1.
Soggetto costituente e spettatore fenomenologico possono essere specchio dell’Esserci autentico e inautentico? Quale filo conduttore lega queste coppie di figure coscienzali in Husserl e Heidegger, in particolare tra Idee I e Essere e tempo? Una occasione di analisi di queste duplicazioni ce la offre un'opera di Rudolf Bernet, La vie du sujet1, la cui tesi, seppur spesso non condivisibile, può rappresentare motivo di riflessione su riduzione fenomenologica, soggetto trascendentale, Dasein ed essere-nel-mondo. Bernet inizia la sua analisi ponendo in risalto la duplicità del soggetto, ciò che egli chiama la douple vie du sujet. «La riduzione fenomenologica è impensabile senza un soggetto capace di accogliere il dato dei fenomeni che questa riduzione fa apparire per la prima volta»2. Da questa prospettiva, assolutamente condivisibile, introduce la suddetta duplicità soggettiva che vede il soggetto nella doppia veste di soggetto costituente il mondo e soggetto «che assiste come spettatore imparziale a questa costituzione»3. Questo doppio si disvela come costituente e osservantesi nell’essere costituente. In questa scissione, assistiamo al primo soggetto che si autodisvela nell’opera che lo accompagna nel e per il mondo, mentre il secondo si autodisvelerebbe, scrive Bernet, in un modo immediato, al di fuori di tutto il riferirsi al mondo, in altre parole, sollevato dall’avere a che fare con esso, dall’essere mediato da esso.
In riferimento a ciò, Bernet introduce un argomento che sarà il leit Motiv del suo saggio: un marcato parallelismo tra questa duplicità del soggetto husserliano e la duplicità del Dasein heideggeriano. Così presenta, nel principio, l’analogia: «Per Heidegger, questa scissione presso il soggetto trascendentale, prende la forma di un doppio modo dell’esistenza del Dasein. Nell’esistenza inautentica, impropre, il Dasein si preoccupa degli affari pratici del suo mondo familiare, e nell’esistenza autentica, propre, è preso dalla ricerca del proprio essere»4. Nella prima figura, quella dell’inautenticità, l’esserci heideggeriano si prende-cura del mondo della cosalità, la sua dimensione dell’essere-a-portata-di-mano degli utensili e la significanza del mondo familiare sono caratteri peculiari e costitutivi della sua figura. Nella seconda figura, contrassegnata dalla autenticità, l’essere-proprio dell’esserci segna la fine della significanza del mondo, ne segna il suo naufragio. «Attraverso questi due momenti della riduzione fenomenologica», scrive Bernet acutamente, «il Dasein appare a se stesso differentemente e come differente: da una parte come implicato nel mondo, dall’altra come esiliato del mondo, exilé du monde»5.
Tuttavia, mentre per Husserl, le due figure soggettive sono contemporanee e implicantisi, per Heidegger, e questo Bernet colpevolmente non lo evidenzia, sono due momenti inconciliabili l’uno con l’altro. Il duplice soggetto husserliano, costitutivo del mondo e osservatore neutrale di questa costituzione, è caratterizzato da una ambigua ma evidente con-presenza delle due figure, l’una necessaria all’altra, almeno per il modello fenomenologico proposto. Nel caso dell’esserci heideggeriano, lo vedremo più avanti, le due figure, inautentica ed autentica, non solo non si danno contemporaneamente, ma l’una è l’annullamento dell’altra, i due esserci non sono mai realmente due, figurativamente: o l’esserci è inautentico o è autentico. L’argomentazione di Bernet si sviluppa sulla linea di Fink che, nella Sesta meditazione cartesiana, sostiene l’irriducibilità costitutiva delle due figure soggettive, irriducibilità mossa e giustificata da una differenza ontologica: mentre tra il soggetto costituente e il mondo costituito vi sarebbe una analogia d’essere, «une analogie d’être»6, tra il soggetto costituente e lo spettatore fenomenologico, spettatore di questa costituzione, vi sarebbe un abisso ontologico, per una opposizione d’essere. Quanto detto legittimerebbe, almeno parzialmente, il modello proposto da Bernet, almeno perché vi sarebbe non complementarità, bensì una sorta di inattingibilità della prima figura alla seconda e della seconda alla prima, sulla base di una irriducibile differenza ontologica alla stregua dell’esserci inautentico e dell’esserci autentico. Tuttavia, ammesso che la duplicità del soggetto husserliano sia attraversata da una irriducibile differenza ontologica, e di ciò si dovrà parlare, e che tra il soggetto costituente e il mondo costituito vi sia una relazione ontologica, comunque, questa è la mia tesi, continua ad esservi uno scarto incolmabile tra la duplicità soggettiva proposta dai due filosofi. Ciò perché, se è vero che «l’agente della riduzione fenomenologica, lo spettatore fenomenologico, è separato dal mondo e si astiene dal prendere parte alla sua costituzione»7, è anche vero che è spettatore mentre il suo doppio quel mondo lo costituisce. Come a dire che il soggetto che compie la riduzione fenomenologica assiste ad una costituzione in fieri, non già data. I due, l’uno, si sono presenti e si necessitano, sia nella direzione dello spettatore verso il costituente, sia di quest’ultimo verso il primo. Per Husserl e Fink, secondo Bernet, vi sarebbero, tra l’essere della coscienza costituente e l’essere del mondo costituito, differenze indifferenti, «sono dunque», così scrive, «differenti, ma non più indifferenti l’uno in rapporto all’altro»8.
