Gabriele Miniagio | Al di là di idealismo e realismo: ecologia e temporalità della percezione

Per l’idealismo l’oggetto della percezione è il prodotto di un atto sintetico della coscienza, edificato a partire da dati sensoriali elementari; esso considera inoltre un costrutto soggettivo anche l’oggetto della scienza, in cui i predicati  matematico-obiettivi formalizzano e sostituiscono quelli percettivi.
Il realismo ragiona in modo radicalmente opposto: l’oggetto è una cosa che sussiste autonomamente, provvista di una serie di proprietà reali, indipendenti dalla coscienza, e che la scienza coglie; la cosa percepita di conseguenza è l’effetto che essa esercita sulla capacità percettiva umana.
Entrambi i modelli di pensiero in qualche modo duplicano l’oggetto in una “cosa della percezione” e in una “cosa della scienza”, iscrivendolo così in gerarchie di fondazione di segno contrario. Ma con ciò le difficoltà si moltiplicano.
L’idealismo infatti ha questo problema: se la cosa in sé è fuori circuito, come si giustificano i successi della scienza? Come si spiega che essa colga in qualche modo il reale? In fondo la bomba atomica è esplosa e la vita è sul punto di essere riprodotta sinteticamente.
Il realismo dal canto suo ha il problema opposto: la scienza è pur sempre una elaborazione della cosa percepita, la quale, a sua volta, è costruita a partire da dati immanenti: come si giustifica allora la pretesa che essa colga strutture oggettive?
L’idealismo deve quindi rispondere ad una domanda:
- come può essere esclusivamente soggettiva l’esperienza della coscienza, se su di essa viene edificata una scienza che controlla la natura?
Il realismo deve invece rispondere alla domanda:
- come può essere oggettiva una scienza, se i suoi costrutti sono edificati a partire dall’esperienza percettiva?
È evidente che le due domande sono speculari; anzi possiamo dire che si tratta della stessa domanda. Se la domanda è una sola, possiamo allora ipotizzare che coscienza e realtà costituiscano un sistema unitario e che esso contenga la risposta. Scopo di questo lavoro è tentare di capire cosa sia questo sistema e come possa superare idealismo e realismo in un’unica teoria dell’esperienza.
Articoleremo l’analisi del sistema coscienza-realtà secondo quelli che ci sembrano essere i suoi due livelli costitutivi:
  1. il radicamento ecologico della percezione;
  2. il rapporto di differimento temporale fra dati di sensazione e il fare della vita soggettiva.
 
  1. Il radicamento ecologico della percezione.
 
La domanda su come si possa costruire un oggetto percettivo e come possa questo, al tempo stesso, mostrare una struttura reale extrasoggettiva deve essere preceduta da un’altra:
  • come si forma filogeneticamente un organo di senso?
La risposta parte da  un intero ecologico: l’organo di senso è il prodotto della sanzione selettiva esercitata sul suo potere cognitivo da un ambiente, il quale ha condizioni che, per la sopravvivenza dell’organismo, è necessario conoscere.
Dunque, prima di ogni operazione riflessiva che separi i dati di coscienza dalle proprietà reali, vi è una totalità che ha la forma organismo-ambiente, così come la storia dell’evoluzione l’ha costruita e che non si può spezzare senza cadere nelle aporie insanabili di idealismo e realismo.
Gli organi di senso appartengono ad un organismo che, per essersi potuto mantenere in vita, attraverso essi deve avere avuto in generale una qualche aderenza al reale. In altri termini, una specie animale, i cui organi sensoriali non abbiano alcuna presa sulle condizioni minimali, che in un certo mondo-ambiente è necessario conoscere per la sopravvivenza, non tarderebbe ad estinguersi.
La percezione è dunque già innervata in un oggetto “reale”; ad aver in qualche misura regolato quest’aderenza, con sensibili differenze di grado e di tipo, a seconda delle diverse esigenze cui adattarsi, è la storia dell’evoluzione[1].
Gli organi percettivi insomma non distorcono la realtà nelle qualità secondarie; piuttosto, grazie alla storia dell’evoluzione, è già stata assicurata loro una qualche adeguatezza rispetto alle strutture reali con cui interagiscono, la cui conoscenza è condizione per la sopravvivenza.
Non c’è un potere percettivo della coscienza che vada attaccato a o messo in corrispondenza con la realtà; questo modo di presentare il problema è ciò che in retorica si chiama ysteron-proteron: è perché vi è già qualcosa dalla parte della realtà che si è potuto sviluppare il corrispondente potere percettivo. Gli organi di senso dunque non si adeguano al reale, piuttosto, in generale e salvo casi limite, vi si sono già adeguati nella storia dell’evoluzione.
L’occhio c’è perché c’è la luce.
Appare chiaro che il dato di coscienza non è affatto in un ambito soggettivo privato, rispetto a cui si istituirebbe una problematica corrispondenza con quello oggettivo. Lo spazio della percezione è già sempre aperto alle cose grazie alla storia naturale, la quale, in modo non teleologico, la ha accordata a quella porzione di reale che è indispensabile conoscere per mantenersi in vita. Nessun organo di senso può essere interamente acatalettico; in esso è già presente la storia evolutiva dell’interazione organismo-ambiente e della selezione di quegli organismi che sono in grado di conoscere le condizioni minimali per adattarsi ad esso.
 
