Nicola Gragnani | Transito

Lezione 2
 
Nella prima lezione ci siamo occupati dei fondamenti del sistema filosofico-positivo schellinghiano. Non lo abbiamo fatto, però, soltanto per il gusto antiquario di ricostruire e conservare un pensiero filosofico dimenticato, profondo ed elegante, ma soprattutto per tentare una risposta ad una questione assai più vitale, ovvero questa, richiamando il titolo della prima lezione: è’ possibile, nel XXI secolo, riproporre una filosofia della mitologia? Diamo soltanto adesso esplicita risposta alla questione (per quanto anche il lettore più distratto possa ricavarla dall’articolo suddetto con gran semplicità): Sì, ciò è possibile! Eppure... non sarà troppo grande l’impresa, oltreché anacronistica e perciò ridicola?
            Sì, e sarebbe non solo sproporzionatamente grande, ma decisamente impossibile, se considerata come mera riproposizione in forma attualizzata di ciò di cui si dimostrò capace Schelling (oppure, per carità, non escludiamo che qualcosa di perlomeno vagamente somigliante si possa anche realizzare, ma servirebbe all’uopo, oramai, il costituirsi di una mirabolante equipe di lavoro, con tanto di antropologi, storici, archeologi, linguisti;coordinati dall’alto dai filosofi, naturalmente!). Rispondiamo invece:No, in fondo non troppo grande, se pensiamo invece ad una radicale riproposizione di quella possibilità, ovvero ad un ripensamento dell’intera questione che trasformi la filosofia della mitologia in un prodotto della nostra epoca, nella traduzione concettuale di un bisogno del nuovo secolo, del ventunesimo secolo dell’era cristiana.
            La massima cui attenersi quindi, rispetto al grande Maestro tedesco, che apparirà sbrigativa e cialtronesca, ma è tuttavia per più versi necessaria per il discepolo della filosofia mitologica (ovvero, al momento, lo scrivente...), sarà dunque questa:“Riconosci Schelling Grande Maestro, compenetra il tuo pensiero del suo Spirito, dopodiché abbandonalo, e non voltarti indietro!” (coni grandi pensatori del resto conviene comportarsi così, se non si vuole soccombere alla loro schiacciante superiorità e ritrovarsi costretti ad esercitare il mestiere ingrato della filologia filosofica).
            Da dove cominciare, dunque? Perché qui, come detto, si tratta di ripartire. E quando la filosofia tenta la ripartenza, si sa, ritorna spesso serpentinamente ad avvolgersi su se stessa, ad interrogare se stessa, il suo essere, le sue pratiche.La filosofia, per tradizione, interrogandosi su se stessa cerca l’accesso ai propri oggetti, che naturalmente autoproduce. Certo, forse qualcuno potrebbe ricordare che l’autentico fondamento interno della filosofia della mitologia dovrebbe essere esso stesso un mito, e in particolare il mito della caduta, ovvero l’evento del male, e dunque si potrebbe obiettare giustamente che la filosofia della mitologia non richiede propriamente un fondamento filosofico, extra-mitologico. Le cose stanno davvero così, in effetti. Tuttavia, al piano del mitosi deve pur sempre accedere, perché viviamo in società antitradizionali, estranee ed avverse alla verità della narrazione, ovvero è possibile, non necessario ma possibile, elaborare un discorso ancora puramente razionale per tentare di conquistare e formare un punto di vista, per occupare o creare o riesumare uno spazio di pensiero oggigiorno inesistente, il che significa in fondo impegnarsi nell’elaborazione di un transito dal puramente filosofico al filosofico-mitologico.
            Ci piace perciò tentare una ripresa del discorso filosofico-mitologico permanendo ancora in una zona pre-mitologica, nel territorio della domanda filosofica, e in particolare iniziare da una questione metariflessiva: quanta volontà di verità possiede un filosofo? Quanta ne può possedere? E, soprattutto, quale volontà di verità possiede? Sono tre questioni intrecciate e distinte; ogni aspirante pensatore risponda alle tre domande, con pazienza e serietà, come crede, e constaterà immediatamente che già nel porsi questi interrogativi sarà presso di sé, riattiverà il legame essenziale ed esistenziale con la propria vocazione e la propria concezione della verità. Un filosofo può infatti odiare la nozione di verità, questo è certo, può battersi fino allo stremo delle proprie forze intellettuali per distruggerla, verissimo, ma può farlo solo dall’interno della propria pulsione al vero, solamente se autenticamente mosso dalla volontà di verità, quale che sia.
            Preliminare è dunque questo concetto: la verità non può essere espulsa dalla filosofia, non dal più rigoroso relativismo, non dal più sprezzante e distaccato scetticismo, e questo in fondo è anche noto; ma non lo si può proprio fare, non si può mettere cioè la verità alla porta, non semplicemente perché lo scettico deve comunque rendersi consapevole della verità dell’impossibilità di conoscere e il relativista deve alfine ammettere di tener per vero l’assunto della produzione soggettiva del mondo dei valori, ma anche e in primo luogo perché la verità è ciò che sempre, alla filosofia,le manca, ciò cui aspira e brama, l’irrinunciabile punto di riferimento di ogni sforzo conoscitivo, il senso stesso e la ragion d’essere della conoscenza.La verità è la linfa sempre assente della filosofia, è il risultato della percezione del vuoto sostanziale del nostro essere, è una fredda passione erotica, e il filosofo ne è inesorabilmente posseduto.
Dunque, ecco il primo passo: “Cerca la tua volontà di verità! Essa giace nel profondo della tua tenebra, ma ora vuole la vita, brama la libertà!” (appello per il neofita della filosofia), oppure (per chi si trova da tempo in cammino): “Rifletti, riprendi, risveglia la tua volontà di verità!”.Ora, detto ciò, ascoltato l’appello, cosa dovrebbe risvegliarsi in noi? Come si manifesta la volontà di verità? Forse, perché no, ipotizziamo, potremmo ad esempio percepire l’invito al risveglio come una chiamata alle armi, un vigoroso richiamo alla necessità di smascheramento, ad una spregiudicata messa in questione dei fondamenti stessi della coesistenza etica e politica;perché, in fondo, cosa significa smascherare se non sollevare il velo dell’ipocrisia per mostrare la nuda verità delle cose?
Un tempo, e in gran parte ancora adesso, soprattutto nell’età delle prime riflessioni (quasi fosse un’indispensabile iniziazione al vero pensiero) si sentiva spesso così la propria volontà di verità, come volontà demolitrice, sfatante, denunciante e denudante, e allora il pensiero si esercitava ad abbattere tutto, persino giganti indomabili come Dio, dèi, angeli, demoni, idee platoniche e sostanze aristoteliche;il pensiero si preoccupava così di svuotare d’ogni finalità, d’ogni bellezza e di qualsivoglia sacralità la natura, ed affrontava simili imprese,naturalmente,con ciò che si riteneva l’unica infallibile bacchetta magica in possesso d’uomo, la critica della ragione, al cui tocco persino i giganti – voilà! - potevano ragionevolmente rimpicciolirsi assai, per farsi improvvisamente gnomi, puffi e pagliacci. La tecnica alchemica è d’altra parte piuttosto semplice e con applicazione ancora oggi accessibile a tutti: si comincia l’opera sottraendo realtà al gigante, così rendendolo una semplice “idea” (primo rimpicciolimento), per poi assumere che l’idea debba essere una produzione del pensiero soggettivo (riduzione ad un bisogno psicologico,  sociologico ecc..: secondo rimpicciolimento) e infine completare la grande opera mostrando inequivocabilmente come pietra filosofale lo smascheramento avvenuto, panacea universale e inizio della grande liberazione dell’essere umano (somma riduzione: l’antico bene svelato come in verità il più grande dei mali, e somma umiliazione del bene: ogni bene per l’uomo derivante in verità all’uomo dalla liquidazione del bene stesso). 
Ciò detto, come stanno le cose quest’oggi rispetto a questo impulso impetuoso verso il vero? La volontà di verità come volontà di smascheramento del falso, infatti, che negli ultimi secoli ha quasi dominato la filosofia, nel frattempo si è fatta“grande”, ma non nel senso di un accrescimento della forza dirompente e sferzante della critica, ma proprio in quello usuale del farsi adulti, più maturi, meno carichi d’entusiasmo e perciò anche più posati, meno trionfalistici; da grandi si diventa infatti più consapevoli, è vero, ma indubbiamente ci si sente più stanchi, imbolsiti, quasi anziani, e bisogna quasi quasi concentrarsi a fondo per riafferrare la rabbia d’un tempo, quella volontà di giustizia e verità che così spontaneamente, quando s’era ragazzi, balzava alla parola dal centro del petto.