2.
Non è mia intenzione, in questo contesto, analizzare la plausibilità della posizione di Fink nella Sesta meditazione, tanto meno verificare se l’indifferenza, o meglio, quella che ho chiamato la “differenza indifferente”, tra soggetto e mondo costituito dipenda, in realtà, dall’impossibilità da parte del primo di uscire da una dimensione di immanenza costitutiva e inalienabile, come emergerebbe da Idee I. Ciò che mi preme sottolineare è, nonostante il suo fascino, la forzatura interpretativa di Bernet nel costringere la duplicità del soggetto husserliano a quella dell’esserci di Heidegger. Interpretazione che, in ogni caso, è costruita su una ipotesi ermeneutica che vedrò di chiarire. Nella Sesta meditazione, Fink scrive che «nell’epochè universale […] lo spettatore fenomenologico produce a sé lui stesso»9. Il compito dello spettatore, sottolinea qui giustamente Bernet, è «trarre fuori dal mondo la coscienza trascendentale per cancellare [biffer] la sua auto-appercezione come soggetto mondano e per rivelare la differenza ontologica entro il pre-essere [Vor-Sein] della coscienza costituente e l’essere del mondo che essa costituisce»10. Qui, il problema si complica e si arricchisce, poiché emergerebbe, per Bernet, proprio quella differenza ontologica, già anticipata, tra lo spettatore fenomenologico e la coscienza costituente: per il primo, infatti, il riconoscimento di sé rimarrebbe in una dimensione di omogeneità, per il secondo, «il riconoscimento di sé implicherebbe una forma di alterità o eterogeneità»11. Ciò perché, continua Bernet, «la coscienza costituente abbisogna dello spettatore per apparire a se stessa, ma lo spettatore fenomenologico non dipende che da se stesso per riflettere sulla sua attività di spettatore»12. La coscienza costituente, assecondando questa ipotesi, non sarebbe capace di elevarsi essa stessa ad auto-appercezione se non vi fosse lo spettatore fenomenologico, in grado, egli sì, attraverso l’epochè trascendentale, di auto-appercepirsi e di permettere, grazie a ciò, anche alla coscienza di auto-appercepirsi non come alterità a se stessa, bensì come omogenea a sé, quasi che, costituendo il mondo, si alienasse dal suo sé non riconoscendolo più in altro e che solo nello spettatore si ritrovasse conciliata con il suo altro, il mondo, costituito. Ma qui, gli echi hegeliani di una distinzione tra la certezza di sé della coscienza e la verità della certezza di sé di una autocoscienza che nell’altro coglie la possibilità di essere in-sé e per-sé potrebbero suonare sinistri e politicamente scorretti…
Il punto di incontro tra il soggetto husserliano e il Dasein di Heidegger risiederebbe nella differenza tra coscienza costituente, che «costituisce, ordina e arricchisce il mondo» e lo spettatore fenomenologico che dispiega «la sua analisi fenomenologica del travaglio ininterrotto della costituzione»13. Quest’ultimo agisce in piena solitudine, laddove le coscienze costituenti si associano naturalmente, collaborano nel fare un mondo a loro comune. Insomma, mentre le coscienze si sporcano con il mondo, lo spettatore ne rimane fuori e, pur tuttavia, legittima quelle coscienze e quello stesso mondo. Quanto scritto emerge dalle stesse Meditazioni cartesiane, la coscienza costituente non è mai sola nel suo compito costituente e «l’essere del mondo costituito è un essere-intersoggettivo-comune»14.
