza, nel non reale, nell’’inattuato e ciò che accade è la scomparsa assoluta, il vuoto assoluto: il sonno. Forse a ragione certi bambini, presentendo il nulla presso il dormire, temono il sonno.
Ecco però che, evocato il fantasma del nulla (angosciante certo ma, a pensarci bene, anche benevolo, se è vero che il riposare nel nulla rigenera e ristora il corpo come lo spirito), accendiamo tuttavia, ora e subito, una luce potenzialmente capace di dissolverne la figura spettrale. La questione del sonno, infatti, premessa per una teoretica del sogno e vero a proprio rimosso filosofico (non è fastidioso, per la centralità del cogito, ricordarsi che ogni giorno, per parecchie ore, l’io non è? Non è perlomeno imbarazzante, per l’approccio fenomenologico come per quello analitico che ogni giorno, per parecchie ore, si dia il non darsi di fenomeni e l’assoluta assenza di qualsivoglia proposizione?), la questione del sonno può anche pensarsi in modo diametralmente opposto. Abbandonando pertanto l’ardua ermeneutica del detto di mio figlio, e anzi rovesciandola, potremmo pensare il sonno altrimenti, ancorandolo più che saldamente all’essere, all’essere della coscienza, o perlomeno all’essere del vissuto. Si tratta però, rispetto al primo punto di vista, che è pur sempre esperienziale (l’esperienza di risvegliarsi e constatare, in modo perlopiù del tutto esteriore, il nulla di vissuto di molto tempo passato inavvertitamente), di collocarsi su di un piano puramente ipotetico, affermando che la coscienza, contrariamente alle nostre spontanee deduzioni, resta sempre se stessa, non però nel senso di una vigile consapevolezza, non nel senso dell’autocoscienza, ma in quello della struttura coscienza-soggetto di fronte ad un oggetto-esperito, o perlomeno, dovessero venir meno anche il soggetto e l’oggetto, nel senso della coscienza/esperienza.
Sembrerebbe, più che un’idea, una semplice sciocchezza. Infatti, risvegliandosi, si vede bene che, a parte qualche sogno (se lo si riesce a rievocare), il più della notte è davvero un esser inghiottiti nelle tenebre, perché non c’è proprio modo di ricordare assolutamente alcuna sensazione, alcuna immagine e alcun pensiero occorsi nello stato di sonno. Cosa se ne dovrebbe dedurre, dunque, se non che la coscienza effettivamente non è stata attiva? Non è in fondo autoevidente che nel sonno, in quanto sonno, la persona se la dorme della grossa? Infatti, se la coscienza ancora fosse, non sarebbe automaticamente “sveglia” dormendo? Non è evidente che, sottrattosi ogni oggetto (reale, pensato, immaginato), noi effettivamente non siamo più appunto neppure noi stessi, siamo non-più-soggetti, ovvero una placida indifferenza di carne e pensiero? L’ipotesi sembrerebbe dunque strampalata assai e poco rispettosa della logica, se si concretasse nella proposta di considerare sveglio un essere umano dormiente.
Eppure… non è vero che facciamo una grande fatica a ricordare i sogni? E non fatichiamo altrettanto nel ricordare l’accaduto quando la nostra coscienza si trova in stato di alterazione, ad esempio per via dell’assunzione di sostanze o anche solo per la stanchezza? E che cosa ricordiamo del nostro primo anno di vita? E della vita intrauterina? Sì, certo, vero, in questi ultimi due casi si può dubitare che si possa parlare propriamente di un esser coscienti, tuttavia, proprio per questo, non risulta interessante che il neonato e il bimbo che gattona siano immersi nell’esperienza e vivano con estrema intensità la vita ma che, tuttavia, ciò non possa essere ricordato? Insomma, sono o non sono coscienti i piccolissimi uomini? Non è insomma vero fino all’indubitabilità che si possono dare esperienze, ed esperienze anche decisive (i primi passi! Le prime parole!) senza che l’uomo possa ricordarle? Ecco, questa è la prima acquisizione fondamentale per affrontare l’idea del sonno non costruita a partire dalla nostra non-esperienza abituale del sonno stesso, ovvero l’idea che per l’appunto il sonno sia un’esperienza. Si potrebbe dire così: ci sono esperienze che ricordiamo, altre che non ricordiamo, ed in posizione mediana quelle che fatichiamo assai a ricordare. Infatti, come la mettiamo con certi sogni sognati durante la notte? Ci svegliamo, magari con la sensazione di aver sognato, sentiamo la presenza del sogno, di alcune immagini, proviamo anche ad afferrarle ma niente, nulla viene alla mente; passa qualche minuto, e anche la sensazione della presenza del sogno finisce per svanire. Eppure il sogno è avvenuto e nel sogno, presumibilmente, abbiamo visto oggetti, compiuto azioni e movimenti, parlato, pensato, ci siamo emozionati per questo o per quello: sono avvenute moltissime cose, e, nel momento del loro avvenire, sono avvenute al cospetto della coscienza (coscienza di sogno, si intende). Dunque? Non ricordiamo nulla di quel sogno, eppure il sogno è stato. Vi è dell’esperito che si sottrae alla coscienza di veglia e non diventa per lei fenomeno.
Ora, radicalizziamo l’idea con questo piccolo esperimento mentale: immagina che quest’atto di oblio del sogno - così tipicamente umano da ripetersi ogni giorno (si recupera, per lo più, qualche sogno, non l’intero sognato della notte) - immagina che l’oblio coinvolga la totalità dei sogni della notte di un uomo (questo potrebbe davvero avvenire e a volte avviene, e allora la persona presume d’aver sognato o dalla vaga sensazione di sogno oppure, scomparsa anch’essa, dalla semplice credenza di continuare a sognare in quanto si sognò un tempo e anche in quanto si dice che gli uomini sognino). Ma, immagina ancora, immagina che tutti gli uomini perdano la facoltà di ricordare anche solo un sogno (anche questo potrebbe benissimo avvenire, perché la facoltà dell’oblio del sognare è effettivamente attiva nell’uomo, e dunque passibile di estensione e potenziamento forse fino alla perfezione della sua funzione, l’intero oblio dell’esperienza del sogno). Immagina, infine, che passino centinaia di migliaia di anni e che l’uomo, in questo lasso di tempo, non recuperi affatto la facoltà di ricordare i sogni. I sogni scomparirebbero allora da ogni forma del sapere umano, e non ne resterebbe nessunissima traccia. Dunque, che cosa avremmo nel nostro uomo immaginario? Un essere che sogna tutte le notti inconsapevolmente. La coscienza di veglia, sprofondando nella notte, passerebbe a coscienza di sogno ma, nessuno avvertendolo, l’esperienza del sogno sarebbe considerata esattamente identica a quella del sonno. Il sogno sprofonderebbe nel sonno, pur rimanendo sogno.
Nel sogno, tuttavia, avvengono esperienze. Non le ricordiamo, ma ci sono. Ora, siamo in grado di capire? L’uomo non ricorda tutto ciò che esperisce, non la vita intrauterina, non i primi anni di vita, non un’infinità di eventi, non gli stati di ubriachezza, non un’infinità di sogni – non un’infinità di sonno. L’ipotesi è dunque questa: al variare di stati di coscienza corrisponde una grande difficoltà del ricordare, dall’interno di uno stato, gli stati altri. Intanto, ciò significa, innanzitutto: si danno stati, stati di coscienza. La veglia, il sogno, il sonno, e poi anche altri, come lo stato estatico della coscienza sciamanica, lo stato ipnotico e altri ancora. Quando sei sveglio, è difficile per te ricordare il sogno; quando poi dormi e sogni, è difficile che dentro il sogno ti ricordi lo stato di coscienza di veglia (in entrambi i casi, non si tratta di impossibilità, ma di difficoltà, per quanto il secondo ricordo sia ordinariamente assai più arduo del primo). E’ arduo infatti mantenere in connessione stati di coscienza non contigui, perché il mondo oggettivo della veglia spezza e rovescia l’universo onirico soggettivo, come il fluire di immagini sognanti spezza e rovescia le solidità spazio-temporali del mondo delle forze fisiche. Si danno stati di coscienza diversi, si danno mondi diversi. Si danno differenti modalità di afferramento dei mondi diversi. Si danno differenti modalità d’essere uomo nei differenti mondi. Nel sonno però la difficoltà di penetrazione da stati altri sfiora l’impossibilità per quanto, l’abbiamo immaginato, l’abbiamo capito: è possibile che lo stato di coscienza di sonno sia, ma anche che sia tale da risultare inaccessibile al ricordo.