Quello che si dice a proposito della presunta interiorità dei dati di senso deve dirsi a proposito della presunta interiorità delle strutture a priori della percezione (spazio, tempo, causalità); da questo punto di vista l’alternativa fra idealismo e realismo si presenta del tutto fuorviante. Il dato primario su cui riflettere, come scrive E. Morin, è la corrispondenza fra i principi organizzazionali della nostra conoscenza e quelli del mondo fenomenico[2], prodotta da un processo evolutivo cerebrale, svoltosi a livello filogenetico, che li integra e li rende, sotto il profilo ontogenetico, innati[3].
Il passo seguente merita un’attenta considerazione.
Così le forme ontogeneticamente a priori sono filogeneticamente a posteriori. L’a priori kantiano è un a posteriori evolutivo. Il principio di auto-eco-organizzazione spiega, giustifica, limita, critica, supera l’a priori kantiano. Esso permette di considerare un’evoluzione creatrice che integra trasforma le potenze d’ordine e di organizzazione ecologiche, biofisiche, cosmiche, in potenze psico-cerebrali organizzatrici di conoscenza. [Capoverso] […] Questo apparato cognitivo si è costruito nel mondo ricostruendo a suo modo il mondo in lui. […] Se l’ordine e l’organizzazione del mondo esterno si costituiscono nella nostra mente perché essa impone ai messaggi dei sensi le sue regole, le forme, gli schemi, le categorie a priori, ciò è dovuto al fatto che questi schemi e categorie si sono evolutivamente elaborati estraendo da questo mondo esterno i suoi principi d’ordine e di organizzazione. È perché in un certo modo l’ordine e l’organizzazione del Tutto sono nella parte conoscente che quest’ultima può costruire in modo singolare e originale traduzioni analogiche o omologiche del mondo fenomenico. [Capoverso] Gli additivi che strutturano e organizzano la percezione non sono soltanto proiezioni della mente/cervello; sono principi e strutture in un certo modo analoghi e omologhi (in virtù della dialogica evolutiva auto-eco-organizzatrice) a quelli del mondo fenomenico e in quanto tali sono capaci di produrre rappresentazioni in un certo modo analoghe ai fenomeni e teorie in un certo modo omologhe al loro ordine e alla loro organizzazione. A questo punto noi possiamo non soltanto riconoscere la possibilità di una conoscenza oggettiva, ma anche ammettere che tale conoscenza possa corrispondere a certi caratteri intrinseci della realtà esterna. Possiamo così capire come l’immagine o l’astrazione possano costituire conoscenza[4].
Alla luce di tutto questo, possiamo dire che i termini tradizionali coscienza e realtà sono ormai logori e andrebbero sostituiti proprio con organismo e ambiente, tenuti insieme dall’intero ecologico. Adotteremmo questa terminologia se non vi vedessimo il pericolo di un riduzionismo volto a negare strati ulteriori, di natura simbolico-sociale.
Dunque la percezione non è affatto uno specchio deformante: non c’è metafora più inadatta di questa; lo specchio è un’immagine equivoca perché separa nella reduplicazione e individua un rapporto con l’oggetto d’esperienza che non esce dall’opposizione immanenza-trascendenza; ma qui non si tratta di gettare un ponte tra i due diversi ordini dell’essere e del conoscere, le qualità primarie e le qualità secondarie, la cosa in sé e la cosa percepita, piuttosto di insediarci fin dall’inizio nell’unità di organismo e ambiente che lo sviluppo della vita animale ha già predisposto.
Un atteggiamento di pensiero che, per quanto riguarda i dati di senso, si modelli sul Cogito cartesiano e sulle qualità secondarie galileiane, e, per quanto riguarda le strutture di fondo della percezione, si modelli sull’a priori kantiano, senza essere capace di integrare entrambi ecologicamente, falsa l’analisi, individuando un soggetto weltlos perché isolato come Geschichte-los, privo della sua naturale stratigrafia storico-evolutiva che, sola, può garantire la coappartenenza al reale.
L’evoluzione, in generale e per aspetti limitati dell’ambiente con cui l’organismo interagisce e a cui si è adattato, ha costruito un’unità non teleologica fra organi di senso ed entità reali, principi organizzazionali della capacità percettiva e principi organizzazionali dell’ambiente circostante.
Questa prospettiva ecologica è opposta rispetto al soggettivismo cartesiano: la situazione limite è l’illusorietà percettiva; ciò si può corroborare con due argomenti: in primo luogo, su un piano reale, un organismo sempre allucinato non potrebbe ragionevolmente sopravvivere al mondo esterno; in secondo luogo, sul piano della teoria, l’allucinazione è proclamata falsa in quanto il meditante sa cos’è il vero e il falso sulla base della discriminazione fra esperienza reale ed esperienza illusoria, discriminazione che è possibile solo ammettendo che ci sia un mondo e che esso ci si manifesti in qualche modo, secondo strutture costanti che possiamo più o meno cogliere.
Iniziamo ora a gettare una luce: le qualità secondarie, i materiali della percezione, e i loro schemi organizzazionali non sono solo in noi, come un’arbitraria deformazione coscienziale; per il fatto stesso che l’organismo deve mantenersi in vita, i suoi organi di senso e le strutture mentali che essi portano con sé devono poter avere per lo meno le cognizioni sull’ambiente che sono a ciò necessarie.
Siamo quindi al di là del piano autoriferito dell’immanenza dei “dati di senso” e dell’a priori. La percezione insomma è il termine di un transito organizzazionale in cui “esterno” e “interno” non possono essere assunti come assoluti, ma sempre nella continuità dell’uno nell’altro.
Possiamo quindi dire che il vissuto percettivo si iscrive in un intero ecologico, tale per cui, nella sua forma e nella sua materia, è già engrammato il suo correlato “reale”.
 