Husserl, d’altra parte, lo scrive esplicitamente in un passo citato dallo stesso Bernet: «l’unità della vita trascendentale è l’identità nella differenza, opposizione che resta uguale a se stessa. Il soggetto trascendentale messo in gioco per la riduzione fenomenologica non è quindi mai unicamente né una coscienza costituente, né uno spettatore fenomenologico». La coscienza abbisogna di uno spettatore, ma ovviamente lo spettatore abbisogna di un osservato costituente il mondo. E così torniamo alla complementarità tra le doppie figure del soggetto husserliano. Infatti «l’identità di questo soggetto è quindi una unità composta», scrive Bernet. Ma allora? Il soggetto husserliano è, a questo punto, presentato in maniera inequivocabile dallo stesso Bernet: il soggetto è una unità composta da coscienza costituente e spettatore fenomenologico. Vediamo se il Dasein incarna un carattere analogo al soggetto di cui sopra.
La coscienza costituente assomiglierebbe molto all’esserci che si prende cura del mondo, colui che ha a che fare con l’essere a portata di mano. In questo senso, così come la riduzione fenomenologica, darebbe accesso alla differenza tra la cosalità mondana e l’essere della coscienza costituente, ma in qualche modo in questa differenza creerebbe una relazione tra la prima e la seconda, così vi sarebbe una intelligibilità relazionale tra l’essere dell’esserci e l’essere a portata di mano degli utensili. Bernet intende tessere un quadro che vede nella costituzione del mondo della coscienza husserliano e nell’aver-cura del Dasein una parentela molto più prossima di ciò che ci si aspetterebbe. «La spazialità del mondo ambiente sembra essere dotata di una struttura concentrica e polarizzata da un Dasein singolare»15, anche se ciò non impedisce che l’esserci abbia una dimensione costitutivamente intersoggettiva, il Mitsein.
3.
Chiave di volta dell’esserci è evidentemente l’angoscia, determinante nella costruzione della presunta affinità tra Husserl ed Heidegger. Bernet, infatti, scandisce la vita dell’esserci in due differenti riduzioni fenomenologiche: la prima «fa apparire il modo dell’essere mondano dell’utensile e il modo d’essere dell’esistenza comunitaria […]. La seconda riduzione fenomenologica, […] si compie nell’angoscia»16. Se nel principio il Dasein è caratterizzato dal suo essere-nel-mondo e dal prendersene cura in una dimensione, oltretutto, intersoggettiva, il Mitsein, appunto, nel secondo momento, quello rappresentato e costituito dall’angoscia, tutto viene realmente ribaltato. È la distanza tra inautenticità ed autenticità che separa le due figure dell’esserci, che apre una irriducibile distinzione, ora sì, ontologica tra esse. «L’angoscia è quindi l’esperienza di una assenza raddoppiata, la rivelazione del nulla radicale che Heidegger chiama il nulla dell’essere-a-portata-di-mano. Nell’angoscia si assiste al naufragio dell’ente intramondano […]. Nell’angoscia il mondo ha il carattere di una totale insignificanza (Unbedeutsamkeit)»17. Questa angoscia, Bernet ricorda Lacan, annulla la possibilità dell’esserci di identificarsi con gli altri, pone l’esserci solo di fronte alla sua ipseità, lo riduce, cioè, a solus ipse. Quel mondo dato, quel con-esserci dato, la cosalità in cui il Dasein si legittimava inautenticamente, perdono tutti irreversibilmente significato. La raggiunta autenticità attraverso l’angoscia dischiude all’esserci l’irrecuperabilità dell’altro, che sembrava, nella prima riduzione, già dato.