Ma di quale ricordo stiamo parlando? Del ricordo di tutti, naturalmente e presumibilmente, quello di cui si occupa l’uomo comune come anche la scienza, la filosofia, la psicologia? Ma la filosofia della mitologia cerca il ricordo eccezionale, l’esperienza eccezionale per aprire la via a possibilità altre di pensabilità e abitabilità del mondo. Per questo ci interessa ascoltare ciò che è stato esperito nel sonno da uno, da pochi, dal caso d’eccezione, dal veggente. Un veggente è stato, nei primi anni del novecento, Rudolf Steiner. L’apertura filosofica che ci permette di ascoltarne la testimonianza consiste nella suddetta possibilità che esista l’esperibile extra-coscienziale, cosa assolutamente non contraddittoria per via dell’esistenza fattuale di stati di coscienza differenti, per via della potenza dell’oblio nell’uomo e infine perché, come insegna la psicoanalisi, nell’uomo possono emergere vissuti certamente soggettivi ma non riconosciuti come tali dal soggetto stesso, non ricordati, apparentemente estranei, insomma inconsci. Quando tuttavia la riflessione lascia spazio alla veggenza, avviene come un urto nella narrazione,
e questo è l’urto del positivo. Si dà cioè un fatto (fosse anche solo il fatto del darsi della più sfrenata swärmerei), un fatto che la riflessione non avrebbe potuto trovare da sola, qualcosa che si situa al di fuori del movimento logico del pensiero: un fatto, appunto. L’effetto dell’immersione nel risultato della veggenza può risultare ed è naturale che risulti, dunque, straniante. Vediamo.
«Ogni volta che ci addormentiamo», afferma Steiner, «il nostro essere spirituale-animico o, come siamo abituati a chiamarlo in Antroposofia, il corpo astrale e l’io penetrano nei mondi spirituali uscendo dal corpo fisico e dall’eterico e in questi tornano ad immergersi solo al momento del risveglio». [1] Sì, l’ipotesi risultava ben fondata: il passaggio dalla riflessione pensante all’universo positivo dell’esoterismo risulta, effettivamente, del tutto o in parte straniante. La terminologia, innanzitutto: fantasmagorie come il corpo eterico e il corpo astrale, una stramba e per certi versi quasi disgustosa riduzione della complessità dell’essere uomo ad uno spezzatino di io e corporeità varie… infine ed inoltre, anche volendo eliminare qualche astrusità pseudo-occulta, che cosa resterebbe come significato del passaggio suddetto se non la constatazione in fondo banale che nell’addormentarsi, secondo la metafora, è come se uscissimo dal corpo per sprofondare nella zona più oscura e profonda della nostra interiorità, qui denominata per artificio retorico “mondi spirituali”? Il problema però, nel tentare di passare da un linguaggio ad un altro, dal pensiero possibile al pensiero impossibile, consiste in primo luogo nel riuscire a non portare nell’impossibile le possibilità di pensiero usuali. Qui, infatti, non si tratta affatto di metafore e figure retoriche. L’idea del sonno restituitaci dal veggente, frutto della conoscenza superiore (non ipotetica e neppure sperimentale nel senso delle scienze), è infatti questa: nel sonno l’anima penetra realmente in mondi sovrasensibili e dunque realmente abbandona il corpo. Il corpo sembra soltanto un corpo abbandonato sul letto, dicevamo inizialmente, e questa impressione, vera la veggenza in questione, risulterebbe massimamente corretta: l’anima, mentre il corpo dorme, è infatti assente, è altrove, viaggia.
Ora, per giustificare o per spiegare il senso e l’esistenza del corpo eterico e di quello astrale, nonché la possibilità di un’uscita dal corpo fisico, nonché la possibilità di un’osservazione del fenomeno per via di veggenza in generale, nonché la possibile veridicità di questa chiaroveggenza in particolare, per giustificare inoltre tutte le affermazioni che, perentoriamente, stanno qui per seguire queste parole, bisognerebbe impegnare forze e tempi che in questo momento e in questo spazio di filosofia mitologica virtuale non possediamo.
Rimandiamo ad un’ulteriore lezione una disamina almeno un poco più precisa dell’antroposofia steineriana in generale e procediamo, senza certezza fondativa alcuna rispetto alle nostre asserzioni, ad un sintetico e perentorio schizzo dell’essenza del sonno ricavabile, a detta del filosofo-veggente, dalla conoscenza immaginativa, intuitiva e ispirativa che certi uomini eccezionali, forse e a suo dire, possiedono.
Che cosa è, dunque, il sonno? Cosa accadrebbe, insomma, all’anima “io-corpo astrale” nel momento del suo congedo dalla dimensione corporea? Accadrebbero cose di questo tipo:
1) «Ogni sera, quando ci addormentiamo, torniamo indietro nel tempo fino al momento iniziale della nostra vita; risaliamo anzi oltre la vita terrena, sino a quella anteriore alla nascita» [2];
2) «Quando l’anima umana passa dallo stato di veglia a quello di sonno, la prima condizione che attraversa, in modo inconscio, ma assolutamente reale e vivo, è un sentirsi vivere in un etere universale indifferenziato» [3];
3) «E mentre l’anima si sente così sospesa nello spazio, sorge in essa una forte brama dell’appoggio divino» [4];
4) «Poi, durante il sonno, ad un certo punto è come se l’uomo con la sua anima non fosse più effuso nella generalità del Cosmo, egli sente come se le singole parti del suo essere si scindessero… e dal fondo della sua anima si leva allora una paura indistinta» [5];
5) Nel sonno «solido e reale è l’ordinamento morale del mondo, mentre quello naturale appare come qualcosa di sognato, puramente astratto. E’ difficile immaginare ciò, eppure è così» [6];
6) Nel sonno «vediamo come dalle azioni libere da noi eseguite vada intessendosi il Karma che si esplicherà nella prossima incarnazione» [7].
Dunque, che dire? Nel sonno, per la via della ricapitolazione, ripercorriamo a ritroso la nostra vita, perché il tempo, nella notte, cambia verso, inverte la direzione. Nel sonno si vive l’esperienza dell’unificazione con la totalità delle forze cosmiche. Nel sonno si radica la nostalgia del divino, e dunque è nel sonno che si genera in ultima analisi il sentimento religioso dell’essere umano. Nel sonno si sperimenta poi anche l’opposto dell’unificazione, si vive nella paura angosciante generata dalla sensazione dell’essere fatti dionisiacamente a pezzi, smembrati. Nel sonno, rovescio della veglia, si rovescia anche il mondo, e così risulta reale lo spirituale ed astratto, ondeggiante, sognante ed irreale invece il mondo fisico. Nel sonno, infine, l’anima già lavora alla costruzione del destino della propria anima futura. Bene, ma che dire, ora e qui, di tutto questo, di questo eccesso di senso del sonno, così infinitamente lontano dal nostro esperire il nulla del dormire? Nulla, appunto. Il salto dal nulla del sonno alla sua pienezza risulta ancora, per noi, troppo astratto, forse assurdo, certamente prematuro. L’immagine mitica qui tracciata del sonno, tuttavia, penetra adesso nell’anima del lettore, cominciando così il suo lento lavoro: il mito del sonno, rigettato ora dal conscio come sciocca superstizione, oscurato, impiegherà come ogni mito le sue forze – sappilo, oh lettore! – per alimentare e ristrutturare il pensiero, per cominciare a direzionarlo verso altrove, magari non sfiorando neppure quello cosciente, certo ora troppo lontano, ma sì quello che precede il pensiero, il pensiero cosciente-incosciente, arcaico e selvaggio, il fiume d’immagini del linguaggio del sogno.