La volontà di verità come volontà di smascheramento si trova oggigiorno nella condizione della spossatezza, indubbiamente.E’ infatti una volontà essenzialmente adolescente, che ciascun adolescente, sia chiaro a scanso d’equivoci, deve poter riattivare in sé per conquistarsi la propria libertà di pensiero, per ritrovare se stesso smarrendosi, perdendo tutte le posizioni di valore meccanicamente assimilate dal contesto dominante. Non che sia necessario che l’uomo stesso, beninteso, debba necessariamente, ontologicamente essere uno “spirito libero”, ovvero un filosofo (l’uomo non è sempre stato così e non lo sarà per sempre), ma al momento, tuttavia, sembra che tutto ciò sia ancora opportuno, sembra che il distacco sia pur sempre il nostro destino, il tormento di non ripetere automaticamente una cultura per millenni (come gli uomini possono fare, hanno fatto, probabilmente rifaranno) ma di metterla radicalmente in questione, trasformandola perciò incessantemente.
Tuttavia, lo ripetiamo, la volontà dello smascheramento, con secoli sulle spalle, non più adolescente, non sprizza più energia; un tempo turgida ora si affloscia, e nella sua nuova rabbia, la rabbia dell’impotenza (l’Uomo Nuovo, lo smascheratore dei miti, si rivelò maschera, burla dello spirito del mondo, mito a sua volta), si cristallizza in formule consolidate, in abitudini intellettuali, in una raffinata ma ripetitiva cultura retorica del sospetto. Questa “scolastica” post-rivoluzionaria, che rimastica incessantemente se stessa, è oramai semplice prodotto del secolo dei lumi, delle lotte giacobine e bolsceviche, delle avanguardie, dei rovesciamenti politici, delle democrazie, in una parola: dell’adolescenza dell’occidente. Molto è avvenuto per suo merito o sua colpa, ma è appunto già avvenuto; richiedere ancora, a questa oramai posata musa del vero, la trasformazione di alcunché, non significherebbe mancare di tatto, essere impietosi proprio con questa divinità dell’intelletto occidentale?
L’occidente comincia a volgere al tramonto, è entrato nell’età adulta, e già comincia a cedere il testimone ad altro, ad altre culture, alla fine delle culture. Chi dunque rispondesse proprio così alla terza questione posta inizialmente (quale volontà di verità?), chi cioè sentisse ancora in sé la vocazione per la trasformazione radicale dello stato di cose presenti, dovrebbe davvero impegnarsi a renderla improvvisamente trasparente a se stessa, dovrebbe cioè costringere il suo impulso adolescenziale ad una impietosa ed immediata iniziazione all’età adulta. Suggeriamo alcuni passaggi rituali: innanzitutto, si dovrebbe porre come primo mito da distruggere il mito stesso dello smascheramento, lucidamente interpretandolo come l’ultimo mito occidentale, l’ultimo sogno, l’ultimo Dio, il simulacro terreno della Gerusalemme celeste; in secondo luogo, si dovrebbe riconoscere la storicità dell’intero movimento delle “rivoluzioni” (rivoluzioni politiche e del pensiero), per riconoscere lucidamente che l’era della rivoluzione assoluta ha avuto la sua nascita, il suo sviluppo e la sua morte (e la sua sconfitta, almeno politicamente); terzo, si dovrebbe comprendere la rabbia verso l’ingiustizia e il falso - sacrosanta di certo -  nel quadro del movimento nichilista che costituisce l’essenza dell’intero occidente (o perlomeno della modernità)[1], riflettendo sulla furia corrosiva e tutto devastante delle dottrine e delle prassi da essa stessa generate, per pensare così il nesso sottile ed insidioso tra idealità e violenza. Se la volontà di smascherare reggerà quindi la dura prova della sua stessa crocefissione, se sarà capace di tanto (ecco la seconda questione iniziale: quanta volontà di verità può sopportare un filosofo?), allora la volontà di smascheramento, ricondotta alla sete di giustizia e verità e ricostruendosi su basi interamente differenti, non più riconducibili al movimento delle cose passate, potrà forse rinascere dalle sue ceneri e giocare nuovamente la sua parte di musa ispiratrice della conoscenza.[2]
Qualcuno, giustamente, potrebbe a questo punto pensare: “Sì, può anche darsi che la nostra epoca non possa più donarci Nietzsche o Marx, ma, tutto ciò, cui prodest, se il fine è qui l’edificazione di una filosofia mitologica? Rendiamo allora esplicito e trasparente i nostro intento: la volontà di smascheramento, almeno in quanto nemica apriori di tutte le religioni, impedisce e ottunde il sentimento, l’intuizione e l’ispirazione fondamentale che consente all’alterità della realtà non ordinaria di irrompere nella coscienza umana. La filosofia della mitologia ha bisogno di abbattere l’antica volontà di smascheramento. Il sospetto dogmatico (oramai, dopo secoli, quasi un riflesso pavloviano) nei confronti di qualsivoglia richiamo alla “sacralità”, per quanto un tempo abbia permesso al pensiero di giungere nel fondo “malato” della morale, della religione e dell’intera nostra cultura borghese, rischia adesso di invertirsi in mera conservazione di una forma-pensiero al crepuscolo, rischia di svolgere una funzione paralizzante quelle forze che già invece “premono”, reclamano d’esser prese in carico, mirano a farsi parole, concetti, gesti e riflessioni. Diciamolo allora hegelianamente: l’antica volontà di smascheramento si situa, oggi, al di fuori del movimento della verità. Tutto cambierà, tutto, e persino la sacra proprietà privata dei mezzi di produzione sarà studiata un giorno come un arcaico sistema economico del periodo barbarico della nostra specie; il nuovo verrà e sarà nuovo, nuovissimo, tuttavia il suo volto ricorderà, e non solo vagamente, anche l’antico, l’antichissimo, e non sorgerà dallo spirito moderno, non potrà farlo, perché l’ora della modernità è già oramai l’autentico antico.
La filosofia ha in ogni caso bisogno della sua musa, della verità. Ma chi potrà o vorrà ispirare ancora filosofi, ora che il seno nudo della libertà comincia ad avvizzire? La verità ha bisogno certamente e comunque di libertà, di essere lasciata libera di fluire, di cambiare, di rovesciarsi in mille imprevedibili opposizioni, oppure di lasciar apparire, se non soffocata e circoscritta, nuovi orizzonti inimmaginabili. Tuttavia, un secondo volto moderno della volontà di verità, ma, si badi bene, secondo volto di un Giano bifronte, si manifestò proprio nel concepire il vero come il recintato e la filosofia come un’attività da cow boy, paletti da piantare nella terra, lazzo per acciuffare ciò che può esser recintato e addomesticato e revolver alla cintura per tenere a debita distanza il non circoscrivibile, le belve feroci. Chi si attendeva il ritorno della grazia delle fanciulle figlie del sole restò allora certamente deluso, ma tanto fa; chi infatti si sarebbe potuto opporre alle sentenze del destino, che decretò l’affidamento plurisecolare della filosofia al genio della parola materializzata, al geometra Thoth?
Certo è indubitabile che, circoscrivendo, la volontà di verità ha aperto al pensiero sorprendenti prospettive, e  penso non soltanto, ad esempio alleandosi con la scuola dello smascheramento, a prodotti quali il marxismo o la psicanalisi, ma anche, e qui nella sua forma più pura di vocazione al tracciare confini,al trascendentale, alla fenomenologia, all’analitica, per non parlare della scienza stessa, che nasce per eccellenza come arte del ritaglio (de-costruzione dell’oggetto scientifico: “tagliar via”il soggetto dalla percezione e ogni possibile idea, in senso forte, dal percepito, e così ottenere, distillato, l’oggetto delle scienze). Le cose andarono così: filosofi e scienziati, ragni ingegnosissimi, decisero che un fenomeno risulta pienamente nella sua verità se impigliato nella tela da loro stessi secreta; così, costruita ad esempio l’idea della centralità dei rapporti familiari come fonte dell’intero universo culturale umano (ma anche: l’idea dei rapporti di produzione come fonte dell’intero ecc...), oppure quella per cui ogni rappresentazione sempre e inesorabilmente soggiace alle forme pure a priori della sensibilità (oppure cade nel gioco linguistico, o magari nella sfera del fenomeno purificato dall’epochè ecc...), prodotte cioè le ragnatele, i ragni del pensiero si fermarono a riposare, appostandosi intanto immobili nell’attesa della preda,e quindi deliziandosi poi e grandemente godendo nel veder persino S.Francesco impigliarsi nelle viscosità della nevrosi edipica e compiacendosi della goffaggine dei metafisici divincolantisi spasmodicamente ma inutilmente nelle spirali della spazio-temporalità. Da parte loro, i metafisici e i religiosi, quali insetti intrappolati, si batterono proprio come le mosche: tentando una fuga impossibile, soffocarono in un raffinato strumento di morte.