Tuttavia, in questa perdita, nota Bernet, «a differenza dello spettatore fenomenologico, nel subire la rivelazione del suo proprio essere nell’angoscia, è ugualmente lontano dall’aver tagliato tutti i ponti con il mondo»18. Perché, per quanto l’esserci si escluda dall’insignificanza del mondo, resta comunque un essere-nel-mondo, in-der-Welt-sein. «L’angoscia», scriveva Heidegger in Sein und Zeit, «rivela nell’esserci l’essere-per il più proprio poter-essere […]. Ma questo essere è in pari tempo quello a cui l’esserci è consegnato in quanto essere-nel-mondo. […] Questo solipsismo esistenziale presuppone così poco una cosa-oggetto isolata nell’indifferente vacuità di una presenza senza mondo, che proprio esso porta l’esserci, nel modo più rigoroso, dinanzi al suo mondo e quindi dinanzi a se stesso come essere-nel-mondo»19. Insomma, l’angoscia immergerebbe autenticamente l’esserci nel mondo e lo aprirebbe alla sua comprensione, che però è di insignificanza; un essere-nel-mondo in un mondo che ha perso ogni valore. «Attraverso l’insignificanza del mondo provata nell’angoscia, si annuncia al contrario per la prima volta il mondo in quanto mondo», cosicché dobbiamo dedurre che il mondo autenticamente considerato è insignificante e che è solo dell’inautentico occuparsene. Nel momento del comprendere il mondo autenticamente quello stesso mondo scompare.
«Quando Heidegger oppone l’esistenza autentica a l’esistenza inautentica, è alla stregua di Fink e Husserl che oppongono - nello stesso soggetto trascendentale - lo spettatore fenomenologico e la coscienza costituente»20, così conclude questa analisi Bernet, ritornando alla posizione iniziale che avevo posto in dubbio. Ci si chiede, cioè, se le quattro figure chiamate in causa abbiano davvero una parentela, e non mi riferisco solo alle due coppie ma anche alle singole figure delle due coppie. Mi spiego meglio, Bernet stesso mostrava come spettatore e agente si fossero complementari e quindi con-presenti, siamo sicuri che nella coppia di esserci inautentico-autentico risieda la possibilità della con-presenza? Laddove l’uno esclude l’altro, dove l’autenticità dischiuderebbe non solo l’inautenticità dell’altro, ma anche la sua dannosità insignificante, la sua resa al «Si». Perché è vero che «l’essere dell’esserci è la sua esistenza, e […] l’esserci esiste cooriginariamente in un modo autentico ed inautentico»21, ma questa cooriginarietà si deve intendere come possibilità duplice di essere sé o di non essere sé dell’esserci. L’inautenticità appare come non essere sé dell’esserci, Heidegger lo scrive chiaramente: «L’inautenticità significa così poco qualcosa come un non-essere-più-nel-mondo che essa indica, al contrario, un modo preciso di essere-nel-mondo […]. Il non-esser-se-stesso costituisce una possibilità positiva dell’ente immedesimato nel mondo […]. Questo non-essere deve essere inteso come il modo più prossimo dell’esserci»22. E allora, se questo non-essere è il modo più prossimo dell’esserci, comunque, il modo autentico e non prossimo è altro e antitetico. Autenticità e inautenticità non si rincorrono, poiché data l’una non vi è mai l’altra.
4.
«L’apparire dell’essere autentico dell’esserci», scrive Bernet, «è inseparabile dal recupero attraverso l’essere inautentico. La non-verità è parte integrante del modo in cui la verità dell’essere dell’esserci appare».23 Da qui la cooriginarietà di autentico ed inautentico, sono modi dell’essere, propri ed impropri. Ma in questa disputa autentico-inautentico la verità si fa presenza solo nell’assenza della non-verità, i due poli sono inconciliabili e non si approssimano, non potrebbero, alla relazione che invece intercorre tra spettatore fenomenologico e coscienza costituente, come, lo si notava, lo stesso Bernet aveva presentato. È utile alla contesa ricordare le sue parole: il soggetto trascendentale «non è né una semplice coscienza costituente, né un semplice spettatore fenomenologico», esso «è necessariamente l’uno e l’altro»24. L’esserci heideggeriano non è mai l’uno e l’altro, esso pone l’aut-aut, è necessariamente o inautentico o autentico.