 
 
Il sogno

Dal nulla un mondo di immagini, suoni, esperienze, trasmutazioni e salti spazio-temporali: dal niente del sonno passiamo ogni notte, ad un certo punto e come per magia, allo stato d’essere del sognare. Oppure: l’anima viaggiante, esperita la vita alla rovescia del sonno, unificatasi e smembratasi come l’Osiride egizio, tessuto un poco di karma, comincia a rientrare nella sfera corporea e così, raggiunto l’eterico, produce il mondo delle rappresentazioni oniriche, sintesi originale della coscienza di sonno e della coscienza usuale. Ma tutto ciò, sia quel che sia, e per quanto misteriosi siano il sonno, il sogno e il passaggio dal sonno al sogno o dal sogno al sonno, di solito tutto ciò non interessa quasi nessuno. Chi ha tempo infatti, all’inizio dell’epoca della riproducibilità tecnica dell’uomo (secondo la giusta definizione della nostra era del professor Manfredi), chi ha tempo da perdere con il sognare? Un altro sogno, infatti, ci richiama al mattino con forza a se stesso, un altro universo di immagini e di azioni, più denso del primo ma, proprio come il primo, capace di assorbire e risucchiare in sé tutta la coscienza di un uomo. Certo, proprio così: il mondo della coscienza di veglia è l’esser-sprofondati nelle cose, nelle azioni, nelle prassi, nell’asfalto, nelle merci, nelle reti virtuali e reali, un esser-catturato dalla potenza della massa, dell’immagine e dell’organizzazione sociale, una triplice potenza immane, travolgente, irresistibile, addormentante. Intrappolati, catturati, imprigionati, ma di una prigionia stranissima, in modo che più ci si abbandona alla cattura, più si manifesta il piacere della resa, della giusta resa, beninteso, l’arrendersi all’esistere nella sua struttura, l’arrendersi e inebriarsi tra le cose e le prassi sociali. La Maya e il Sistema (chi potrebbe negare al “Sistema” lo statuto di Sposo di Maya e, oramai, di topos della mitologia otto-novecentesca?) premiano infatti ogni deporre le inutili e pretestuose armi con un dolce e languido piacere, producendo un frenetico movimento immobile apparentemente eterno, la vita dell’uomo comune. Apparentemente, perché all’uomo, acclimatatosi fin troppo tra oggetti, serie televisive, prassi lavorative e vacanze, sopraggiunge infine, falce alla mano, la morte.
Ma anche della morte, oggigiorno, non val più la pena di parlare. Perché filosofare la morte, poetarla, dipingerla o celebrare requiem? Non ci sono cose molto più eccitanti ed intriganti della morte? Così la morte sopravviene al nostro uomo - che in fondo se non nel corpo almeno nel pensiero è già divenuto pienamente tecnico, unidimensionale: robot - e lo trova completamente impreparato, addirittura neppure più spaventato, insomma sopraggiunge e se lo porta via così come lo trova, addormentato. La coscienza di veglia, infatti, è sognante, e noi uomini davvero viviamo dormendo e soltanto di un pizzico superiamo in autoconsapevolezza la coscienza delle api, tanto immersi siamo, noi come loro, a curare laboriosamente e infaticabilmente l’alveare. Il dormire della coscienza di veglia, tuttavia, che non sa niente del suo dormire e se la ride del discorrer filosofico come della morte e dei sogni, differisce comunque dal dormire notturno, è un dormire specifico (molto meno riposante), un roteare tra le immagini del Maya-Sistema con leggi e regole molto particolari, diverse da quelle del sogno.
Lasciamo quindi il sogno della veglia anche perché gli svegli, da troppo tempo immemori del logos che è, nulla sapendo del proprio essere-nel-mondo, nulla saprebbero indicarci rispetto alla natura dei sogni, così come è anche vero che essi, dimentichi del proprio essere sognante, pagano ogn’ora l’oblio del sogno dormendo la vita. Lasciamo la veglia tenebrosa, dunque, e addormentiamoci con lucidità, invocando la Notte, dea dell’onirico, perché possa ispirarci il vero, approssimandoci i sogni. Orsù, cambiamo mondo! Perché i sogni sono il primo varco oltre i confini del nostro mondo. Un po’ come Alice, dobbiamo quindi lasciare le coordinate di senso della realtà per conquistarne di nuove. Come Alice, dobbiamo sognare il paese delle meraviglie. Ma allora è proprio con Alice, dentro il sogno di Alice, che cominciamo a pensare il sognare.
La piccola Alice, seduta sulla sponda di un fiumiciattolo accanto alla sorella intenta alla lettura, non sa bene cosa fare, se alzarsi o meno per cogliere delle margherite, mentre «il caldo della giornata la faceva sentire torpida e istupidita… quand’ecco che d’un tratto le passò accanto di corsa un coniglio bianco dagli occhi rosa»8. Il coniglio, come noto, correva dicendo fra sé e sé «Povero me! Povero me! Sto facendo tardi!», e certo Alice «avrebbe dovuto meravigliarsi, ma lì per lì la cosa le sembrò assolutamente naturale».
Alice, annoiata, si è addormentata. Il passaggio dalla veglia al sogno non viene in nessun modo avvertito dalla piccola, perché le cose stanno proprio così: il passaggio dalla veglia al sogno è un non-fenomeno, un’astrazione, qualcosa che non si dà come un vissuto reale. Un momento si è davanti ad oggetti oggettivi, l’istante successivo si è ancora davanti ad oggetti, ma irreali, soggettivi. Tuttavia, ovvio ma da rimarcare subito, l’oggetto sognato, non avvertito come tale, risulta irreale solo all’esterno del sogno, a posteriori, ripensando al sogno dal mondo della veglia. Il prato della veglia, dove corre il coniglio, è invece per Alice dormiente lo stesso prato dove Alice si è addormentata. Sì, perché i sogni, talvolta e spesso, cominciano a tessere la loro trama a partire da elementi del reale appena abbandonato, così come, ma sono cose note, il reale può poi interagire ancora con la formazione del sogno, o con la sua fine, come accadde ad Alice al momento del risveglio, quando il mazzo di carte viventi, offese dalle parole di Alice in tribunale, si alzarono in aria e discesero in picchiata sulla bambina, che tentò allora di scrollarsi le carte di dosso, «e si trovò distesa sulla sponda, con il capo in grembo a sua sorella, che le stava delicatamente togliendo dal viso delle foglie morte scese» [9]. Le foglie sul viso e il movimento della mano della sorella divengono immediatamente, nel sogno, le carte in picchiata e il gesto di Alice per proteggersi il viso. Questo scambio tra la foglia e la carta vivente, lo scambio realtà-sogno è dunque un fatto reale, dimostrato inoppugnabilmente dalla favola, che attesta la possibilità della realtà di comunicare con ciò che crea l’immagine di sogno.
Sembra quasi che il sogno, sentendo il pericoloso risvegliarsi della sensibilità, tenti disperatamente di mantenersi in vita, di conservarsi come sogno per non svanire, tramutando uno stimolo sensoriale tattile sul volto in un’immagine perfettamente coerente col contenuto del sogno, un’immagine perciò credibile per il sognante. L’eccesso di emozione, tuttavia (l’assalto delle carte), nonché la persistenza dello stimolo reale (le foglie rimosse dal volto), nel sogno di Alice, dissolsero comunque l’elemento onirico; in altri casi, tuttavia, certamente la trasformazione della sensazione reale in sensazione irreale riesce certamente e benone, e con ciò il sogno viene salvato, e può continuare ad essere. Tutto ciò che è lotta per essere, e il sogno non fa eccezione.
Chi volesse tuttavia, dall’osservazione facile della corrispondenza tra stimolo esterno sul corpo sognante e realtà interna sognata, dedurne temerariamente che il sogno è una trasformazione in immagini e suoni onirici di movimenti materiali corporei esterni ed interni alla corporeità, chi volesse seriamente ragionare così, sostenendo quindi insieme e per forza di cose la tesi dell’assoluta arbitrarietà delle immagini di sogno, l’essere il sogno nient’altro che immagini casualmente e disordinatamente presenti alla mente, comprenderebbe la proteiforme natura del sogno quanto colui che, notata la corrispondenza fra la paura e l’assenza di salivazione, concludesse soddisfatto e compiaciuto: “ecco che cos’è la paura, eureka! E’ l’assenza della salivazione!».