Negli argomenti sopra proposti ha svolto un ruolo fondamentale la teoria dell’evoluzione. Vi è, tuttavia, la possibile obiezione del costruttivismo radicale: la concordanza di una cognizione percettiva, di cui un organismo sia in possesso, con la realtà, insomma la verità, non può essere ricavata dal concetto di “essere adatto a”: essere adatto in senso funzionale, il prestare il servizio in modo idoneo (to fit), non coincide con l’essere adeguato (to match) nel senso dell’adaequatio veritativa; analogamente una chiave può essere adatta ad una serratura anche se non è adeguata alla sua forma[5] o addirittura uno strumento che non ha niente a che fare con la sagoma della serratura può penetrarvi e scassinarla. La sanzione evolutiva non è quindi sull’adeguatezza delle strutture cognitive, ma sull’efficacia dei comportamenti che essi innescano.
Secondo il costruttivismo l’organismo non si rappresenta veritativamente la realtà esterna, ma la ricrea, inventando  rappresentazioni in grado di guidare comportamenti operativamente efficaci rispetto alle sue modificazioni; vi sarebbe quindi una sorta di omeostasi cognitivo-comportamentale, che riesce a preservare l’organismo dalle perturbazioni dell’ambiente[6]. Perciò, quando crediamo di percepire l’esterno, saremmo in realtà noi che lo inventiamo: l’ambiente non farebbe che sollecitarci di volta in volta ad una creazione cognitiva, in cui è in gioco non l’“essere adeguato” all’esterno, ma l’“essere efficace”, non il piano veritativo, ma un piano creativo-funzionale.
Da questo punto di vista la selezione naturale, nella filogenesi così come nella storia della conoscenza, non seleziona gli elementi più resistenti o in grado di contenere un maggior numero di cognizioni vere, ma funziona in modo negativo, eliminando semplicemente ciò che non è vitale[7]: non vi sarebbe dunque una sanzione positiva su ciò che è più adeguato, ma una sanzione negativa su ciò che è meno adatto.
Ora, la distinzione fra esser-adatto funzionale ed essere adeguato in senso veritativo, così come l’operare in negativo della selezione naturale, sono argomenti ragionevoli. Ma tutto ciò non è in contraddizione con quanto sostenuto finora e vi si deve anzi integrare: non si è detto infatti che essere adatto significa di per sé contenere cognizioni adeguate, ma che le cognizioni percettive adeguate possono costituire uno dei modi dell’essere adatto e che un ipotetico organismo animale senza alcuna cognizione percettiva adeguata si rivelerebbe del tutto inadatto; esso sopravvivrebbe forse nel breve periodo per una serie fortunata di alee, ma sarebbe meno attrezzato a fronteggiare un elemento distruttore, costantemente presente in modo nel suo ambiente, di un altro organismo che possedesse cognizioni in grado prevederne la pericolosità e di predisporre perciò comportamenti idonei.
Il discorso è dunque molto semplice e può essere sintetizzato così: nell’ambito di ciò che è funzionale alla vita rientra la cognizione percettiva. È del tutto plausibile pensare che filogeneticamente certe forme cognitive si siano rivelate più adatte proprio per il fatto di riprodurre in modo più adeguato la  struttura organizzazionale del mondo esterno.
È possibile dunque integrare adattamento comportamentale e adeguatezza conoscitiva e superare così le obiezioni del costruttivismo.
Ecco quindi un primo risultato. Dato un organismo, la filogenesi delle sue forme cognitive ha già incontrato l’ambiente. Insomma, a priori dell’a priori cognitivo c’è l’a posteriori “storico” dell’evoluzione.
 