Un ruolo chiave nell’argomentazione di Bernet lo gioca la relazione tra l’annientamento del mondo husserliano e l’angoscia di Essere e Tempo. Il primo richiamo è all’annientamento del mondo, che Husserl in Idee I così presenta: «L’essenza della coscienza, di ogni corrente di vissuti in generale, verrebbe sì necessariamente modificata da un annientamento del mondo delle cose, ma non ne sarebbe toccata nella sua propria esistenza», e ancora, «Dunque nessun essere reale […] è necessario all’essere della coscienza stessa. L’essere immanente è dunque indubitabilmente un essere assoluto nel senso che per principio nulla re indiget ad existendum»25. Heidegger, scrive Bernet, contesta, in primo luogo, che l’intenzionalità sia un’attività che risieda nella sfera dell’immanenza del soggetto in quanto «ratio cognoscendi della trascendenza». L’intenzionalità, cioè, è la protensione, e per questo via di fuga, verso l’alter, annuncia la possibilità costitutiva del soggetto di essere aperto alla trascendenza del mondo, della cosalità. Per questo la riduzione fenomenologica, come annullamento del mondo, «è una operazione di separazione, diametralmente opposta all’essere dell’intenzionalità. La riduzione fenomenologica di Idee I separa l’uomo e la sua coscienza», continua Bernet, «l’intentio immanente e l’intentum trascendente, l’ente costituente e l’ente costituito, la coscienza assoluta e il mondo»26. La riduzione fenomenologica separa ciò che l’intenzionalità unisce, in questo quadro heideggeriano, cosicché il soggetto husserliano è una «unità sovratemporale», il Dasein, al contrario, è sempre unità «disseminata» nel mondo, «l’essere-nel-mondo dell’esserci è una intenzionalità senza riserve, vale a dire trascendente»27. Ma quanto detto che implicazioni ha sulla doppia vita del soggetto, laddove la coscienza costituente è primariamente intenzionale e lo spettatore fenomenologico attua la riduzione? Rappresenterebbero due figure tragicamente separate nel gioco trascendenza-immanenza, poiché vedrebbero (ma sarebbero davvero capaci di vederlo?) una irriducibilità che violerebbe irreversibilmente il loro telos e la loro complementarità, assumendo connotati grotteschi. Ma tornando brevemente a Idee I e ripercorrendo quanto scritto da Husserl, «la coscienza […] deve essere considerata una connessione d’essere chiusa in se stessa, una connessione di assoluto essere, in cui niente può penetrare e da cui niente può sfuggire»28.
Proprio per questo, scrive Bernet, la dinamica coscienza-mondo si risolve con una asimmetria tutta dalla parte della prima, poiché la riduzione come annientamento del mondo relega l’esse a un percepi. Così «l’essere del soggetto è di una dignità superiore a l’essere del mondo, poiché sopravvive alla negazione del mondo, allorché il mondo non può sussistere indipendentemente dalla vita del soggetto»29. La riduzione fenomenologica relega il mondo al ruolo di assoggettato, colonizzato dal soggetto costituente.
Continua Bernet, «l’ipotesi di annullamento del mondo è quindi contraria al senso dell’intenzionalità che […] porta il soggetto a interessarsi alle cose del mondo. […] L’ipotesi dell’annullamento del mondo non risponde quindi in nulla al programma della riduzione fenomenologica: essa non fa apparire né il fenomeno del mondo, né l’essere trascendentale del soggetto, né la correlazione o la co-appartenenza tra soggetto e mondo»30. Si viene, cioè, a creare un dualismo, sostiene Bernet, di tipo cartesiano tra l’essere della coscienza immanente, di cui non si può dubitare e l’essere del mondo, dubitabile. Cosicché, la dimensione del solus ipse si risolve in una immanenza irreversibile, laddove l’intenzionalità da ponte verso la trascendenza della cosalità si ripiega sulla coscienza «chiusa in se stessa». Ciò, tuttavia, se si intende l’intenzionalità rivolta verso un mondo reale e raggiungibile… Perché se la considerassimo come essa stessa tutta rivolta all’immanenza della coscienza in ciò che in Idee I Husserl descrive così, «per legge essenziale l’esistenza delle cose non è mai richiesta come necessaria dalla datità, ma sempre in certo modo come contingente»31, allora considereremmo l’intenzionalità come ponte tra riduzione e costituzione trascendentali, entrambe, tuttavia, nell’immanenza coscienziale. Ancora, nella Crisi delle scienze europee, Husserl scrive «soltanto l’epochè universale rivela, quale campo tematico, ciò che la vita egologica propriamente è: una vita intenzionale che, nella sua intenzionalità, subisce le affezioni di quegli oggetti intenzionali che valgono e appaiono in essa, che si dirige, in molteplici modi, su di essi, che si occupa di essi. Tutti i “di-che-cosa” di queste occupazioni rientrano a loro volta nella pura immanenza e devono essere colti per via descrittiva nei loro modi puramente soggettivi, nelle loro implicazioni, con tutte quelle mediatezze intenzionali che vi sono incluse»32. Se, quindi, la presunta contraddittorietà tra epochè ed immanenza non vi fosse? Certo, la sfera della intersoggettività rischierebbe di venire compromessa, ma questo è un problema che non può essere affrontato in questa sede.