Alice non si stupisce affatto che il coniglio dagli occhi rosa parli. Avrebbe dovuto stupirsene, come afferma lei stessa, ma, ripetiamo la citazione, «lì per lì la cosa le sembrò assolutamente naturale». Ecco una caratteristica maestra del sogno: il meraviglioso, eccezionale, impossibile, assurdo, irreale, illogico non colpisce il soggetto agente nel sogno, innanzitutto e per lo più questo meravigliarsi del meraviglioso non accade. La coscienza di sogno si sente a casa propria nell’impossibile. Il soggetto sognante sa il suo nome, riconosce il nome delle cose, delle persone, ragiona e altro ancora, ma non nota, non ricorda, curiosamente, che le cose che ricorda benissimo, i conigli ad esempio, non sanno affatto parlare. Come è possibile questa strana forma di oblio? In mancanza di meglio, rispondiamo per ora tornando all’ipotesi precedente, e poi passiamo oltre, ritornando in superficie, sulla struttura stessa del sogno. Dunque, come mai ricordiamo un sacco di cose ma non, ad esempio, che cadere in un pozzo profondissimo cercando un coniglio frettoloso, come accade ad Alice, è pericoloso? Perché Alice se fosse caduta in un pozzo del reale sarebbe stata atterrita dall’esperienza e invece, nel suo viaggio verso il centro più profondo del suo sogno, volteggiando nel buio, può non avere paura? (Spesso si ha paura anche in sogno, ovvio, ma nella realtà non si può non aver paura, nel sogno invece questo è possibile). Dunque, rispondiamo così: il sogno è, e dunque protegge se stesso, tanto con gli scambi stimolo esterno-immagine interna, quanto col nascondere la propria natura di sogno. Il sogno, per poter essere, ha bisogno che il sognante creda nella realtà sognata, ha bisogno di mentire, di ingannare. Se all’elemento irreale corrispondesse il ricordo dell’impossibilità in corso, ciò condurrebbe, innanzitutto e per lo più, al cessare del sogno, al risveglio. Il sogno dunque addormenta ulteriormente l’agente del sogno dentro il sogno, lo ipnotizza, lo rende dimentico delle possibilità e impossibilità del reale. Il sogno, per motivi che per ora ci sfuggono, ha bisogno di svilupparsi attraverso irrealtà, e lo fa sottraendo alla coscienza alcuni elementi del senso della realtà.
Ma torniamo in superficie. Alice guarda il libro della sorella e le margherite, e poi d’un tratto vede il coniglio bianco. Vede: il sogno è qualcosa che in primo luogo ha a che fare con il vedere. Gli occhi sono chiusi, ma Alice vede il coniglio passargli di fianco. Con che cosa viene visto dunque il coniglio? E quale luce illumina il coniglio sognato? Capita anche con i ricordi, capita anche con le fantasie: la mente osserva e crea immagini dentro se stessa, perché la mente stessa è una forma della luce. Ciò con cui osserva lo spazio da essa stessa aperto è poi di nuovo se stessa, perché per la visione di enti fisici è necessaria la scissione (reale ma intellettuale) dell’occhio e della luce (in realtà assai più che interconnessi), mentre nel non spaziale l’apertura e il guardare sono un tutt’uno. Strano non-spaziale, però, se è vero che le cose del sogno accadono in certi luoghi, di qua o di là, figure che compaiono a destra e spariscono in basso e così via. La mente immaginativa riproduce infatti il movimento dell’occhio, lo ha assorbito ed interiorizzato, lo ha assunto come maestro, come modello, e così costruisce immagini ad immagine e somiglianza delle immagini percepite sensibilmente. Noi siamo così doppiamente avvolti nella maya: innanzitutto con la sensibilità, con la nostra esposizione carnale costante e inesorabile, e poi con l’universo immaginativo interiore.
E come gli occhi non cessano di vedere persino quando arrischiamo le più alte speculazioni, anche il fluire delle immagini interiori non cessa sostanzialmente mai. Infatti non è una nostra proprietà. In un certo senso, anzi, sono le immagini dall’interno ad espropriarci, conquistandosi spazio, richiedendo attenzione. Il mondo copione dell’immagine preme e vuole vedere la luce, perché la luce non ha bisogno di forzare nulla per darsi all’uomo, ma le immagini invisibili sì, devono invadere la coscienza per imporsi contro altro o per affiancare altro. Le immagini-fiume fluiscono così verso ciò che vogliono, il centro dell’attenzione. Quando lo conquistano nella veglia, accadono il sogno ad occhi aperti, la fantasia oppure la pazzia, nella notte, invece, si genera lo stato di sogno. Eppure, il soggetto sognante è cosciente, è cosciente di fare questo o quello, ed è in particolare cosciente della propria corporeità di sogno (della riproduzione sognante della sua corporeità), ovvero si muove con il suo corpo di sogno.
Il corpo di sogno è diverso dal corpo russante disteso sul letto. Ma è un corpo, se è vero che il nostro corpo non è per noi, fenomenologicamente, un essere in sé materiale, ma primariamente e unicamente è il nostro afferrare, avvicinarsi, allontanarsi, saltare, camminare, guardare, toccare, abbracciare. Il corpo è il nostro esser-situati, individuati, è sentire la differenza, l’alterità, è ciò che percepisce la resistenza; si può negare che tutto questo accada nel sogno? Evidentemente no, e dunque non si può che convenire che nel sogno, come nella veglia, abbiamo un corpo. Un corpo per certi versi differente, certo, ma indubbiamente un corpo. Questa piccola riflessione sul corpo, sia detto per inciso, è allora forse un’introduzione a ciò che si deve cominciare a pensare quando si affronta l’idea esoterica della molteplicità dei corpi dell’essere umano. Non stiamo dicendo, tuttavia, che il corpo di sogno usuale sia identico a ciò che si denomina “corpo astrale”, ma solo che l’abituarsi a pensare al corpo di sogno e alla sua differenza dal corpo di veglia conduce la mente verso la possibilità dell’esistenza di un corpo eterico o di un corpo astrale. E’ un fatto per chiunque, insomma, se si vuole per una volta pensarlo, che nel sogno afferriamo un oggetto con un corpo differente da quello che denominiamo “corpo fisico”. L’oggetto sognato viene afferrato dalle mani, questo è il fatto.
E’ importantissimo, per il discepolo della filosofia della mitologia, riflettere sul proprio essere spazialmente, temporalmente, fisicamente attivo dentro il sogno pur essendo staticamente sprofondato tra le lenzuola. Qui infatti tutti, tutte le notti, esperiamo la possibilità fondamentale che la mitologia filosofica, lentamente e lezione dopo lezione, mira a rendere perlomeno verosimile: l’esistenza di una possibilità d’esistere ed agire anche a prescindere dal nostro corpo fisico. Infatti, noi viviamo già adesso, ogni notte, in un mondo numero 2, proprio come ci accadrà in futuro, quando moriremo. Sia chiaro, come la veglia è diversa dal sogno, e il sogno dal sonno, così veglia, sogno e sonno differiranno certamente dalla coscienza post-mortem, che sarà per noi uno stato assai differente tanto dal mondo sognante della non continuità spazio-temporale quanto dalla densità gustosa dell’esser-carne nel mondo della necessità materiale. Assumere consapevolmente il mondo di sogno nella propria vita cosciente risulta dunque un importante esercizio di meditazione per cominciare a preparare il nostro essere profondo all’esperienza decisiva, quella definitiva, allo shock della morte.
Una buona filosofia, ci insegna il maestro Platone, è infatti essenzialmente una preparazione alla morte. Morendo, agiremo senza il corpo abituale. Saremo spiazzati dall’esperienza, e avremo paura. Così, è cosa buona e giusta, nell’attesa dell’ineluttabile, riflettere sui sogni e ricordare i propri sogni. E’ cosa buona e giusta, nell’attesa dell’ineluttabile, acquisire maggiore consapevolezza del fatto del poter esperire anche senza l’attività dei sensi. Il sogno è così un esercizio vivente di morte, è questo percepire senza sensibilità, sentire senza i sensi, e forse talvolta senza senso. Non si tratta infatti, necessariamente, di cercare un senso dei sogni ma, innanzitutto, di familiarizzarci con il sognare stesso, con l’atto del sognare, con il corpo di sogno, con lo spazio senza leggi del sogno, con le cose che vediamo, con le cose che diciamo e ci vengono dette. Per la teoretica del sogno non è in primo luogo decisivo il significato del sogno, ma l’essere del sogno, la sua enigmatica presenza. Anzi è proprio così, isolandolo da ogni senso ma prestandogli ugualmente ascolto, osservandolo come si osserva un dipinto o una bella catena montuosa, senza troppo riflettere, è proprio così che il sogno si manifesta per quello che è: una sfinge. Il sogno è una sfinge, se riusciamo a strapparlo al movimento mortifero della bidimensionalità abitudinaria dell’odierno e del quotidiano in generale.