Non vogliamo con ciò, sia chiaro, disconoscere la reale e talvolta abissale profondità dell’esigenza “critica” (“critica” in un senso molto ampio, per indicare non solo la filosofia trascendentale ma il desiderio di porre la filosofia sulle tracce di ciò che può veramente conoscere), vogliamo però problematizzarla “psicologicamente”, ovvero “ridurla” (per quanto ciò sia teoreticamente vagamente scorretto) al suo impulso fondamentale, che ancora oggi, quanto e più ancora della volontà di smascheramento, anima gli sforzi filosofici più disparati. L’esigenza “critica” si radica nella volontà del limite. La volontà tutto limitante, imponendosi storicamente, fondando l’epoca dell’estrema precisione, ha costretto già da tempo la filosofia ad arretrare su se stessa, a cercare il proprio fondamento, e ad arroccarsi così nella problematica gnoseologica: il fenomeno, la rappresentazione, il mondo come si manifesta ora e qui al soggetto o all’uomo, questo dato fattuale dell’esserci di qualcosa, questo correlato fattuale del conoscere qualcosa, tutto ciò è divenuta la sfera che deve essere necessariamente pensata, un labirinto degli specchi senza via d’uscita.[3]
La filosofia ha scelto la mossa dell’arrocco, e lì è restata, portando il pensiero nei pressi del sovrano per proteggerlo dal possibile scacco. Ma chi è, qui, il sovrano? Quale sarebbe poi lo scacco matto? Chi è infine l’avversario? Contro chi giocò, per anni e anni, Immanuel Kant? Il sovrano, che Kant sentì l’esigenza di proteggere, è naturalmente la filosofia (che in fondo è sempre stata “sovrano”, e mai “regina”); lo scacco che Kant (ma si potrebbe ovviamente risalire almeno a Cartesio) subodorava (certo inconsciamente), quello potenzialmente definitivo, ciò che avrebbe prodotto certamente la morte della filosofia stessa, non poteva essere altro che l’impossibilità di muoversi della stessa filosofia, ovvero la definitiva assenza di “oggetti” ancora passibili di pensabilità filosofica; il vero avversario, infine, il giocatore che lentamente ma inesorabilmente stava conquistando l’intera scacchiera della conoscenza - e che la conquistò - attaccando in diagonale con un balzo, con l’alfiere (la matematica), era naturalmente la scienza (giovane sorella della filosofia, poco femminile anch’essa). Con mossa difensiva geniale Kant inventò un territorio ancora e per forza di cose soltanto filosofico, lasciando all’avversario, è vero, l’intero dominio della scacchiera, ma in modo da poter eternamente sfuggire allo scacco matto, alla dimostrazione scientifica dell’insensatezza della filosofia. Kant riuscì a rinviare la morte della filosofia, riuscì a trascinare la partita in uno stallo potenzialmente plurimillenario, ma costrinse la filosofia a ripetere sempre lo stesso movimento nel medesimo spazio: proteggere il re con mossa della torre per sfuggire alla morte accerchiante, alla potenza della scienza.
La volontà di recintare animava lo spirito di Kant, ma, in fondo, che cos’era questa volontà stessa? Rispondiamo così: questa mossa epocale del pensiero, la costruzione di un proprio regno pensante il fenomeno, sottrarsi sia alla descrizione che all’essenza delle cose senza perdere il proprio essere, non era in fondo se non l’imitazione della mossa dell’avversario, la mossa stessa del “ritagliare” per conquistarsi un ambito finalmente controllabile, finalmente scientifico. La volontà di scienza (non chiamava Kant la sua “mossa”, emblematicamente, rivoluzione copernicana?) animava e anima ancora la volontà circoscrivente, il desiderio di stabilire il limite del pensabile. Kant infatti non era privo di desiderio, e il suo desiderio, il suo impulso fondamentale, era precisamente la costruzione scientifica della filosofia. Lo sguardo “oggettivo”, che dolorosamente rinuncia alla metafisica per concentrarsi umilmente sul qui ed ora, non è infatti che il compimento di un desiderio, ed è questo ciò che qui deve essere compreso; oppure non è vero che il raggiungimento di un punto di vista critico, consapevole, freddo e distaccato si accompagna ad un sentimento di piacere, di soddisfazione e autocompiacimento? Si vuol credere davvero alla storia del religioso e del metafisico che vivono ingenuamente nel desiderio mentre i filosofi post-metafisici e gli scienziati hanno da tempo superato l’infantilismo del volere e ora guardano fieramente e diritto negli occhi il mondo? Non sarà invece vero che la filosofia post-metafisica si comporta oggi come la marmotta di montagna, che vuole mantenersi nei pressi della tana, è pienamente felice di restare davanti alla buca e non desidera affatto, in nessun modo, l’addentrarsi nei boschi di fondo valle o il conquistare le vette?
Nessun uomo si situa al di là del desiderio, e l’immagine del regno dei cieli, che sostiene la vita del religioso, non differisce psicologicamente in nulla da quella del mondo oggettivo e misurabile che permette la formazione dell’identità dell’uomo non-religioso, dell’occidentale odierno, ovvero entrambe garantiscono quel senso di sicurezza, il ritrovarsi in se stessi, il centrarsi e l’orientarsi nei propri pensieri che soli contano, ai fini della formazione dell’identità personale; così come ad entrambe l’uomo si attacca con grande forza, perché, appunto, in quell’universo-pensiero ne va di se stessi, di ciò che si è.
Non si vergogni, quindi, chi “crede” (incredibile a dirsi, ma oggi le cose tra gli intellettuali stanno così, e il credente, per non rischiar la scomunica collettiva, spesso crede soltanto di notte), e non si tiri indietro neppure chi pensa che in fondo esistano gli dèi, gli spiriti, i fantasmi, l’anima del mondo, i folletti, i demoni e gli angeli, le forze occulte, gli altri mondi, gli animali guida; non si nasconda chi ritiene ragionevole l’accadimento del non ordinario, eventi inconsueti, miracoli, levitazioni, incantesimi, bilocazioni, ricordi metempsicotici, viaggi astrali, telepatie e insomma tutto ciò che a buon diritto non rientra nell’idea di realtà ordinaria.
Dico quindi per “noi”, per quelli come me: non lasciamoci impilare nell’angolinoNewAge delle librerie, non facciamoci mettere all’angolo dalla volontà scientifica e filosofica di occuparsi soltanto dell’universalmente calcolabile e ripensabile; tentiamo invece, perché no, di pensare l’impensabile, scardinando preliminarmente, intanto, la convinzione dominante che la filosofia non possa che innestarsi sul fenomeno ordinariamente considerato; mostrando, intanto, il desiderio oramai identitario della filosofia di muoversi ostinatamente fuori della natura(il terreno delle scienze, perlopiù tabù per il pensiero) e della non natura (universo degli sciocchi creduloni ed ignoranti), il vizioso e perverso compiacimento filosofico nel permanere nell’estraniato mondo di mezzo del puro concetto, della categoria, il suo insistere e persistere, per via del desiderio tutto circoscrivente, nel pensabile vincolato (dalla corporeità, dal sociale, dal categoriale ecc..), insomma denunciamo, con forza, che la filosofia è innamorata della propria forma, si pasce innamorata nell’amore dell’atto intellettuale del ritagliare, chiudere, delimitare, e così gode indecentemente riproducendo padiglioni artificiali per spararvi all’interno fuochi d’artificio concettuali impressionanti e variopinti, ma appunto visibili soltanto all’interno, in quel padiglione che purtroppo è in sé, malauguratamente, inesistente.
Non circoscrivendo, invece, per quanto sia in un certo senso impossibile non farlo pensando, si possono ugualmente conquistare, per paradosso, altri e più ariosi orizzonti. La filosofia della mitologia vorrebbe essere, per chi e solo per chi ha desiderio di lei, una fanciulla nuda in corsa all’aria aperta, vorrebbe favorire la respirazione, una boccata d’aria, un allentamento dalla morsa della critica della ragione. Ma è una ragazza filosofa, si badi bene, e per giunta d’origine ottocentesca, e quindi mai e poi mai potrebbe interamente sottrarsi al suo destino, alla lucida e rigorosa pratica del pensare e del render ragione dei suoi fondamenti. Con le idee, con le immagini, con il ritmo delle parole, narrando, o con l’aiuto del silenzio, ma pur sempre mantenendosi nell’arte del pensare, nella filosofia.
Ora, volendo cominciare a coltivare la volontà di verità del filosofo della mitologia, per poi magari ritornare ancora al problema preliminare dell’estirpare le erbacce che non ne consentono lo sviluppo, dovremmo coerentemente indicare come fondamento di questa scienza qualcosa di diametralmente opposto ad un elemento circoscrivente. Perciò, se è vero che l’essere, per quanto sia il più generale dei concetti, è pur sempre di per sé la prima e più generale imposizione, diremo che il fondamento della filosofia della mitologia, rigorosamente considerato, non può che essere formulato così: “Io voglio l’al di là dell’essere”.
Oltre l’essere, oltre il percepito, oltre il pensato e il pensabile: l’al di là dell’essere. La volontà di verità del filosofo della mitologia è una consapevole posizione di un “di più” rispetto al circoscritto mondo dell’esperienza che necessariamente e sempre ci avvolge e siamo: la filosofia della mitologia è una volontà dell’aperto. E l’aperto si potrebbe porre al maiuscolo (è possibile farlo ma non necessario), come l’Aperto, se surrettiziamente intendessimo l’al di là dell’essere come equivalente alla parola “Dio”. Dio, la Persona, il Signore dell’essere si ergerebbe, e infatti effettivamente si erge, come principio ontologico della riflessione filosofico-mitologica, che si fonda però al contempo sull’arbitrario e capriccioso desiderio religioso del filosofo che, sentendo questo desiderio, non decide di strangolarlo con la salda presa degli assiomi filosofici (né materialistici né spiritualistici) ma, al contrario, decide di coltivarlo, di coltivarlo così come lo ritrova in se stesso, come un incerto desiderio, poco chiaro, come una spinta verso, un anelito, un vuoto struggente, un sentire.