5.
Torniamo, invece, al problema dell’angoscia, interpretato da Bernet come richiamo esplicito, su un piano teoretico, alla riduzione fenomenologica. «L’angoscia che descrive Heidegger compie quindi una sorta di riduzione fenomenologica o, che è lo stesso, un annullamento del mondo»33. La riduzione fenomenologica toglie valore al mondo come non necessario alla coscienza, in quanto «nessun essere reale […] è necessario all’essere della coscienza stessa»34, che vive immanentemente i propri vissuti e la sua dimensione costitutiva. La trascendenza, attraverso l’annullamento del mondo diviene, usando un termine husserliano, «contingente». In un modo analogo l’angoscia, che rappresenta l’apertura all’essere autentico per il Dasein, libera l’esserci dal mondo, lo priva di questo. Ciò in quanto l’angoscia riduce il mondo a in-significante, appunto contingente. L’esserci inautentico è immerso nel mondo del prendersi-cura della cosalità, nella morsa del «si», nella incomprensione del suo essere più autentico: essere possibilità. Ma questo essere possibilità, per Heidegger, è l’essere-per-la-morte, che rappresenta la possibilità per eccellenza dell’autenticità, ossia la possibilità dell’impossibilità. «Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata», scrive Heidegger in Essere e tempo, «è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile»35. L’essere-per-la-morte rappresenta la possibilità dell’impossibilità poiché è scelto dall’esserci come possibilità più propria. L’esserci sceglie, mosso dall’angoscia, la via dell’autenticità, cosicché questa possibilità diviene l’inizio dell’impossibilità. Scrive Heidegger: «La morte è una possibilità di essere che l’esserci stesso deve sempre assumersi»36 e che questo esserci stesso può anche non percorrere. L’esserci, così, sprofonda nell’impossibilità da una possibilità, anzi dalla possibilità più propria: l’esserci in essa non ha più nulla da realizzare, «essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni comportamento verso… ogni esistere»37. Il prendersi-cura del mondo perde valore, il Mitsein si destruttura, il solus ipse, cioè l’esserci, vede di fronte a sé la ricchezza delle possibilità, tuttavia inautentiche, risolte in una e irreversibile.