Infatti, il sogno è strutturalmente profondo, non perché necessariamente il suo senso sia profondo, ma perché si forma nel profondo, nel profondo della notte e della psiche (ammettendo che la psiche sia perlomeno implicata – co-implicata? - nella produzione del mondo sognante). Ora, sia detto con chiarezza estrema: noi rinneghiamo oggigiorno tutto ciò che manifesta i caratteri della profondità. Noi siamo nell’epoca della bidimensionalità elettronica, che estroverte l’essere nello spazio virtuale dello schermo. Ciò che è interno, il “dentro” (per quanto il linguaggio ci inganni certamente con la parola “dentro”, così inadatta al non spaziale), si cristallizza e condensa nel “fuori”, trova oggi una pronta visualizzazione virtuale in fenomeni come, ad esempio, WhatsApp o Facebook. L’identità reale, di cui l’uomo sempre abbisogna, si forma così, nell’epoca del dominio inglese del pianeta terra, attraverso un doppio virtuale. L’esperienza è elettrizzante, intanto perché veicolata dall’elettricità, ma anche e soprattutto perché si è contemporaneamente in un luogo e in un altro, con alcune persone di qua, ma con altre altrove, nell’aldilà tecnico. Il piacere e la leggerezza accompagnano cioè l’esperienza della socializzazione virtuale, ovvero si prova una forma del piacere e ci si sgrava costantemente del peso d’esser sempre in una situazione determinata, con determinate persone e così via. Non si vive più l’esperienza dell’isolamento esistenziale e si è sempre e per sempre, fino alla morte, connessi.
Ma l’esperienza dell’isolamento esistenziale era, in un certo senso, l’essere-uomo. L’uomo bidimensionale, fattosi identità virtuale, tradottosi nella bidimensionalità dello schermo, per quanto non se ne accorga, ovviamente, vive invece una situazione stranissima: quella di non essere. E’ lo svuotamento assoluto dell’anima. L’interiorità intrappolata, ore ed ore ogni giorno, nell’ebrezza della rete, perde via via la cognizione di ciò che è “singolo”, “proprio”, “privato”, perde le possibilità più essenziali: il “custodire”, il “celare”, il “silenzio”, il “pensare”. Nella baraonda delle immagini, dei suoni e delle parole, non c’è tempo e modo di pensare. Bisogna rendersene conto: ci troviamo di fronte ad una svolta epocale davvero, ad un uomo che viene ad essere, crescendo in rete, un altro uomo, similissimo all’ultimo uomo profetizzato da Nietzsche. Per lui, tutto è piatto come il suo schermo, perché davvero, ontologicamente, la sua anima si è appiattita appiccicandosi alla luminosità del suo Hi-Phone. La sua anima – e l’anima per definizione non ha infatti luogo – non è più “dentro” di lui ma, si potrebbe dire, tra lui e la sua connessione; dunque, per forza di cose, all’esterno. L’uomo che va formandosi nel XXI secolo presenta dunque l’anima non più dentro di sé, ma all’esterno di se stesso. E’ quindi un altro uomo, un uomo che può fare tante cose anche molto bene, ma non può più farne altre. Non può più veramente pensare, innanzitutto, almeno nel senso filosofico del termine “pensare”. Non può “poetare”, inoltre, come non può “dipingere” e men che mai vivere esperienze “mistiche”, e non può neppure più “rovesciare il mondo”; per cose di questo tipo infatti bisogna che l’anima sia “dentro” di noi, che sia la nostra profondità. Per l’arte, la filosofia e la vera religiosità, come anche per la ribellione, bisogna che esistano la solitudine e la sofferenza. Ora invece l’anima, attratta come da una calamita, è saltata fuori, è esondata, ed è difficile da prevedere il suo destino futuro, perché l’anima è, ora e qui, oggi, la nostra superficie esteriore ed esterna.
L’anima, attratta e catturata nella rete, è scomparsa. Non ha più bisogno di idee o di divinità o di particolari usanze quotidiane per sopportare la vita, non soffre per nulla l’assenza di senso o la morte di Dio, non ha bisogno di nulla, sta bene così, sta bene lì dove si trova, tra il proprio corpo e la rete, lì, sulle mani che digitano; si sente a casa proprio lì, sullo schermo. Quest’uomo, ritorniamo all’ipotesi già precedentemente posta come esperimento mentale, probabilmente cesserà di sognare. Non sognerà e già non sogna più, sia nel senso del non poter più prospettarsi nient’altro che la natura e la società che già lo circondano, sia nel suo significato più letterale: l’uomo perderà la facoltà di sognare. Perché il sogno viene dal profondo ed è legato all’anima. Ma come potrà il sogno tradursi nell’impulso elettronico dell’Hi-Phone? Non potrà infatti, per cui il sogno è già oggi un fenomeno interiore in via di estinzione. Presto gli uomini non riusciranno più a sognare, è evidente, oppure, se sogneranno ancora, tuttavia non avranno più la possibilità di afferrare la benché minima immagine di sogno. Non sapranno di sognare, e con ciò, fattualmente, non sogneranno.
 
 
Il senso del sognare
 
Ci occupiamo ora, soltanto ora, del senso del sognare. Non a caso “soltanto ora”, perché prima del significato dei sogni, più interessante e in fondo più sensato è l’esser stesso del sognare, la sua presenza. Ogni notte vediamo senza aprire gli occhi, udiamo senza udire, afferriamo senza mani: questo è l’essenziale, e in questo essenziale già additiamo, ma ancora cripticamente, il significato più profondo dell’esperienza in questione. Il problema del significato dei sogni, meravigliosamente risollevato anche in seno alla cultura materialista dalla psicanalisi, rischia infatti di obliare l’essere stesso del sogno, che è ed ha una sua dignità a prescindere dal problema del suo senso eventuale. Prima di interrogarci su quale possa essere il senso della fantasia, è infatti bene fantasticare, prima di pensare al perché l’uomo elabori la speculazione matematica, è bene saper pensare matematicamente, prima di pensare al senso del guardare, è bene saper guardare attentamente e saper “vedere” anche il guardare, soffermandosi con consapevolezza sui movimenti oculari, i colori, le prospettive, gli abbagli ecc. A causa della psicanalisi sembra invece che, del sogno, debba soltanto ricercarsi il significato, come se il suo essere fosse scontato. In verità, se anche il sogno fosse privo di uno o più significati funzionali, il sogno sarebbe pur sempre degno di considerazione, come lo è un bella rosa a prescindere dal senso eventuale della sua bellezza. Il sogno infatti, come la rosa, è di per sé bello. Il sogno è di per sé, a prescindere dal sognato, sempre affascinante. Sprofondando invece subito nel significato del sogno, rischieremmo perciò di perdere il sogno; così, ad esempio, non potremmo interrogarci sulla spazialità o sulla temporalità del sogno, ovvero, poiché spazio e tempo non possono non implicare la sostanza, non potremmo porre questa questione: di che pasta è fatto un sogno? Qual è la sostanza del sogno? Interdetto al pensiero il sentiero che vorrebbe porre il cervello come sostanza del sogno (ma oggi, ahimè, più volte si scambia la causa con la sostanza, come se il falegname fosse il tavolo, come se il papà fosse il figlio, come se il cervello – eventuale causa o concausa del sogno – fosse il sogno stesso!), si potrebbe pensare all’immagine, all’immagine pura, semplice, svincolata dall’estensione. La pura immagine senza sostrato è il sostrato del sogno? Eppure anche i ciechi dalla nascita, si dice, sono capaci di sognare. E dunque, la sostanza del sogno non sarà la pura sensazione, il puro percepire stesso?
Ma dobbiamo procedere con maggior ordine. Infatti, ci siamo ripromessi, anche per non deludere interamente le aspettative del lettore - da tempo in attesa delle parole “psicanalisi” e “significato” in una lezione sui sogni – di discutere il problema del significato dei sogni. Dicevamo, in effetti, che il merito della psicanalisi è stato l’aver appunto risollevato, ed in modo del tutto nuovo, il problema della significatività del sogno. Questo tentativo di comprensione, che ora, nel ventunesimo secolo, si può dire già tramontato, ha condotto per l’ultima volta l’uomo nei pressi di se stesso, verso la profondità dell’anima che, tormentata dalla brutalità della psicanalisi, si è dovuta scuotere, è stata scossa e si è scoperta sotto nuove prospettive ed inconsuete angolazioni. La psicanalisi ha scavato l’ultimo sentiero (l’unico ancora possibile nel XX secolo) nella profondità materiale (Freud) e spirituale (Jung) dell’anima prima del rovesciamento dialettico del XXI secolo, ovvero prima del rovesciamento dell’anima dalla tridimensionalità dell’“interno” alla perfetta identità bidimensionale di interno/intorno. Nel mondo dell’interno/intorno svanisce la profondità, e quindi sprofonda anche la psicanalisi, sprofonda non perché realmente confutata o sconfessata, s-profonda invece perché, appunto, profonda.