La filosofia della mitologia, o meglio la filosofia volontariamente mitologica, non deve infatti necessariamente trasformare l’al di là dell’essere nella parola “Dio”, anche se lo ha indubbiamente fatto (Schelling), perché qui il punto fondamentale consiste proprio nel radicarsi nel desiderio dell’Impossibile, e non sempre alla parola “Dio”, sovraccarica di storia, si riesce ancora ad associare una simile idea meravigliosa. “Dio è che tutto è possibile”, sosteneva Kierkegaard, e questa sì, questa sì è una nozione di Dio davvero feconda, feconda perché chiude alla prospettiva di imbavagliare l’essere, anche l’essere Dio, di tenerlo stretto per sempre e necessariamente da un qualsivoglia vincolo ontologico o teologico. La pura Libertà, insondabile e abissale, da pensare come radice dell’essere, è certamente un buon modo di cominciare a respirare col pensiero. Tuttavia, ripeto, si potrebbe pensare anche di non utilizzare affatto “Dio” come fondamento della filosofia della mitologia, perché qui si tratta di espandere in primo luogo un movimento interiore, un senso del sacro, del religioso, un desiderio d’unità, di compimento, di completamento, di perfezione o come altro lo si voglia esprimere; di espanderlo e dargli forma, però, non rimanendo romanticamente sull’anelito stesso per poetare, ma dargli forma pensando, ovvero presupponendo un oggetto-non oggetto del pensiero, l’Incircoscrivibile, come origine dell’essere e termine ultimo dell’impossibile e paradossale sforzo filosofico di afferrarlo.
La filosofia della mitologia, si obietterà, pone comunque un presupposto, per quanto lo faccia scientemente, che è estraneo all’esperienza, ed è perciò di per sé una prospettiva non conoscitiva, priva di qualsivoglia scientificità. Fermiamoci un attimo. Qui, in questo rilievo, si annida infatti uno degli assiomi fondamentali del “regno della ragione”, - chiamiamolo così - di quella potenza tutta occidentale e ora planetaria che forgia ed è lo spirito forte della nostra epoca. Questo spirito forte, tenace e concentrato, ha scoperto che ogni pensare è sempre coinvolto nell’esperienza, e che anche il pensare Dio non è che l’esperienza del pensar Dio, e quest’ultimo come tale, cioè come idea pensata, non può che essere un condizionato,un riflesso di dinamiche sociali, economiche, psichiche, culturali e ambientali. L’esperienza del “pensar Dio” si risolve e dissolve nell’esperienza. Le cose stanno davvero così, la ragione coglie (in parte) il vero.  Ma alla ricerca della verità (non alla verità in sé), fatto stranissimo e quasi inconcepibile, difetta l’intelligenza. O meglio, la grande penetrazione filosofica, il grande intelletto filosofico sembra stranamente aver un eterno bisogno d’essere accompagnato da grande ottusità, da infinita ignoranza, e solo con queste compagne pare poter raggiungere il suo scopo e creare cose grandissime e mirabolanti.
Proviamo a chiarire questo pensiero. L’assioma stesso della volontà “scientista”, segreto della volontà delimitante, l’assioma in questione, tanto potente e cieco da esser capace, come Crono, di divorare il desiderio cucciolo di regno celeste che alberga nel cuore d’uomo, si può formulare così: “Io voglio ciò che è entro l’essere”, dove la cecità consiste proprio nel non soffermarsi seriamente sulla presenza dell’”io voglio”; scartato quest’ultimo, l’assioma si riduce poi, nella mente filosofico-scientifica, a quest’altro: “Vero è ciò che è entro l’essere”. Ora, poiché l’essere viene per lo più inteso come ciò che è, non come ciò che potrebbe essere, e neppure come ciò che ora è e ora non è, ma proprio come ciò che è in quanto esperisco che qualcosa è, di conseguenza e come già detto, tagliato via il soggetto effettivo (desiderante, concreto, singolo) e ritagliato l’oggetto a ciò che cade nell’esperienza, il filosofo e lo scienziato, aperto così preliminarmente il loro campo d’azione, iniziano a pensare e a ricercare. Ma la verità, l’antica musa della filosofia, insomma Iside Sofia, si nutre, tra le altre cose, anche di logica, perciò si inquieta e non trova pace nella logica dell’assioma scientista, che esclude proprio l’opzione logica dell’esistenza di un quid estraneo all’esperienza, esclude per principio che possa esistere una possibilità logica, ovvero che l’esperienza possa non essere la totalità dell’essere, che possa esserci anche altro. Se però la logica non è che articolazione di possibilità non contraddittorie, e non vi è nulla di contraddittorio nel considerare l’esperienza come effetto di un quid che potenzialmente potrebbe precederla (o sovrapporsi ad essa, od altro ancora), non dovrebbe essere considerato allora clamorosamente illogico l’assioma scientista, che decide così, d’emblée, di prender per vera solo l’esperienza e ciò che cade nell’esperienza?
Questa stupidità, del resto,questa ottusità della ragione, è ciò che davvero permette in generale non solo di edificare un solidissimo regno, ma anche davvero di scoprire inesauribili regioni d’essere. Se Marx non si fosse lasciato ossessionare dal Capitale, Freud dall’Edipo, Platone dall’Idea,Agostino dal Dio cristiano e via così, se avessero avuto l’elasticità di ruotare attorno ai loro oggetti, di non porli come chiave unica e esplicativa del reale, cosa avrebbero prodotto se non stracche, incerte e deboli dottrine? Perché, per scavare ad esempio come Freud scavò - pensiamoci un attimo - si deve pur essere simili a ossessi, chiusi, avulsi, costretti da ogni lato a cercare sempre di scalpellare lo stesso blocco di roccia; eppure, proprio alla scuola della follia cieca, grazie alla cecità, al più manifesto errore, proprio da tutto ciò Freud lasciò che emergesse una nuova figura, un capolavoro incomparabile, la profonda falsità della psicanalisi. Vale quindi per la conoscenza, alterandolo un poco, il detto “chi troppo vuol vedere, nulla stringe”, perché, chi pensa di poter descrivere alla perfezione, ad esempio dipingendola, un’intera stanza dopo un solo colpo d’occhio, non riuscirà mai a ricordare i dettagli più minuti, le ombre e le sfaccettature degli oggetti, e il suo disegno risulterà mediocre; colui che, invece, sa lasciarsi catturare da un solo elemento, follemente considerandolo come isolato da tutto, carico di un significato abissale, quello sarà l’ottimo pittore e il suo dipinto sarà bello, perché lo sguardo ottuso-profondo deve isolare i suoi oggetti, fissarli e decontestualizzarli, se vuole cavarne qualcosa di significativo. Sembra infatti che con la totalità come oggetto - la totalità, in una forma o nell’altra, è pur sempre l’oggetto della filosofia - le cose stiano proprio allo stesso modo: se la si vuole dipingere a fondo, bisogna sprofondare in un dettaglio, pur continuandolo paradossalmente a definirlo totalità. La stupidità dell’errore si accompagna alla profondità penetrante dell’intelligenza, per forza di cose.
Per questo la volontà del limite, che è volontà scientifico-filosofica, volontà di lavorare su ciò che è esperibile effettivamente e da tutti, spesso non è consapevole della propria ignoranza, non sa di omettere, di guardare solo ad un oggetto, in un solo e medesimo modo. Pensa sinceramente che il mondo sia un ignoto meraviglioso da scoprire, senza avvertire che l’ignoto da essa pensato non è che ciò che può adattarsi ad uno schema già noto, e dunque un tassello di quel mosaico di cui certo ignota è la figura, ma non la forma del tassello né il fatto che, alla fin fine, il risultato finale sarà appunto un mosaico. Il problema dello scienziato o del filosofo del limite, che è la sua grande forza, è che appunto sta costruendo proprio quel mosaico, perciò i tasselli ricercati e utilizzati, con metodo o anche andando a tentoni, son proprio quelli riconoscibili già al tatto come adatti allo scopo; quelli, invece, di tutt’altra forma, che pure giacciono lì, a terra, accanto a lui, restano intravisti e privi d’attrattiva e poi, se anche la mano per sbaglio talvolta li afferra, ecco che li riconosce come sconosciuti, estranei, inutili, malfatti e così presto li scarta, senza ulteriore riflessione. Infatti, se ci si accorgesse che, inserendo quello strano tassello, gli altri pezzi non potrebbero più legarsi nello stesso modo, come già di fatto se ne stanno legati, che ne sarebbe della possibilità di costruire l’intero mosaico, ovvero un’opera compiuta, coerente, semplice, razionale?