Bernet, però, interpreta in questa possibilità dell’essere-per-la-morte una distinzione con la riduzione fenomenologica di Husserl, laddove, stavolta, mi sembra, vi sia una plausibile convergenza. «Per Husserl, la manifestazione del mondo dipende da una decisione soggettiva. Il considerare il mondo come tale è quindi una assunzione che fa appello alla volontà e alla responsabilità del soggetto. In Sein und Zeit, invece, la rivelazione del mondo abbisogna di un soggetto che esiste nel modo dell’autenticità, ma questa autenticità non è più una assunzione volontaria o uno sforzo deliberato»38. Bernet si avvicina in questa interpretazione alla posizione di Jean Wahl, che vedeva nell’essere-per-la-morte «l’impossibilità della possibilità», ossia l’ineluttabile esito dell’esserci, limitando, a mio avviso, la complessità della posizione heideggeriana. Definire l’essere-per-la-morte come «impossibilità della possibilità», piuttosto che «possibilità dell’impossibilità» non è un cavillo sofistico, bensì un ribaltamento della prospettiva heideggeriana. Nel primo caso, infatti, l’esserci non sarebbe chiamato ad una assunzione di scelta, nel secondo, l’esserci compie la scelta più propria. Levinas, in Il tempo e l’altro, acutamente scrive: «L’essere-per-la-morte, nell’esistenza autentica di Heidegger, è una lucidità suprema […]. È l’assunzione dell’ultima possibilità del Dasein, che rende di conseguenza possibili tutte le altre possibilità, che rende di conseguenza possibile il fatto stesso di cogliere una possibilità, cioè l’attività e la libertà»39. Anche in Sein un Zeit, così come nella fenomenologia husserliana, se ammettiamo, come Bernet ipotizzava, l’affinità tra angoscia e annullamento del mondo, vi è un atto volontario, per Heidegger il più volontario e il più proprio di tutti. La scelta costituisce l’esserci nella sua peculiarità più propria e caratterizzante, poiché l’impossibilità si dischiude dall’essere possibili, dal poter essere liberi di impossibilitarsi tutto ciò che seguirà. La crudezza dell’essere-per-la-morte risiede nell’assumersi come senza futuro, senza progetto alcuno, all’interno di una dimensione che è il vero progetto che, tuttavia, tutto cancella, tutto rende contingente. Ma ciò è una possibilità che implica le impossibilità, è una possibilità che scioglie il mondo dal vincolo del prendersene-cura. Il solus ipse è nel mondo, come esserci libero, e il tributo alla sua libertà è il ritrovarsi senza via di fuga. C’è una sola possibilità possibile autenticamente nel disegno di Essere e tempo: la possibilità di scoprirsi, e di scegliersi, privi di possibilità. Ma questa tragica piramide poggia sulla scelta tra autentico ed inautentico, l’angoscia apre l’esserci alla scelta, lo costringe ad una scelta, ma l’aut-aut è aperto, non determinato. Persino il non scegliere si risolve in una scelta, ineluttabilmente inautentica in quanto schiacciata nel «Si». L’angoscia, per Heidegger, è la chiave tragica della libertà di poter non potere altro se non essere-per-la-morte. «La morte non appartiene indifferentemente all’insieme degli esserci, ma pretende l’esserci nel suo isolamento. L’incondizionatezza della morte, qual è compresa nell’anticipazione, isola l’esserci in se stesso. Questo isolamento è un modo in cui il Ci si rivela all’esistenza. Esso rende chiaro che ogni esser-presso ciò di cui ci si prende cura e ogni con-essere con gli altri fallisce quando ne va del nostro più proprio poter-essere. L’esserci può essere autenticamente se stesso solo se si rende da se stesso possibile per ciò»40. Il Dasein è nella possibilità di rendersi impossibile, è il progetto autentico del non-progetto, è un progettarsi come improgettabile e tutto ciò è heideggerianamente libertà.
In questi termini, allora, l’annullamento del mondo e l’angoscia convergono verso la contingenza del mondo, il suo perdere significato a favore di un solus ipse che nel perdere il mondo ritrova sé. E in entrambe le «riduzioni» l’io-esserci si costituisce nell’arbitrio dell’in-significare il suo intorno. Pur tuttavia, nella sua conclusione, Bernet tenta di disinnescare la deriva solipsistica di Idee I, presentando uno Husserl che, nonostante conceda alla attività del soggetto una componente di passività nell’esperienza subita, mai si libererà dell’idea che la vita del soggetto sia caratterizzata da sollecitazioni affettive, sollicitations affectives. La vita trascendentale della coscienza comporta «un prendere posizione, la sua intenzionalità è comunque, per dirla come in Idee I, di essenza dossica». Il soggetto delle molteplici impressioni e associazioni è la «sorgente attiva delle molteplici prese di posizioni intenzionali»41. Husserl propone, secondo Bernet, un modello fenomenologico che, se non può fare a meno «di una intenzionalità senza soggetto», può piuttosto spostarsi su una ipotesi di «intenzionalità senza