Ciò che la nostra epoca ha superato è il bisogno di profondità. In generale, sia detto per inciso, ciò che ogni epoca considera “sorpassato”, “superato”, ciò che ogni volta inesorabilmente si concreta nel “ma oggi questo non si può più dire” non corrisponde affatto ad un nuovo, finalmente pieno e stabile possesso della verità, ma ad un mutamento di condizioni di credibilità in una determinata teoria-dottrina-fede-prassi sociale. In particolare, nella sfera delle problematiche filosofiche, bisognerebbe piuttosto proporre una multa, e salata, per tutti coloro che, dopo millenni di tentativi svolti in ogni possibile direzione per afferrare la verità, ancora sentenziano, come fossero giunti all’ultimo gradino del sapere, che la metafisica è superata, la teologia è superata, la magia è superata, la morale è superata, la psicanalisi è superata, il marxismo è superato, e via così… Infatti, in base a quale stabile posizione, a quale verità universalmente nota possono sentenziare il superamento di un qualcosa? Si intendano i superamenti con lucidità, piuttosto! Non come “evidenziarsi della falsità di una data posizione”, ma come ciò che sono effettivamente, ovvero, in fondo, nuove posizioni di gusto in merito all’uomo, alla natura, alla società: mode. Ad esempio, la psicanalisi, il marxismo, l’esistenzialismo, insomma le ultime esperienze umane scaturite dalla serietà, dalla profondità, sono state superate non perché false, ma perché fuori moda, non più adeguate ai gusti dell’epoca.
Il significato dei sogni, se i sogni hanno un significato, sono celati nelle profondità dimenticate dell’anima, ed è dunque necessario sconfessare la nostra epoca se vogliamo addentrarci nel problema dell’ermeneutica del sogno. L’approccio odierno al sogno è infatti funzionale a certi parametri modaioli, e quindi nel migliore dei casi ci si interessa di sapere magari quanto batte veloce il cuore quando sogniamo, come si muovono i bulbi oculari, quali ormoni produciamo nel sognare, quante volte sogniamo, a che ora sogniamo ecc.... Nel peggiore dei casi, invece, sempre in base a ciò che siamo diventati, ci sentiamo interamente estranei al mondo dei sogni, perché i sogni sono ancora fenomeni animici arcaici, quindi interiori, mentre noi, crescendo nell’universo del consumo, delle prassi, dello spettacolo e della bidimensionalità elettronica, siamo diventati esseri esteriori. Dei sogni, perciò, non riusciamo più a capire niente. I sogni non parlano la nostra lingua, perciò ci appaiono sciocchi, insensati, bizzarri.
I sogni si esprimono infatti linguisticamente come immagini, come immagini-simbolo. Già, è strano, ma nel nostro mondo sociale, che è il mondo dell’immagine, le immagini non rimandano mai oltre l’immagine, non rinviano a niente; conseguenza, il Sinn-Bild, l’immagine-senso, ovvero, in italiano, il “simbolo”, non siamo più in grado di comprenderlo.
Ora, due rapide parole su Freud. Il senso dell’immagine simbolica talvolta richiama la sfera sessuale e certi sogni testimonierebbero in favore dell’ipotesi freudiana, che intende notoriamente i sogni come attività psichica funzionale alla soddisfazione del desiderio inappagato. E’ impossibile, tuttavia, che l’intero universo del sognare sia riducibile alla dinamica libidica; lo stesso Freud, d’altra parte, non avrebbe potuto riscrivere allo stesso modo la sua Interpretazione dei sogni dopo la scoperta dell’impulso antivitale perché anche la morte, certamente, richiede d’esser soddisfatta tanto di giorno che di notte, ed è quindi certamente anch’essa una produttrice di sogni. Freud fu in realtà irresistibilmente tentato dalla carta della chiave universale edipica: dati papà, mamma e certe relazioni - e in fondo se un uomo è uomo deve pur esser nato da un papà e da una mamma – si attivano una serie di impulsi che si sviluppano necessariamente in un certo modo, e da questi impulsi, in molti modi differenti, derivano tutte le forme del pensare e del vivere dell’essere umano. Ora, il vero punto essenziale è questo: che esista o non esista una priorità assoluta determinante l’essenza dell’essere umano (come l’infanzia e le sue dinamiche nel caso di Freud), è il senso di quella priorità che non può essere abbandonato al riduzionismo materialista della psicanalisi. Ovvero, in altri termini: se la sessualità si rivelasse come l’unica sfera determinante essenzialmente l’uomo e in questo caso i sogni, non si dovrebbe per questo ricavarne qualcosa di esprimibile mediante un’affermazione del tipo “il sogno è soltanto desiderio sessuale mascherato”, perché in questo “soltanto” pensiamo di riportare l’ignoto (il sogno) al noto (il sesso), senza renderci conto che, forse, il termine noto è quanto di più abissale possa essere pensato. La sessualità è quanto di più profondo possa essere pensato, coinvolta com’è in enigmi quali il piacere e il dolore, l’amore, la creazione di un terzo da due polarità, la bellezza, l’animalità e in ultima analisi l’essenza della natura stessa e della divinità, a sua volta essenzialmente creatrice e bisognosa d’amare e d’amore, dunque erotica. Eros, a detta di Esiodo, è una divinità dell’origine, un archè, un dio secondo, forse, soltanto al Caos; è solo entro la cornice di una metafisica della sessualità dunque, se fosse possibile questa scienza, che potrebbe e dovrebbe collocarsi il discorso sul sogno come forma di attività sessuale. Il sogno libidico, in conclusione, può benissimo pensarsi anche alla rovescia, ovvero come espressione, data la natura delle corrispondenze cosmico-erotiche, di forze archetipiche incircoscrivibili alla dimensione personale dell’esperire. Con ciò, però, siamo inavvertitamente trapassati nel punto di tangente tra la filosofia della mitologia e la dottrina junghiana.
Il punto di tangente in questione consiste nell’idea che alla mente umana possa manifestarsi un universo immaginativo non ricavabile dalle esperienze vitali effettive del soggetto e non facilmente riconducibile alle dinamiche della fantasia. L’archetipo è una possibilità d’immagine che non si radica nella memoria. Se facessimo però anche solo un passo più in là nella disanima della dottrina junghiana, ci ritroveremmo già nella sfera della psicologia del profondo e perderemmo la direzione essenziale suggerita dal punto di tangente, che non vogliamo abbandonare. Jung infatti, come fosse un buon kantiano, ritaglia con cura la sfera dello “psicologico” e si vieta e si preclude - appunto ogni buon scienziato deve pur saper operare così - l’accesso diretto al mondo dello spirito. Nel novecento vige infatti il principio del superamento e della distruzione della metafisica, implicante l’impossibilità di porre certe domande, in quanto non potrebbero venir risolte (errore fatale: si crede ancora una volta, come era successo a Kant e nonostante la critica hegeliana a Kant, che permanendo nello “psicologico”, recintando e tessendo reti, il pensiero possa finalmente risultare scientifico, atto alla cattura della verità).
Per la filosofia della mitologia però, che vuole essere un’esplorazione di possibilità (ed è anche convinta che, in ultima analisi, la filosofia abbia ampiamente mostrato di non poter esibire nulla più che possibili), la questione dell’irrisolvibilità di una grande domanda non comporta in nessun modo l’abbandonarla per donare le proprie forze ad una domanda più piccola ma risolvibile; e la grande domanda sarebbe nel caso della tangente in questione questa: è possibile che l’archetipo sia la traccia o l’evento del legame reale tra la sostanza che siamo e il mondo spirituale extra-psichico? Il che, logicamente e conseguentemente, comporta anche questo: è possibile che la sostanza che chiamiamo psichica non sia una realtà chiusa in se stessa come una monade, magari intrappolata nella singolarità (dal punto di vista più brutale: nel cervello), ma che al contrario sia, l’anima, una forma aperta ad altro, all’alterità delle forze naturali ed extra-naturali? E’ possibile che l’io sia in ultima analisi ospitato in una sfera apparentemente sua, oppure sua fino ad un certo primo livello, ma in realtà estranea all’individuo, extra-individuale, ad un secondo livello di profondità? Possibile che l’io sia immerso in un fiume come una goccia d’olio nell’acqua? Possibile che la goccia d’olio, guardando nel profondo, dica scioccamente a se stessa “ecco, quest’acqua è ciò che mi capita, perciò è la mia interiorità?
Queste domande retoriche e irrisolvibili si riallacciano ora strettamente a ciò che oramai non è più il caso di celare ulteriormente, il significato fondamentale dei sogni. Il significato fondamentale dei sogni è quello erotico, Freud ebbe ragione, perché il sogno è al servizio di Eros e stabilisce un ponte tra il Cielo e la Terra. Il sogno è un ponte tra due mondi e fa di due uno, prende la Terra e la porta su nel Cielo, afferra il Cielo e lo coinvolge nell’opacità della Terra. Nella copula demoniaca del Cielo e della Terra, il Cielo allora non è più Cielo, la Terra non è più Terra; assieme, tuttavia, qualcosa sono: un sogno.