Così, al contrario di tutto ciò,nella filosofia mitologica, consapevoli dell’impossibilità di non errare, lucidamente e logicamente ritagliamo l’Irritagliabile come principio di una prospettiva filosofica, e usciamo dall’esperienza. La non-esperienza è il fondamento dell’esperienza. Il rifiuto di questa affermazione, di questo principio, l’immediato sorridere e non prenderlo neppure in considerazione (atteggiamento legittimo anche se spesso appunto inavvertito come ciò che è, ossia un presupposto, la nostra forma mentis scientifico-filosofico-occidentale), si basa sulla volontà di non fuoriuscire mai, a nessun costo, dall’ambito dell’esperibile. Il rifiuto, invece, di considerare proprio “Dio” la non esperienza in questione, invece, si deriva, oltre a ciò, da un’infinita serie di ragioni che hanno a che fare con la nozione stessa del monoteismo e soprattutto con la storia di questa nozione, storia anche socialmente e a volte crudamente rappresentata da istituzioni simbolicamente iscritte a rappresentare in terra l’immagine del principio celeste.La volontà di verità scientifica (controllabile dal pensiero o dai calcoli) preclude l’accesso a ciò che si situa al di là dell’esperienza; sua sorella, la volontà di verità smascherante e demistificante (subodorando che sotto le mentite spoglie dell’Irritagliabile non-esperienza possa nascondersi il vecchio intramontabile immarcescibile Jahvè) rigetta poi in automatico e perentoriamente, per non rischiare la temutissima ricaduta nella tradizione, ogni prospettiva dell’esistenza dell’Assurdo, abbandonando l’incomprensibile all’imbecillità New Age o all’animalità irriflessa della ritualità religiosa.
La filosofia della mitologia cerca ora uno spazio, ma lo deve fare accanto a queste potenze, quella demistificante e quella scientifica, in dialogo con esse, ma mantenendosi e scoprendosi differente. Ora, se dall’assioma filosofico-scientista precedentemente analizzato ricavassimo, come suo corollario, che “è vero solo ciò che sempre è ripetibile”, otterremmo in fondo un buon punto d’appoggio, per converso naturalmente, per fondare anche il corollario della nostra filosofica “volontà di Dio” (con la medesima ottusità della perentoria esclusione del contrario), ovvero questo: “Vero è l’eccezionale, l’irripetibile”. Abbandoniamoci allora, ma questa volta consapevolmente, a questa nuova inettitudine, e tentiamo per un attimo di darle forma. L’eccezionale è la categoria della verità che ricerchiamo. Eccezionale è il non ripetibile, quel quid che il pensiero non sa ripetere come sa ripetere invece un afferramento cartesiano del cogito, quel quid che non può essere sezionato e portato in laboratorio, perché accade quando vuole, non ripete se stesso a comando, non risponde a logiche e pratiche approntate per pensarlo e incatenarlo. Divine la filosofia e la scienza, più in alto, però, l’enigma di Dio.
L’eccezione accade nell’esperienza ma l’esperienza non la riconosce, perché il nostro pensiero, calcolante o meno, vede solo ciò che conosce, che ha già visto e che sa riproporre,ciò che tutti possono ripensare e ricreare. Tuttavia accade nell’esperienza, ed è dunque alla fin fine l’esperienza, per forza di cose, a fungere da principio ulteriore, esplicativo del “voglio ciò che è al di là dell’essere”e del “vero è l’eccezionale”, il che è da intendersi e da esprimersi, però, in questo specifico senso: “l’eccezionale è la traccia della trascendenza”. Una traccia, una cifra della trascendenza, che non trovo così, ora, davanti a me, che non è questa sempre ripetibile esperienza spazio-temporale-causale-materiale (siano spazio, tempo, causalità e materialità pensate come strutture soggettive, oggettive o soggettive-oggettive), ma che è invece, nella sua aleatorietà, un transitorio, una singolarità, un evento.Volendo utilizzare il gergo heideggeriano, potremmo affermare, perentoriamente, che la verità è l’evento della verità, il farsi opera della verità. Il che significa innanzitutto che la verità, o meglio, scriviamo così, la Verità, non è soltanto cosa che sta di fronte a noi inerte e già presente, ma è un quid che avviene, un farsi, un irrompere nell’attimo da un “altrove” non immediatamente accessibile. La verità è uno squarcio nella coscienza e nel materiale, è “visione” dello straordinario, nonché sospensione e superamento dell’ordinario. Infatti, se il “tutto è possibile” è il fondamento delle cose, come potrebbe il mondo stesso essere semplicemente possibile? Il mondo è impossibile, perché “Tutto è possibile” è la forza esistente che lo sostiene: se tutto è possibile, non è logico che anche l’impossibile sia appunto possibile?
Questa vorrebbe essere dunque la filosofia della mitologia: un lasciar spazio, oltre che al possibile indagato dalle scienze e dalle filosofie, all’impossibile da sempre manifestatosi e sempre ancora manifestantesi nell’esperienza. In questo, la filosofia della mitologia ha una vocazione, in senso lato, cristiano-cattolica, ovvero mira a far spazio a tutto ciò che è, perché vi è spazio a sufficienza per tutti e tutto, per tutte le scienze e tutte le filosofie, per tutte le religioni e tutte le arti. Si fa fatica ad accettare la grande magnanimità della verità, che sempre sfuggendo tuttavia si lascia afferrare almeno per un lembo della veste, e spesso si preferisce, e non senza ragione come detto, lo sguardo unilaterale. Qui allora, anche e per forza, lo sguardo risulterà tale, unilaterale, ma dell’unilateralità cristiana della benevolenza, della mano tesa all’indemoniato e persino al malato nel pensiero, all’ateo; se infatti la vocazione cristiana è l’amore, e l’Amore è un attributo dell’Impossibile, non sarà buon filosofo cristiano solamente chi riuscirà, nel rispetto delle gerarchie ontologiche tra differenti epifanie, ad accoglierle tutte senza dissolverne nessuna?
Ciò detto, cosa abbiamo allora da fare, quale la nostra ricerca? Questa: nell’esperienza ricavare l’impronta dell’Inesperienza quale radice del reale. Notiamolo allora fin da subito: come ogni buona radice si ramifica nel terreno, e anche assai in profondità, allora anche l’Inesperienza, se è radice, dovrà innervare l’esperienza stessa, interrarsi in essa; certo, come osservando un albero da sottoterra se ne potrebbe semplicemente dedurre qualcosa come il tronco, ma mai le foglie, i fiori e i frutti (se non perché già li si conosce), si starà allora ben attenti, seguendo le ramificazioni esperienziali di Dio, a non dedurne d’aver a che fare con la totalità di Dio e del divino, che foglie, fiori e frutti, ripetiamolo, non sono a priori prevedibili, deducibili cioè a priori a partire dalla radice stessa. L’esperienza eccede di gran lunga il pensiero, e se per stranissime condizioni ambientali un uomo non avesse mai visto un albero ed avesse di fronte un semplice seme, come potrebbe mai, con equazioni o pensieri anche sottilissimi, ricavarne l’immagine di un portentoso sicomoro, che pure quel seme è ben destinato a diventare?
Ma perché, in ultima analisi e ritornando sempre indietro, la volontà filosofica si è ritrovata nell’assioma del mantenersi nell’esperienza ripetibile? Perché non si è donata all’esperienza irripetibile? Intanto, si potrebbe rispondere, perché l’esperienza irripetibile non cade nelle possibilità d’indagine della filosofia, ma tira in ballo piuttosto le religioni, la parapsicologia, l’esoterismo, la magia, e altre cose di questo tipo. La filosofia non vuole più immischiarsi in simili imbarazzanti situazioni culturali, si ritiene ad esse superiore e ha oramai piena e orgogliosa consapevolezza di operare in modo differente dal religioso, dal parapsicologo e dall’esoterista, e precisamente sa di pensare, e perciò è consapevole di trovarsi nella conoscenza ad un livello più alto, più maturo, più scientifico delle mitologie religiose e delle cialtronerie esoteriche. Il filosofo ha anche qui ragione, perché è vero che è lui l’unico autenticamente pensante, come è vero che la filosofia è quella via della conoscenza che ogni essere umano, in quanto tale, può riattivare in se stesso, e ciò proprio perché la filosofia ha trovato il proprio essere nel puro sviluppo delle possibilità di pensare, nel personale ed esperienziale resistere, restare dentro la riflessione esperienziale, nel cogito. La filosofia resiste nel cogito. La filosofia ha la propria forza proprio nell’esclusione dell’eccezionale che, non essendo verificabile, ovvero, nell’ambito filosofico, ripensabile, non può produrre neppure l’ombra di un pensiero filosofico.