  1. Il differimento temporale.
 
Risolto, grazie  all’intero ecologico, il problema di come i dati di senso e la struttura a priori che li organizza possano in qualche modo cogliere il reale, resta un ultimo problema: l’oggetto dell’intenzionalità percettiva, quello costituito a partire dai dati di senso, contiene, sì, cognizioni vere sulle strutture obiettive, ma ciò non toglie che esso non sia la “cosa in sé”; esso sembra configurarsi come un secondo oggetto. D’altra parte se si prende un oggetto in mano e lo si utilizza, ci si dirige non ad un duplicato coscienziale, ad un pulviscolo di fenomeni soggettivi, ma alla cosa stessa. Ciò è vero anche in interazioni più complesse, quelle del mondo storico-sociale e della prassi. La prensione e l’utilizzo di un oggetto, il carattere pragmatico progettuale che la percezione ha a questo livello ci mostra che la direzionalità della coscienza è verso la cosa, non verso i propri dati di senso: non solo l’attore di questa esperienza, ma anche un ipotetico osservatore giungerebbe allo stesso risultato.
Idealismo del percepire, realismo del fare: se tutto questo è vero, come può il soggetto nella percezione e nell’azione avere un unico oggetto? L’oggetto su cui io opero deve essere lo stesso dell’oggetto che io vedo.
Per sciogliere questo nodo occorre chiarire come il fare e il percepire siano strettamente legati. Possiamo ipotizzare quanto segue: quando l’oggetto reale è presente al fare, esso ha già suscitato una serie di contenuti percettivi, che gli vengono così proiettati; i “dati immanenti” della percezione funzionano quindi come predicati oggettivi della x trascendente del fare. Il conferimento d’intenzionalità non avviene dunque nel puro percepire e la sintesi che la coscienza opera deve già comprendere il fare.
I dati di senso sono perciò la traccia di un’affezione da parte dell’oggetto reale appena passata, ma trattenuta, solidificata e condensata nel presente, in cui una serie di atti pragmatici tendono intenzionalmente al medesimo oggetto reale; intorno ad esso i primi trovano il luogo della polarizzazione intenzionale. L’operazione della coscienza è quindi di vivere come presente questa traccia mnestica del passato. La percezione e il conferimento d’intenzionalità non è che questa metonimia temporale. L’oggetto intenzionale è dunque il termine di questo vedere-per-fare temporalmente differito.
Fra un attimo ci interrogheremo sul significato dello spazio temporale che intercorre tra il passato dell’affezione e il presente del fare e metteremo in evidenza come esso, paradossalmente, avvicini la coscienza alla realtà anziché allontanarla; ma per ora dobbiamo sottolineare il significato di quanto appena emerso: ciò che Husserl ha chiamato la Sinngebung, il conferimento d’intenzionalità a dati immanenti, non è un arbitraria proiezione in un punto di fuga vuoto; questa x a cui vengono attaccati i predicati percettivi è quell’oggetto trascendente con cui il soggetto d’esperienza interagisce pragmaticamente, manipolandolo, modificandolo, etc..
La trascendenza non è dunque un autoinganno della coscienza. L’oggetto della percezione è realmente trascendente poiché è lo stesso dell’azione.
 