Ora però, pressato dalla necessità stringente delle possibilità inerenti ad un articolo, in estrema sintesi e in pochi punti formulerò l’essenziale di ciò che ancora deve essere formulato in materia di principi fondamentali di una teoretica del sogno. Innanzitutto, ancora in rapporto ai significati, questo: il sogno possiede una poliedricità caleidoscopica di significati. Infatti, il discorso razionale, anche solo per soddisfare la comunicabilità, possiede per lo più linearità e univocità di significato, mentre un sogno può allo stesso tempo soddisfare uno o più desideri o voleri, riprodurre in forma d’immagini una riflessione o un motivo di preoccupazione quotidiani e magari ricercarne una soluzione, può significare l’appello di istanze archetipiche miranti all’identificazione o alla conoscenza, e così via. Il fondamento di questa poliedricità di senso risiede poi ancora una volta nell’essere del sogno, nella sua struttura; manca infatti, nel sogno, una chiara e rigida applicazione del principio di non contraddizione, ed è possibile sognare di andare in vacanza al mare ed al contempo e nello stesso momento trovarsi sulla neve a sciare senza perdere la sensazione dell’essere al mare nuotando, come è possibile – come più che noto – condensare in una sola figura, ad esempio in una sola persona sognata, una molteplicità di persone.
Secondo: molti sogni sono dunque in primo luogo soltanto i nostri pensieri diurni vissuti nell’immaginazione anziché nel pensiero razionale (perché i pensieri hanno in un certo senso una loro vita a prescindere dall’io e fluiscono persino in assenza della coscienza di veglia), oppure molti manifestano davvero in primo luogo la soddisfazione di una esigenza rimossa; tuttavia, oltre a tutto ciò, il sogno può anche, come accennato, suggerire una soluzione, una direzione. Il sogno, cosa che tutti sentiamo anche se sempre più oscuramente e di cui l’antichità era invece ben consapevole, ha la natura del suggerimento. Il sogno è un suggerimento, un tentativo di indicare una direzione, ed in questo senso il sogno è un’istanza morale, non dimentica di ciò che poi, da svegli, risuona talvolta come un “tu devi perché devi”. Il fondamento teoretico di questa possibilità è assai arduo da rintracciare mantenendosi nella filosofia negativa, perché il problema del suggerimento rimanda al problema strutturale della regia del sogno. Se un sogno presenta un significato, una struttura di senso, una costruzione, allora spontaneamente e logicamente siamo portati a supporre una regia assemblante le immagini, anzi per dirla tutta un montaggio (prima questa immagine, poi quella) e una scelta registica (da quale angolatura mi appare una certa immagine), oltre naturalmente ad una sceneggiatura (cosa dicono le figure sognanti) e ad un soggetto (l’idea, il nucleo attorno a cui viene a costituirsi un singolo sogno). Chi è dunque il regista del sogno, se noi siamo impegnati a giocare con le figure del sogno dentro il sogno? L’inconscio? Ma come può l’inconscio, come puro “deposito” di irrazionalità impulsiva, tessere trame? Non dovremmo perlomeno supporre, come molti junghiani fanno, una saggezza dell’inconscio, come se l’inconscio fosse un vecchio sapiente? Cosa ci fa tuttavia un vecchio saggio all’interno della nostra mente? Possibile che il demone non ci molli nemmeno di notte? Chi o cosa si intrufola surrettiziamente in noi per suggerirci il da farsi con queste modalità oniriche, così bizzarre ed enigmatiche, tra l’altro come detto sempre mentendo e spudoratamente rovistando tra le nostre paure e i nostri desideri? Così, punto secondo, ma sinteticamente: il sogno ha la natura del tentativo di dialogo con noi da parte di un altro, sia quest’altro ancora una funzione psichica - così il sogno resterebbe chiuso nella soggettività - oppure una forza letteralmente metapsichica - il sogno come terreno libero, aperto, terra di mezzo ibrida e selvaggia tra la carne e la luce.
Terzo: il suggerimento è talvolta un avvertimento, una forma di amorosa protezione. Dimostriamo inoppugnabilmente: “Dopo la loro partenza, un angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe e gli dice: “Levati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta lì finché io te lo dica: poiché Erode si accinge a cercare il bambino per farlo perire” (Mt 2,13). Dicevamo, infatti, che gli antichi conoscevano bene la natura di contatto del sogno, contatto con forze che esorbitano dalle nostre possibilità abituali. Qui il regista, il suggeritore, è un angelo. Non possiamo sollevare però, ora e qui, la legittima, attualissima e giustissima questione riguardante la natura, l’origine e il senso degli angeli nel mondo e nell’essere. Altrove ritorneremo sulle creature alate. Qui il punto cruciale è duplice: il sogno può presentarsi intanto come forma di protezione per scansare un pericolo, e poi e per forza di cose il sogno può dunque presentarsi come capace di squarciare il velo della temporalità. Dunque, come corollario del punto terzo, sentenziamo: il sogno ha la forza della preveggenza, vede ciò che accadrà e ciò che potrebbe accadere. Il sogno di Giuseppe, vai a sapere perché e per come, conosce le trame di Erode e pre-sente la strage degli innocenti come vicina. Qualcosa, dentro Giuseppe, fiuta il pericolo.
E qualcosa, di nuovo nel sognare di Giuseppe, tira un sospiro di sollievo, pre-sente il pericolo scampato: “Morto Erode, ecco che un angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe e gli dice: Levati, prendi con te il bambino e sua madre e torna nella terra di Israele, perché sono morti quelli che attentavano alla vita del bambino” (Mt 2,20). I più pignoli ed attenti lettori diranno ora però: ma qui i sogni tuttalpiù avvertono un pericolo o il cessare dello stesso, ovvero si potrebbe sì concedere al sogno un enigmatico saltare la distanza spaziale, il cogliere a distanza l’intenzione di Erode o la sua morte, ciò che è in atto sempre nel presente (il sogno potrebbe tuttalpiù aprirsi alla dimensione della telepatia), ma certo non gli si accorderà tanto facilmente la preveggenza: il tempo è più coriaceo dello spazio, perché ciò che è nello spazio, sia dove sia, è, mentre ciò che non è ora nello spazio, e lo spazio è sempre solo l’ora, non è, e dunque non è prevedibile. Contro questi argomenti, come non ritornare allora a dimostrare il contrario insieme a Giuseppe? Ma ad un secondo Giuseppe, il patriarca, che da giovane sognò la sua grandezza futura inimicandosi i fratelli, che durante la sua prigionia interpretò i sogni del coppiere del re d’Egitto e del panettiere predicendo la liberazione del primo e l’impiccagione del secondo, che venne portato al cospetto del faraone per interpretare il sogno delle vacche magre e delle spighe sottili ed arse dal vento. Così, Giuseppe divenne il sovrintendente del faraone, il coppiere fu liberato, il panettiere impiccato, e in Egitto vi furono abbondanza e carestia nella misura indicata dall’interpretazione di Giuseppe del sogno delle vacche e delle spighe. Tutto accade secondo i sogni. Il sogno, ne ricaviamo, non è dunque orientato solo verso il passato della giornata trascorsa e dell’infanzia sedimentata in noi, ma contiene anche il futuro, il futuro della giornata immediatamente successiva al risveglio (esercizio per volenterosi: Cercate! Cercate una relazione tra il sogno e ciò che sta per accadere, in giornata) e il futuro lontano, talvolta lontanissimo, ciò che rende il sogno una forma della profezia. Il futuro è nel presente sognato, ma è la sua estrapolazione ad essere, spesso, ardua. Secondo Giuseppe anzi impossibile all’uomo: “Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni?” (Gn 40,8).
Ho come l’impressione, però, che da qualche anno a questa parte i filosofi non amino più la dimostrazione di una tesi a partire dall’autorità delle Sacre Scritture, e dunque restiamo come sempre, rispettosi del corso delle cose e dei pensieri, nell’ambito del possibile e dell’ipotetico e diciamo che: il sogno potrebbe orientare la propria costruzione di senso a partire dal futuro. Si sappia tuttavia, ma senza chiederne dimostrazione qui, che il materiale psicologico e antropologico di differenti culture, non certo soltanto di quella giudaico-cristiana, parla tuttavia un solo linguaggio millenario, ed afferma, all’unisono: il sogno scorge il non ancora.