Mettiamo che si dica, ad esempio, che un uomo ha camminato sull’acqua. La situazione non interessa certo lo scienziato, perché l’uomo non può camminare sull’acqua, ma neppure il filosofo, perché anche secondo il filosofo l’uomo non può camminare sull’acqua. Il fatto che sia un singolo uomo ad aver camminato sull’acqua rimane inavvertito dalla ragione dell’uno e dell’altro, perché la ragione resta nell’universale, si interessa soltanto di questo, e del resto in questo vive costantemente. Nella fedeltà all’esperienza, al proprio vissuto, a ciò che ha visto e conosce rispetto all’uomo e all’acqua, al suo stesso nuotare, in base al suo stesso essere corpo, il filosofo si dimentica anche solo d’aver letto o sentito che, un giorno, un uomo camminò sulle acque.Il tassello non gli interessa, non serve all’edificio del sapere, e viene scartato. Se infatti apprende come una notizia la cosa, ammesso e non concesso che possa riuscire a superare il proprio sardonico e distaccato sorriso aristocratico per farsi un attimino più attento, si ritroverà immediatamente nella più imbarazzante, per lui, delle situazioni: il nulla da pensare. Nulla, perché dalla materia acqua, come la conosce, non può derivare la possibilità di sostenere il corpo di un uomo; nulla, perché dallo spirito dell’uomo, come lo conosce, non può derivare la possibilità di sospendere o superare le forze della natura. Nulla da pensare, dunque, se non proprio questo pensiero sull’impossibilità che l’evento si sia dato. Il filosofo, ricondotta l’informazione alla sua nullità, ritornerà allora in se stesso, padroneggiante l’essere, libero di sorridere dell’ingenuità popolare.
Ma perché, ritorniamo alla domanda, perché il filosofo non si è fatto attento all’eccezionale? Rispondiamo così: per poter essere “scienziato”, ovvero perché la vocazione della filosofia si è delineata via via e sempre più la ricerca della conoscenza non solo rigorosa, ma sicura, certa, inoppugnabile. La filosofia, quasi fin dai suoi esordi, ha tentato di porsi come piena e compiuta conoscenza della realtà, affinando le sue categorie fino ad una spaventosa profondità, ad una sottigliezza che, al suo compimento, si è configurata come una suprema e probabilmente insuperabile tensione della forza del pensiero. Tuttavia, sarà il caso di notarlo, la filosofia ha fallito millenni di tentativi, è stata ed è l’unica vera scienza “tragica”, una scienza infinitamente tentata, un tentativo all’infinito, un’eterna debacle, mai da nessuno portata non solo al compimento, ma neppure al cominciamento. Ad oggi, inutile negarlo, non esiste alcuna proposizione filosofica, in nessun ambito filosofico, che possa ascriversi universalmente, per unanime riconoscimento della comunità scientifica,sotto la categoria della “verità”.
Infatti, non solo non esiste una cellula, un atomo, un big bang, un 1 o un punto della filosofia, ovvero, non solo non esiste alcun “cominciamento” della filosofia (ma che gigantomachia si scatenò! Quanti gloriosi titani guerreggianti e caduti sul campo!), ma neppure la più minuscola e incidentale proposizione filosofica può riscuotere il consenso unanime della filosofia, se non l’assenso di coloro che decidono di accettare i presupposti che rendono un determinato gioco linguistico coerente con le sue regole intrinseche.Questo fatto, per la filosofia, anche attualmente e nonostante la sua storia di scienza fallita, oramai sotto gli occhi di tutti, questo non poter annoverare se non verità da ammettersi in base a presupposti in nessun modo fondati e fondabili, questo non poter esibire la verità come proprio possesso, tutto questo la filosofia continua a trovarlo insopportabile. Pur di darsi l’aspetto della scientificità, allora, la filosofia sceglie la via della menzogna, rinnega la propria volontà di verità, rinnega la pura volontà di scienza e si traveste da filosofia scientifica, finge metodi rigorosi, ibrida il proprio linguaggio con quello delle scienze, si insinua nelle scienze stesse e quasi tenta ipnoticamente d’essere riconosciuta da esse come una sua pari.
In verità, bisognerebbe isolarla dal consesso delle scienze, batterla ben bene e poi ammonirla così: “Vecchia stregona, per quanto ancora pensi di poter scimmiottare e incantare gli scienziati?”. Infatti li inganna davvero, perché le scienze hanno metodi ben rodati, solide fondamenta, ma le manca l’agilità della riflessione, e per questo l’incantesimo perdura ancora, per questo gli scienziati, pur dubitando in cuor loro della filosofia, non sanno bene come spazzarla via, come disfarsi di essa, come cancellare l’accademia filosofica dal novero delle università. Per farlo, infatti, dovrebbero pensare, ovvero elevarsi al di là del loro oggetto per porre la conoscenza come oggetto stesso, e in ciò sono ancora deboli; come risultato, lo scienziato per ora non si sbilancia, non osa tentare l’affondo, non sa farsi, come il filosofo, uomo del grande disprezzo, e così piuttosto si dispone alla quieta sopportazione della filosofia e, se è debole di pensiero, se è ancora ingenuo (ancora devono nascere gli scienziati filosofi, ma i tempi maturano) persino la stimerà come essenziale al complessivo sistema delle conoscenze scientifiche, senza naturalmente poter spiegare perché.
Ma che cos’è, in fondo, la filosofia? Con una definizione provvisoria, insufficiente, moderna e unilaterale, che neppure sfiori il complessissimo problema del suo contenuto, dichiariamo essere la filosofia un “elaboratore di possibilità”. Il possibile, non il reale, è ciò su cui si esercita il pensiero, è il terreno filosofico, ma ovviamente un terreno senza “terra”, irreale, inesorabilmente ideale. La filosofia non può che esercitarsi analizzando, scomponendo e ricomponendo idee, idee riguardanti astrattamente il “concreto” (natura, mondo, società, uomo, linguaggio, scienza...), oppure, ancora meglio, la filosofia può considerare astrattamente l’astratto mondo categoriale (uno e molti, io e altro, soggetto e oggetto, verità, essere...). In questo mondo rarefatto, raffinato, reale eppure irreale si muovono, nuotano i filosofi come pesci nell’acqua, e nessuno, sia chiaro, sa nuotare come loro e affrontare quelle vorticose e instabili correnti.
Si può ipotizzare che una filosofia possa gettare l’ancora in un’idea, per poi finalmente riposarsi nella sua contemplazione. Ma come farà ad esserne certa? Mediante sentimento interno? Ma tutti, dico tutti, dal più grande genio all’ultima fruttivendola, tutti convivono con la forte sensazione di possedere la verità, d’essere nel giusto, dalla parte giusta, perché l’uomo vive così,cioè convive con la sua certezza d’esser nel vero (persino tenendo per vero che non esiste alcuna parte giusta, alcun giusto, alcun vero ecc…). L’interiore consapevolezza del vero non dimostra affatto la presenza del vero. Forse mediante un argomento? Ma gli argomenti sono conclusivi semplicemente quando la forza di un pensiero è tale da non permettere replica; poi la replica avviene sempre, puntualmente, e l’argomento resta un elegante monumento all’intelligenza, decorativo ma privo di vita. E allora come, come si dimostrerà la verità cui si è pervenuti? Mostrandola, esibendo il fenomeno? Ma nell’esibizione, nell’interpretazione inaggirabile della cosa, nonché nell’impostazione stessa della problematica, insomma ovunque si annida e sempre si anniderà il problema stesso dell’essenza della filosofia, del suo destino d’essere elaborazione di possibilità, e così nessun fenomeno sarà mai “esibito” così com’è, perché infinite differenti confutazioni attenderanno qualsivoglia semplice, elementare esibizione di un qualsivoglia, anche semplicissimo,fenomeno.La filosofia resta nell’amore per la verità, resta semplice doxa, non può cessare d’essere tale.
Dicevamo che neppure il più elementare dei fenomeni, non so, ad esempio, la paura, può essere rischiarato fino a verità dalla filosofia (la filosofia non navigherà per questo a mille leghe dal vero, come se fosse necessario il suo ancoramento nel falso, ma mai potendosi assicurare del proprio vero e del proprio falso, complessivamente, sempre naufragherà). Anche nel piccolo, dicevamo, la filosofia fallirà, perché la miseria della nostra ultima filosofia, non neghiamolo ancora, è anche consistita o potrebbe ancora sostanziarsi nella squallida speranza di sostituire all’incertezza della grande metafisica la certezza delle micro-indagini. Si pensava e talvolta si pensa che concentrandosi sull’uomo, o su categorie socio-culturali, o su fenomeni specifici, ridotti, si possa aumentare la possibilità di ottenere la verità, si è anche pensato ad esempio, persino seriamente, che in questa riduzione si potessero erigere delle “scienze umane”, finalmente capaci di afferrare, con minuziose indagini empiriche, l’essere dell’uomo. Il risultato, rapportato comparativamente alle indagini metafisiche, è stato però questo (anche se ancora non è pienamente portato a coscienza): sono state stabilite e accertate più verità rispetto al sesso degli angeli che all’essenza dell’uomo.
L’assunto, che ebbe ragioni elevatissime e credibilissime, era infatti sbagliato: non è affatto vero che recintando, delimitando e limitando si ottiene finalmente un terreno atto alla semina, arabile. Niente si lascia afferrare una volta per tutte dal pensiero, assolutamente niente, e la più modesta fenomenologia della “paura”, lo ripetiamo, errerà non diversamente e non meno clamorosamente della considerazione della maschilità o femminilità delle creature celesti. L’infinita complessità del pensiero, che escogita sempre nuove e imprevedibili strategie di visione delle cose, e l’infinita complessità dell’essere stesso impedirono, impediscono e sempre impediranno alla filosofia di dormire tra quattro guanciali.