Ecco quindi il risultato; i sistemi di riferimento sono inevitabilmente due, ma essi ingranano l’un l’altro e si ibridano: il puro occhio teoretico, che parte dalla riflessione sulla percezione, non accede all’elemento che conferisce intenzionalità verso un oggetto realmente trascendente; la semplice prospettiva pragmatica, che riflette sull’operare della vita soggettiva sugli oggetti, non accede alle dinamiche costitutive. In questo senso nel dissidio fra Husserl e Heidegger, nel contrasto sul primato della coscienza costituente o dell’essere-nel-mondo, hanno ragione entrambi ed entrambi hanno torto: nel processo in cui i dati immanenti del percepire vengono polarizzati intorno all’oggetto trascendente del fare è in gioco un sistema unitario coscienza-realtà.
 
Sorge però un problema: posto che, in virtù di quella attribuzione dei dati sensoriali all’oggetto del fare, non c’è più un dualismo di oggetti e che all’unico oggetto, quello realmente trascendente del fare, vengono attribuiti i predicati percettivi, non si verifica con ciò un dualismo di proprietà? Da una parte, in effetti, ci sarebbero quelle che ha l’oggetto in sé, indipendentemente dalla percezione, dall’altra quelle che gli vengono proiettate dalla percezione: le proprietà che la vita soggettiva proietta sull’oggetto trascendente non sono quelle che realmente gli ineriscono e nel complesso questa operazione costitutiva della coscienza si potrebbe pensare come una soggettività spacciata per oggettività, una sorta di errore permanente della percezione utile alla sopravvivenza; nel fare effettivo della vita soggettiva la x a cui attacco i predicati sarà pure reale, ma questi predicati sono comunque soggettivi-percettivi, sono qualità sensoriali apprese come se fossero proprietà cosali. Ecco quindi il problema: il nesso d’inerenza, stabilito dal processo costituente, che salda al transcendens presunti predicati reali, potrebbe essere un’illusione; i dati coscienziali miei non possono essere proprietà sue. Insomma non abbiamo un oggetto trascendente a cui sono attaccati predicati immanenti?
 
A questo problema possiamo rispondere con due considerazioni. In primo luogo i dati coscienziali non possono essere del tutto eterogenei rispetto alle proprietà reali: l’analisi dell’intero ecologico ha mostrato che si deve dare una qualche corrispondenza fra i principi organizzazionali della nostra percezione e quelli del mondo circostante; la coscienza, dunque, risalda alla x predicati che comunque da essa si originino; l’intero ecologico garantisce una qualche adeguatezza al reale dei contenuti coscienti che fungono da predicati.
In secondo luogo, per contestare un presunto dualismo di proprietà, dobbiamo sottolineare che la sintesi non unisce al reale il non-reale, ma unisce al reale presente il modo in cui esso si è differito alla coscienza.
Per meglio comprendere cosa si intenda per differimento facciamo attenzione a un fatto: l’apparire di un percetto, misurato rispetto ad un ipotetico tempo obiettivo, sarà sempre, sia pure di infinitesime frazioni di secondo, successivo rispetto allo stimolo reale: quando la coscienza riferisce i dati di senso, originantisi dalla x trascendente, a questa stessa x, assunta come termine del fare, essa fonde insieme due fasi della durata (quella in cui questa x è la causa dell’affezione e quella successiva in cui è appresa come termine del fare) e annulla il lasso di tempo fra le due, interpretando la traccia mnestica come un darsi attuale.
Ecco quindi che né dal punto di vista della coscienza, né da un punto di vista reale obiettivo c’è dualismo. Dal punto di vista della coscienza il dualismo non c’è, poiché essa come abbiamo detto, non percepisce la distanza temporale fra lo stimolo reale e la sua elaborazione sensoriale e vive come contemporanee due fasi successive del reale. Ma neanche da un punto di vista reale obiettivo c’è dualismo, poiché quello che si dà è la successione di due eventi, l’affezione e la traccia mnestica della coscienza, che è essa stessa un fatto reale.
In che senso però questi rapporti temporali diversi possono ingranare l’uno con l’altro? Perché una durata vissuta come simultaneità delinea un rapporto tale da integrare coscienza e realtà? Non si danno piuttosto un tempo oggettivo (la durata reale) e un tempo soggettivo (la simultaneità coscienziale), che approfondiscono la sua distanza dal soggetto dal reale? No, nel modo più assoluto: per paradossale che possa sembrare è proprio questo “errore” temporale a consentire l’integrazione sistemica coscienza-realtà.
La coscienza è in rapporto col reale nel presente del suo fare e lo è stata nel passato dell’affezione; questo passato, anziché allontanarle il reale, proprio perché vissuto come presente, la rimette in contatto con esso.
 