Come punto quinto dell’annunciata compressione finale di contenuto, dobbiamo porre poi la stupefacente plasticità dei sogni, oppure, meglio, l’esser i sogni specchio di ciò che si desidera che siano. Ovvero: cerca il sogno come soddisfazione di un contento erotico latente, fallo mediante la più rigorosa fluidità a-logica delle associazioni libere, e troverai giorno dopo giorno e sempre più tutti i desideri e tutte le perversioni del mondo proprio lì, in te. Cerca poi il contenuto archetipico, l’Ombra o il Sé, cerca con costanza, segnandoti i sogni ogni mattina, aspettando, ricordando, abbandonandoti al profondo, ed ecco che l’Ombra ti terrorizzerà nel cuore della notte e il Sé ti allieverà il dolore, ti raggiungerà. Cerca un suggerimento morale: lo troverai. Cerca tutto ciò che vuoi, e sempre il sogno ti risponderà, diventerà sempre diverso da se stesso, e in una certa misura uguale alla tua aspettativa. Se dunque vuoi, ad esempio, che il sogno sia lucido, il sogno tenderà a diventare lucido (per quanto non senza difficoltà, in questo caso, bensì con una certa reticenza). E se lo vuoi intensamente, con costanza, con determinazione da “guerriero”, allora diventerai un vero viaggiatore, un vero “onironauta”. Il sogno non nega niente a nessuno, diventa tutto per tutti, si concede svergognatamente a tutto e tutti. Ma questo discorso, questo del sogno lucido, merita comunque un posto a parte, merita le nostre ultime parole.
 
 
Praticare il sogno
 
Che esista la possibilità di rendersi all’interno di un sogno consapevoli, lucidi, è certamente semplicemente un fatto incontestabile. Molti ne fanno esperienza senza troppo soffermarsi sull’incredibile della stessa, ma l’esperienza, nonostante la nostra noncuranza, resta incredibile. Quando, dentro un sogno, ti accorgi di essere dentro un sogno, quando te ne accorgi tanto da sapere perfettamente d’essere a letto, quando potresti anche aprire gli occhi ed alzarti per la colazione ma vuoi invece restare nel sogno, quando talvolta puoi consapevolmente modificare le immagini del sogno, quando, consapevole del sognare, ti lasci attaccare da un leone o ti getti sicuro dalla cima di un palazzo convinto del poter volare, e voli, allora questa strana esperienza ti riempie di gioia.
Qui tu, onironauta, sei però di fronte ad un bivio: restare cosciente del fluire delle immagini del sogno, e tentare di esercitarti per mantenere vigile la tua piena consapevolezza di sognare (cosa difficilissima perché il sogno tende per sua natura, come detto, a mentire, e deve farti sprofondare nel suo inganno) oppure tentare di modificare le immagini sognate, introducendo volontarie modificazioni nel sogno. La prima via è nobile, la seconda no, ed è infatti quella, in ogni senso, più popolare. Sulla prima via rispetti il mistero del sogno e parli ad esempio con persone che sai bene non essere persone ma che rispetti come persone di sogno, afferri oggetti che sai non materiali ma rispetti nella loro sostanza di sogno e attendi il succedersi delle cose senza la smania adolescenziale del voler ridurre il tutto al tuo desiderio e al tuo dominio.
Tuttavia, sia nella possibilità del dominio grossolano del sogno, come in quella del rendersi soltanto consapevoli del sognare, avviene indubbiamente una nostra presa del sogno: il sogno viene catturato. La legge freudiana della salute psichica, ricordiamolo, suonava così: là dove è ora l’es dovrà governare l’io. Freud pensava con ciò e come ovvio ad una espansione della coscienza, ad una cattura dell’inconscio mediante un lavoro razionale post rem, post manifestazione inconscia, ovvero dopo il tic, dopo la nevrosi, dopo il sogno. Qui, invece, si può pensare di stringere il sogno in modo ben diverso, assolutamente senza lavoro razionale successivo alla cosa, assolutamente in re. E’ legge animica infatti, estendiamo il pensiero freudiano, che tutti i contenuti per noi percepibili come interni debbano essere condensati, elaborati e trasformati attraverso la coscienza, perché l’uomo non resti ciò che è secondo la famiglia, il carattere, le esperienze pregresse, le influenze sociali o astrali, ma perché possa farsi liberamente se stesso. Ogni uomo ha in affido il compito di generare una persona.
Ora, se i sentimenti devono essere coltivati, la volontà rafforzata, gli impulsi frenati e sublimati, le passioni negative invertite in potenze positive, non saranno anche i sogni interiorità trasformabile? Perché siamo abituati a sublimare la rabbia e il desiderio, strappandoli alla loro naturalità semplice, ma pensiamo al sogno sempre e soltanto passivamente, come ad un quid che accade e deve accadere come un nostro ospite sempre estraneo? In verità, il sogno può essere assimilato, reintegrato nella coscienza. Non mediante l’interpretazione razionale che ritrasforma immagini in parole, ma toccando e trasformando la struttura del sogno stesso lasciandolo immagine-simbolo, sogno, non lavorando nella veglia dopo il sogno ma nel sogno, nel cuore del processo stesso. Lì ha da vegliare l’io, sveglio dentro il sogno, ed allora, quando l’io sarà così forte da reggere la potenza addormentante del sogno per minuti e minuti, allora il sognante non sarà più semplice sognante e il sogno non sarà più sogno, perché sarà smascherato e de-essenzializzato, e prevedibilmente non si comporterà più come un sogno usuale. Il sognante sarà sempre sveglio, e il sogno, sublimato, svelerà ciò che, adesso, non è neppure concepibile. Il vero laboratorio di analisi sul sogno dovrebbe perciò, pur dovendo iniziare a preparare gli strumenti nella veglia, esser impiantato nel sogno. Una vera e piena comprensione del sognare deve dunque sorprendentemente avvenire, prima e più che tra parole e laboratori, all’interno dei sogni. Dobbiamo entrare nei sogni, mossi dal puro impulso a conoscerli. Quindi, cosa vogliamo? L’oblio del sogno, per portare al compimento l’uomo Hi-Phone, oppure l’ingresso nella sfera del sogno, per imparare a vivere davvero entro una dimensione reale ma immateriale, reale ma non virtuale?
Ma come entrare in un sogno? Volendolo fare, ovvero ricordandosi nell’atto dell’addormentarsi di risvegliarsi dentro il sogno. Ma, una volta conquistata l’esperienza, come, come dobbiamo muoverci dentro il sogno? Osservando e ricordandosi, ripetendolo come un mantra, che si è in stato di sogno. Ma, una volta conservata la consapevolezza lucida il tempo necessario per osservare, come, come dobbiamo comportarci rispetto al mondo sognante? Questo il galateo: entrare nei sogni di notte, in punta dei piedi, avvicinandosi al sogno dentro il sogno e osservandolo, dialogando con lui, con il sogno. Allora in silenzio, nascosti nel sogno al sogno, senza sbandierare lo smascheramento già avvenuto, senza far confusione, noi discreti lo spieremo e poi, umilmente o con furbizia, lo convinceremo, lui, l’organismo vivente del sogno, lo convinceremo a lasciarci passare, a denudarsi, a calare il sipario. Noi convinceremo i sogni a svelarci mille e più segreti, se i sogni ci riterranno degni di siffatta iniziazione.
Ma che cosa significano ora queste ultime enigmatiche assurdità sulla lucidità, perché questa palese reificazione del sogno al calar del sipario sulla nostra teoretica? Si tratta ancora di filosofia o di pratiche deliranti da fanatici e stregoni?
Ma Sofia, signore e signori, vuole oggi percorrere il sentiero degli stregoni! Sofia oggi è piccola e pallida, ha rossi fluenti capelli, occhi malinconicamente azzurri e ha deciso, ha deciso di farsi strega!
Intanto, l’ora delle streghe è già ampiamente scoccata, tarda è la notte mentre scrivo, e non ci resta allora, a me e a voi lettori possibili e notturni, che posare il capo sul letto e chiudere gli occhi, via dal corpo, via dalla mente, via dai pensieri, abbandonandosi nel nulla quasi svanendo, per poi, infine, finalmente saltare
nel duplice altrove:
                                                     morire nel sonno,
                                                  esser corpo di sogno.
 
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1 Rudolf Steiner, Il destino dell’uomo, Libritalia 1997, p.15.
2 Ibidem, p.17.
3 Ibidem, p.50.
4 Ibidem, p.50.
5 Ibidem, p.51.
6 Ibidem, p.56.
7 Ibidem, p.71.
8 Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, Bur ragazzi, Milano 2015, p.5.
9 Ibidem, p.119.