Ma perché, perché il filosofo si è ridotto a tanto, a barattare la metafisica per indagini sofisticate e deliranti, che non toccano più l’essenza della nostra esistenza?L’abbiamo detto, perché il filosofo bramò la potenza, la potenza della conoscenza, e operò per secoli cercando la formula per la trasmutazione della filosofia in scienza. Ma perché il filosofo, oggigiorno, dopo il suo fallimento, non ha voglia di aprirsi ad una prospettiva altra rispetto al dominio della ragione? Perché, ragionevolmente, non sente il desiderio di superare l’illuminismo? Tutta la filosofia infatti, per lo più, si è mantenuta, come prefigurazione o come compimento, nell’”illuminismo”, nel regno della ragione. Ora però, freddamente o dolorosamente consapevoli dell’eterna impossibilità dell’afferramento della verità, perché i filosofi non cercano nuove lande? Perché, invece di lanciarsi nell’aria, svolgendo impressionanti numeri circensi di indubbia eleganza, non tornano a posarsi sulle rocce, come è giusto nelle epoche di crisi, per farsi ricercatori della saggezza? Perché non vogliono costituire un’alternativa alla figura dell’intellettuale-scienziato? Perché non si adoperano a fare della filosofia, ad esempio, non una scienza, ma una forma di meditazione?
Il filosofo ha abdicato alla sua formidabile possibilità più essenziale, esser ponte verso l’assolutamente altro. Il filosofo ha impunemente abbandonato ai sacerdoti e alle sette ogni indagine spirituale, condannando il mondo dello spirito all’asfissia dell’assenza di pensiero, con conseguente impoverimento di tutte le pratiche spirituali che, volenti o nolenti, si radicano proprio e per forza di cose nel pensiero. Il filosofo è inoltre colpevole d’essersi illuso, d’aver illuso l’uomo con l’immagine di un mondo meraviglioso, meraviglioso perché privo di moralità e sacralità, meraviglioso perché, oltre l’uomo, niente. Il filosofo si è inebriato di nulla, e con ciò è quindi per natura colpevole d’esser mero specchio della propria epoca, ovvero d’aver con fanciullesca innocenza recitato la sua parte necessaria affinché trionfasse il destino della morte di Dio. La grande colpa del filosofo grava ora sulle nostre spalle, l’immenso errore di non aver capito che il secondo mondo, l’altra faccia dell’essere, non è un raddoppiamento fittizio, l’ingenuità di un uomo ancora troppo fifone e ignorante, ma una realtà maestosa e multiforme senza la quale noi, come enti tra gli enti, perdiamo tutto il nostro senso, tutta la nostra forza e specificità.
D’altra parte, evidentemente Hegel è ancora un maestro di pensiero: dopo l’uomo puramente in Dio, doveva affermarsi per rovesciamento dialettico l’uomo puramente fuori di Dio. Noi siamo ancora nell’epoca di quest’uomo privato del più elementare senso del sacro, di quest’”ultimo uomo” bidimensionale(per dirla con Nietzsche), ma proprio perché questa è oggi la figura dominante, proprio perché l’oltreuomo non è e ovunque domina invece l’ultimo uomo “saltellando sulla terra”, proprio a causa di questa stanchezza, della fine dell’ottocentesca volontà di smascheramento, della crisi della volontà scientifico-circoscrivente, la filosofia potrebbe desiderare un percorso alternativo, e raccogliendo feriti tra le macerie delle tradizioni spirituali, risollevandoli e curandoli e rincuorandoli, come una fenice (e non più come nottola) potrebbe risorgere dalle sue ceneri come ciò che anche è stata destinata ad essere: la via del pensiero verso l’Altrove e la trasformazione dell’anima.
In verità, la filosofia è lontanissima dall’imboccare questa strada, ovvero neppure una delle molteplici filosofie esistenti mostra quest’intenzione; tuttavia, a ben vedere, anche solo queste mie semplici riflessioni sono forse il segno di qualcosa; infatti, mentre la filosofia si fa sempre più tecnicistica e la tecnica, quella vera, sempre più relega la filosofia nel cosmo delle antiche stramberie dell’essere umano, tra la “gente”, tra le persone, un’esigenza profonda e ancora indeterminata comincia qua e là ad emergere, quella d’avere una filosofia come guida dell’esistenza reale, un mondo di riflessioni e pensieri organizzati che possano condurre verticalmente nell’essenza delle cose, dei percorsi spirituali che siano un reale lavoro su di sé, non meno denso d’implicazioni per l’intera personalità rispetto ad un trattamento psicoanalitico o ad una costante meditazione buddista. Certo, quando e se questa filosofia si realizzerà, al di fuori di ogni accademia, probabilmente non la si chiamerà più filosofia, ma questo non ha importanza alcuna, perché la filosofia, come tale, come la disciplina che porta questo nome, è soltanto una forma della volontà di conoscere, e potrà dunque tranquillamente esser deposta come antica e inadeguata forma dello spirito.
“Al di fuori di ogni accademia”, ripeto, perché nell’accademia, oggi, lo spirito non alberga. L’esistenza dell’accademia è anzi uno dei motivi fondamentali che impediscono alla filosofia di accorgersi del diffuso bisogno spirituale emergente, perché l’accademico è impegnato nelle pratiche accademiche, e queste sono forme della filosofia socialmente accettabili e riconoscibili, e devono esserlo, perché l’università è al soldo dello stato e perché la comunità intellettuale è una, e il filosofo deve pur conquistarsi il suo prestigio, a suon di pubblicazioni da pesare quantitativamente, accanto al giurista e al chimico, al medico, al matematico e al critico d’arte. L’accademia filosofica è così una macchina che perpetua se stessa e che per sopravvivere si modifica secondo le inclinazioni intellettuali dominanti, infiltrandosi tra le scienze umane e quelle della natura non tanto per giungere ad un dominio dall’alto della verità, ma semplicemente per “rimanere a galla”, per riuscirsi a barcamenare nell’universo multiforme del sapere. L’accademia ha dato molto, moltissimo, gliene siamo grati sinceramente, per secoli è stata la fonte di ogni filosofia, ma tutto volge ora al tramonto, e le filosofie vere, nel futuro che viene, ricorderanno l’accademia filosofica come mero momento, non sempre brillante, delle svariate forme di concretizzazione dell’universo culturale umano.
Ora, ricapitoliamo. La filosofia della mitologia si propone come filosofia, e dunque il suo filosofo come un cacciatore della verità, imprescindibile bersaglio d’ogni freccia concettuale. La filosofia, tuttavia, non può pretendere, consapevolmente assumendosi la responsabilità della sua storia, di esibire o dimostrare con certezza alcunché, e si muove dunque, lucidamente, nella sfera delle possibilità. La filosofia è una scienza del possibile. Il contenuto della filosofia della mitologia, però, è il mito, e dunque la realtà. La filosofia mitologica elabora così delle possibilità in merito alla realtà della manifestazione del sacro, che sempre si dà nella parola, nel mito, che sia parola rituale nel tempio, formula magica, preghiera, racconto serale attorno al camino, ascolto di voci impossibili che chiamano ad impugnare la spada o incisioni su oggetti di potere. La filosofia, indagando queste sfere, intrecciandosi, incontrando e pensando l’arte, le scienze occulte, le religioni e la storia si pone allora come una scienza del sacro. Presuppone l’esistenza dell’Impossibile, identificandolo e non identificandolo come Dio, e presuppone di conseguenza che, per quanto imprevedibile per l’uomo, se ne possano tuttavia rilevare le tracce nell’esperienza, nell’eccezionalità irripetibile dell’evento, che è il cuore della verità.
Tuttavia, la filosofia in questione avanza una pretesa alla totalità, e per questo non vorrebbe mai e poi mai configurarsi come una filosofia della religione o delle religioni, perché giocherebbe se stessa nel gioco linguistico delle scienze, in cui ciascuna sgomita per la propria autonomia e determina principi epistemologici validi soltanto nella propria sfera. Come se la totalità non fosse la realtà! Come se l’unico non fosse l’unico vero pensiero! Come se le parti potessero davvero sussistere al di fuori dell’intero! Come se una pianta si potesse davvero capire sradicandola dalla terra che essa stessa è come sua esterna manifestazione! Una, una sola è la totalità, e dunque la filosofia della mitologia, pur follemente concentrandosi sul dettaglio, sul mito, mira tuttavia al sacro come alla natura, alla natura come alla natura umana, all’essere dell’uomo come al suo stare felice od infelice in solitudine o in comunità; analizza magari un semplice dettaglio, ad esempio un gioco di carte forse non prestidigitativo ma realmente straordinario, ma lo fa per ridiscutere l’essenza complessiva della materia, perché in certe sere, in un certo salotto borghese, accaddero cose che la realtà ordinaria non contempla e neppure sopporta.