oggetto». L’intenzionalità così proposta si presenterebbe, quindi, «come una manifestazione originaria della vita stessa del soggetto, cioè della sua esistenza carnale e temporale»42. La vita soggettiva appare a Bernet scandita da una doppia intenzionalità, laddove per Husserl essere soggetto vorrebbe dire essere diviso in una doppia intenzionalità e in una doppia affezione. Questa doppia intenzionalità consentirebbe al soggetto husserliano di cogliersi come se trascendesse verso le cose e, in questo suo trascendere, ponesse la differenza tra sé e il mondo. Come presentato all’inizio del saggio in cui la doppia vita del soggetto si presentava come coscienza costituente e spettatore fenomenologico, ora, questa stessa divisione, consente alla coscienza di «mettere a distanza» la propria esistenza, così da permettersi una apertura decisiva al mondo e all’altro. L’annullamento del mondo che apriva, o poteva aprire, la fenomenologia a un idealismo solipsistico che emergeva in Idee I, in questo modo, sostiene Bernet, verrebbe superato, attraverso una soluzione in cui «il rapporto del soggetto con la sua stessa vita è quindi una figura supplementare di questa “trascendenza nell’immanenza” che sembra ben essere la chiave della teoria husserliana dell’intenzionalità»43. Così dicendo, però, Bernet restituisce all’intenzionalità una dimensione di apertura immanente all’alterità, che rimane uno dei problemi della fenomenologia. Il suo tentativo di evidenziare una indipendenza intenzionale persino dal soggetto, per sua stessa ammissione, viene meno e, in questa ottica, la prospettiva di «una intenzionalità senza oggetto» sembra restituirci la posizione dello Husserl di Idee I che scriveva: «la natura è possibile solo come una unità intenzionale, motivata da nessi immanenti alla coscienza pura»44, oppure anche «la realtà, tanto quella delle cose singolarmente prese, quanto quella del mondo intero, manca per essenza di indipendenza»45. In Coscience et existence46 Bernet così scrive: «L’idea di un conflitto che conduca ad un annullamento di tutta la realtà effettiva, vale a dire un annullamento del mondo (Weltvernichtung), è una ipotesi problematica. Senza essere una impossibilità ideale, essa non è mai una possibilità reale nel senso definito da Husserl. […] Se il gioco di questo idealismo è di mostrare come la realtà effettiva del mondo dipenda fenomenologicamente dalla realtà effettiva della coscienza, […] allora l’annullamento del mondo equivale ugualmente a un annullamento di tutta la coscienza che si rapporta a questo mondo»47. Ciò, però, nell’ipotesi di una dipendenza di questa stessa coscienza dal mondo conosciuto e costituito. Bernet vuole evidenziare come l’idealismo fenomenologico dello Husserl di Idee I, porti alla contraddittorietà di una posizione che, nell’interdipendenza tra soggetto e mondo, veda il primo annullare il secondo, e conseguentemente il primo annullarsi in questo stesso annullamento, ma qui viene dimenticata l’indipendenza dello spettatore fenomenologico e la sua autonomia ontologica, che lo stesso Bernet ci presentava in La vie du sujet. In questo senso, scrive, «le Idee I hanno avuto il grande torto di suggerire che questo idealismo, andava di pari passo con una concezione solipsista della soggettività trascendentale»48. Tanto più questa chiave solipsistica di Idee I è problematica, tanto più in un’opera pressoché contemporanea, la Sesta ricerca logica, Husserl, continua Bernet, presentava altro, ossia l’affermazione che la costituzione fenomenologica della realtà non può che passare necessariamente dall’intersoggettività, «una verità trascendente ha la sua oggettività necessariamente nell’intersoggettività», scrive, appunto, Husserl. In fondo, il filosofo tedesco, anche in Idee I aveva scritto qualcosa di analogo: «Questa costituzione [della cosa reale] si riferisce però innanzitutto a una per essenza possibile coscienza individuale, in seguito anche a una possibile coscienza collettiva, cioè a una per essenza possibile pluralità di coscienze che una cosa viene data e identificata intersoggettivamente come la medesima cosa oggettivamente reale»49.
L’interpretazione in chiave solipsistica di Idee I data da Bernet è certamente condivisibile e, pur non ritenendo che Husserl si liberi da questa gabbia, nonostante i ripetuti tentativi, si può anche riconoscere, come sostiene Bernet, che la ricerca husserliana di una via che conduca alla verità trascendente e alla sua oggettività possa essere il filo conduttore delle sue analisi. L’intersoggettività come chiave di volta è, in questo senso, il suo approdo e, pur tuttavia, il suo possibile naufragio, se, come credo, la soluzione comunitaria egologica abbisognerebbe di una via privilegiata che conducesse alla trascendenza dell’alterità e non al darsi immanente dell’alter.
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