Al di là di ogni dualismo, trascendenza e immanenza formano dunque un sistema unitario connotato temporalmente. Possiamo ora fornire un riepilogo schematico di quanto emerso:
  • l’oggetto trascendente è realmente dato nel presente dagli atti pragmatici della vita soggettiva;
  • i dati di senso sono l’effetto che esso esercita sulla facoltà percettiva;
  • essi, per via dell’intero ecologico, portano in sé in qualche modo l’organizzazione dell’oggetto reale;
  • essi si originano da un’affezione precedente all’azione: sono perciò la traccia mnestica di un’interazione con lo stesso oggetto reale appena avvenuta;
  • questa traccia mnestica viene vissuta come contemporanea al fare e i predicati percettivi vengono così proiettati sull’oggetto di questo fare[8].
Alla luce di tutto questo immanenza e trascendenza devono essere appresi come astrazioni di questo rapporto di differimento temporale: i dati percettivi saranno immanenti solo se li si considera separatamente dalla loro proiezione sull’oggetto del fare e dall’operazione della coscienza che sutura la loro distanza temporale dall’affezione originaria; analogamente se si astrae da tutto il meccanismo costitutivo e si guarda solo all’oggetto prima dell’affezione, esso risulterà un trascendente del tutto fuori dalla coscienza e hanno senso solo nel riferimento reciproco.
Possiamo quindi senz’altro dire che all’oggetto trascendente vengono attribuiti predicati immanenti, ma questo non è affatto un problema, da una parte perché essi sono ecologicamente innervati nella realtà, dall’altra perché non sussiste alcun dualismo, né dal punto di vista della coscienza, né da un ipotetico punto di vista obiettivo.
Idealismo e realismo sono dunque teorie parziali e inadeguate dell’esperienza, a fronte di un meccanismo costitutivo che ha la forma dell’intero ecologico e del differimento temporale.
 
[1] In questa prospettiva la categoria di assimilazione cognitiva, teorizzata da Piaget, andrebbe approfondita e complessificata: sarebbe un preesistente intero ecologico a rendere possibile l’assimilazione dell’ambiente agli schemi senso motori e cognitivi; cfr. Piaget Biologie et connaissance, Gallimard, Paris 1967; trad. it. Biologia e conoscenza, Einaudi, Torino, 1983; pp. 4-10.
[2] Morin La Méthode 3. La connaissance de la connaissance, Seuil, Paris 1986; trad. it. Il metodo3. La conoscenza della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano 2007; p. 246.
[3] Morin, ivi, 63.
[4] Morin, ivi, 239; ultimi quattro corsivi miei.
[5] Cfr. von Glaserfeld “Einführung in den radikalen Konstruktivismus” in Watzlawick, Die erfundene Wirchlichkeit (a cura di), Piper & Co Verlag, München 1981; trad. it. La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, Feltrinelli, Milano 1988, p. 20.
[6] Cfr. von Foerster, ivi, 52-53.
[7] Von Glaserfeld, ivi p. 21.
[8] Heidegger riporta la sintesi costitutiva dell’oggetto d’esperienza all’immaginazione trascendentale e quest’ultima al tempo: essa in quanto facoltà delle immagini – facultas formandi -, facoltà della riproduzione – facoltas imaginandi e facoltà della preformazione – facultas praevidendi, ha carattere intrinsecamente temporale (cfr. Heidegger 1929, §32). Queste tre dimensioni sono in opera nella sintesi che Kant descrive nella Deduzione Trascendentale delle Categorie: esse, in quanto apprensione, riproduzione e ricognizione corrispondono al presente, al passato e al futuro (cfr. ivi § 33).