Accade l’irrazionale. La carta passa realmente attraverso il tavolo. Supponiamo per un attimo l’esistenza di questo fenomeno, che infatti si è effettivamente dato; che ne è, allora, dell’idea della materia, della solidità? Di che pasta è fatta la realtà, se la carta può penetrare un tavolo? E se lo può fare soltanto mediante l’intervento della coscienza, che cos’è questa potenza che sospende le leggi del reale? Che ne è del pensiero, se il pensiero interagisce con la struttura della materia? E interagisce immediatamente, oppure attraverso un terzo? Supponiamo per un attimo che un uomo sappia con straordinaria precisione che un incendio sta devastando una certa parte di una certa città, e che non possa assolutamente saperlo secondo procedure razionali di acquisizione della conoscenza; che ne è, allora, del da-sein? Che ne è dello spazio? Che ne è del limite? Supponiamo per un attimo che un uomo appaia, contemporaneamente, in un luogo e in un altro, ed in entrambi i casi si relazioni ad esseri umani in modo più o meno appropriato ai comportamenti sociali; che ne è, allora, dello spazio, dell’anima, dell’esser individuato e dell’unità della coscienza umana? Ipotizziamo che un uomo possa vedere un serpente di proporzioni immani, un altro possa viaggiare fino al più alto dei cieli, che una donna possa trasformarsi in gatto e che un'altra possa staccarsi da terra, in preghiera, e librarsi nell’aria; che ne sarebbe, allora, sintetizziamo, di tutto il nostro edificio conoscitivo? Che ne sarebbe della realtà? Un uomo, ancora, vede o vive ciò che vivrà e vedrà; che ne sarebbe, allora, del tempo, e di conseguenza dell’intera nostra consueta descrizione della realtà, su di esso saldamente fondata?Non si rivelerebbe, in fondo, una narrazione, un mantenere l’essere nei ceppi del linguaggio, insomma, non si svelerebbe esso stesso, il nostro sguardo, come un mito, uno dei molteplici miti, il mito moderno del mondo?
I miti, appunto. Perché la filosofia della mitologia può ad esempio adottare una strategia a-storica, quasi fenomenologica, analizzando la coscienza estatica, la coscienza sciamanica, quella religiosa, e può farsi quasi speculativa, ponendosi di fronte oggetti che segnano l’esperienza come scaturendo dalla non-esperienza, dal nulla di usuale, dall’incomprensibile, dall’abisso. Può fare tutto ciò, certo, ma senza dimenticare che il mito si dona nella dimensione diacronica della storia. Nella costruzione filosofica di un mito bisogna rammemorare meditativamente e rivitalizzare la vita temporale del principio occulto che ambiguamente, nell’infinita contraddizione, si è dipanato nella storia umana, tutto fondando, generando l’uomo e la natura a partire dal sogno, e manifestandosi come un dio animale, poi un dio uomo-animale, una molteplicità del divino, e come un uomo-Dio, soprattutto. Può infatti l’evento del Golgota, ancora oggi, significare? Si può interpretare ancora la natura della natura e la natura dell’uomo e la natura dell’universo tutto alla luce della prospettiva folle di un uomo che muore, alla luce della follia della croce? E Dio, nel suo nascondimento e nel suo mascherarsi, ora, adesso, dov’è? Cos’è? Chi è? Cosa sta diventando? Quando accadrà - e non è vicina l’ora? – una nuova formidabile teofania?
Perché, sia chiaro, la filosofia della mitologia può cacciare miti, interpretare miracoli, tentare l’immedesimarsi con uno sciamano in stato di trance, può centrarsi nell’eccezione dimenticata e nella narrazione centrale ed eccezionale del tempo immemorabile dell’assenza di tempo, può cercare la fede, l’atto magico della parola dominatrice e la decifrazione della scrittura dei cieli, ma ad ogni modo, essendo soltanto un’attività intellettuale - neppure lontanamente coinvolgente la totalità delle forze costituenti ciò che siamo – non può che risultare comunque eternamente insufficiente, anche solo ai fini dell’incamminarsi verso la felicità umana o l’alleviamento del suo dolore, nonché ineluttabilmente passiva, sempre giustamente dipendente dai decreti della Giustizia, e drammaticamente incapace di prevedere la conformazione dell’evento eccezionale che verrà, assolutamente non scientifica, esposta invece necessariamente alla meraviglia della manifestazione di un Dio che, all’avvento della religione che verrà, se poi la si chiamerà religione, forse non sarà più il nostro Dio.
Questioni difficili, addirittura mastodontiche, esagerate, gigantesche, epocali, fantascientifiche, fantastiche, mitiche. Le affronteremo, se il Tempo vorrà e con la benevolenza del Dio, nelle lezioni a venire. Che inizieranno dall’inizio, naturalmente, scegliendo come inizio il Sacro, che è l’Iniziale, in quella sua manifestazione concreta primaria (secondo la storia profana, almeno; la storia occulta la terremo invece, momentaneamente, da parte) che appunto gli storici della religione definiscono con il termine “Sciamanismo”. Lo sciamanismo, la più arcaica delle forme del pensiero umano, la più iniziale delle manifestazioni del divino, ci condurrà allora allo stesso tempo nei pressi del mito in generale, permettendoci la formulazione delle seguenti questioni, decisive per l’impostazione dell’intera scienza sacra, ovvero queste: è possibile che il mito sorga come conseguenza della visionarietà dell’essere umano iniziale? E’ possibile che la veggenza sia una forza reale, dalla quale scaturirono mondi (popoli)? Possibile che la veggenza debba essere ascritta nel novero delle facoltà teoretiche umane? Possibile infine che oggi, qua e là, la facoltà chiaroveggente si stia risvegliando da un sonno plurimillenario? La mitologia filosofica tenterà di penetrare questi misteri, e dunque si appronterà ad elaborarsi, per corrispondere all’arduo compito, come una filosofia della veggenza. Una narrazione filosofica della veggenza.
Ma il lettore è ora stanco, è giunto fino al fondo dell’articolo (e di ciò lo ringrazio di cuore), magari addentrandosi persino nel cuore della notte, la culla del mito, ed è bene allora non intossicarsi troppo di parole, e terminare qui la seconda lezione. Come conclusione, solo una parola d’augurio, una buonanotte: che il linguaggio del sogno vi trascini nell’inganno vero dell’immagine vivente e operante in voi, e che il silenzio del sonno, strappandovi l’essere, vi accompagni, ristoratore, al di là di ogni stato possibile, nel vuoto indescrivibile, nel dominio dell’Incommensurabile, nella sfera occulta dell’ultima parola, di Dio.
 
[1] Perché l’occidente ha divorato se stesso? Perché le società tradizionali permangono invece identiche per millenni? Si tratta solo del movimento del capitale? Si tratta del destino dell’essere? Suggeriamo quest’ipotesi filosofico-mitologica (non ulteriormente sviluppabile in nota) ad integrazione di altre concause del fenomeno: la società tradizionale non muta perché è ancorata a qualcosa, è realmente innestata nel mito, è realmente in comunicazione con un elemento sacro, con il non umano. L’occidente invece, perduto questo fondamento reale, lo ha soltanto riprodotto artificialmente (la fede in Dio come dottrina), e dunque non poteva e forse non potrà mai aver pace, e sempre ancora divorerà le proprie stesse produzioni, se l’extra-umano non tornerà a compenetrarsi con la nostra stessa essenza.
[2] Sviluppi interessanti nella direzione di una nuova critica del capitale e in generale dell’intero nostro modello di civiltà, ovvero un effettivo sforzo filosofico di ripensare le categorie fondamentali del pensiero per riattivare la potenza della forza critica, si possono rinvenire nei promettenti lavori di G. Miniagio (non ancora adeguatamente al sicuro, tuttavia, rispetto al rischio di coltivare un terreno reso oramai infertile dal troppo seminato), di cui vogliamo perlomeno ricordare, oltre agli articoli pubblicati nel presente spazio virtuale, l’articolo (reperibile in rete) Adversus paedagogistas (ottima denuncia dello strapotere del pensiero tecnicizzante nell’istituzione scolastica) e il suo contributo alla collettanea della Mimesis Lavoro, merce, desiderio.
[3] Si legga, a questo proposito, il “mantra teoretico” di Marco Ciccarella Costituzione e struttura simbolica del mondo delle cose (in questo stesso luogo virtuale). Non senza sofferenza l’autore, impegnato e impigliato nel problema della costituzione, attesta la difficoltà di svincolare l’io dalla presa simbolica del sociale e del mondo, per cui ognuno dei tre termini sembra inesorabilmente rispecchiare gli altri, costituire gli altri, in un rimando apparentemente senza un “prima” che condannerebbe l’io al vuoto identitario, o ad esistere sempre e soltanto nella rete delle relazioni simboliche ed assieme all’oggetto. E’ interessante tuttavia, nella prospettiva di un superamento dall’interno della volontà del limite, lo sforzo profuso dall’autore per sottrarsi al labirinto degli specchi, il tentativo e soprattutto il desiderio di pensare un “oltre lo specchio”, una “zona franca” libera dai riflessi, una sfera dell’incondizionato, ovvero, nell’articolo in questione, l’inconfessato regno del puro io meta-fisico (dal punto di vista teoretico) e il possibile svincolarsi dal rispecchiamento di un mondo mercificato per la creazione di una nuova forma del vivere umano (dal punto di vista “politico”).