Gabriele Miniagio | Dialettica e ontologia della differenza: la “ginnastica filosofica” del Parmenide.

L'Uno e i molti, Parte seconda. 
 
1. Statuto ontico e statuto concettuale dell’idea.
Il saggio precedente, utilizzando come filo conduttore il problema della predicazione1, si è concentrato sulla prima parte del Parmenide. È emerso che le obiezioni, avanzate dal maestro eleate, derivavano da un fraintendimento che consisteva nell’interpretare le idee in senso materiale e spaziale, come cioè se fossero delle macro cose, che, nell’esser partecipate, perderebbero la propria unità, frammentandosi in un molteplice di oggetti.
Questo fraintendimento nasce dalla mancata considerazione della differenza ontologica fra idea e cosa: la presunta aporia sollevata dal personaggio Parmenide non considerava che l’idea ha, oltre allo statuto di ente reale che c’è, lo statuto di concetto, in cui si esprime un che cos’è, un’essenza. Lo statuto concettuale retroagisce sullo statuto ontico e determina l’essere dell’idea secondo una modalità irriducibile a quella della cosa spaziale; questo essere la rende capace al tempo stesso di esistere in sé e di operare in altro, separatamente (chorìs) e nella partecipazione (metexis), nell’unità e nella molteplicità. Ma in che modo tutto questo avviene? Come può la partecipazione non lacerare l’unità? In che modo l’essere dell’idea, proprio per la sua diversità dall’essere delle cose, può garantire ciò? Non è un paradosso che la partecipazione sia resa possibile proprio dalla differenza ontologica fra idee e cose?
Per rispondere a queste domande occorre considerare che il concetto è un’essenza, un’unità d’informazione si direbbe oggi, che si può considerare in sé, isolatamente e nella sua purezza, ma anche un possibile criterio classificatorio per ritrovare nelle cose certe proprietà e ordinarle secondo classi e insiemi; le proprietà cosali vengono così considerate occorrenze, fra loro intercambiabili, di quell’unità concettuale: la proprietà che ha questo poligono, disegnato sul foglio, di avere tre lati è un’occorrenza di quella triangolarità che si dà al mio pensiero in generale. In termini moderni insomma la partecipazione non è altro che la possibilità di individuare, a partire da un’intensione concettuale, una proprietà singolarizzata e un dominio di oggetti che la esibiscono. È dunque la doppia operatività del concetto, unità d’informazione (Sinn) e criterio di classificazione di oggetti d’esperienza denotati (Bedeutung), a rendere l’idea capace di sussistere separatamente e di essere partecipabile. Ora, in Platone questo non è solo un problema logico o gnoseologico (“in che modo il soggetto conoscente passa dall’unità del concetto pensato alle proprietà cosali singolarizzate?”), come potrebbe essere per Kant o per Husserl, ma un problema ontologico: se l’essere dell’idea è determinato dal concetto e se il concetto opera contemporaneamente come unità intensionale e come campo analogico (invarianza iscritta in un dominio di oggetti), all’essere dell’idea appartiene strutturalmente una doppia collocazione, in sé e in altro, separatamente e nel mondo delle cose.
È dunque proprio per la differenza ontologica fra idee e cose, dovuta alla duplice operatività del concetto, che l’obiezione di Parmenide alla partecipazione non è pertinente: essa sussisterebbe solo se l’essere dell’idea fosse spaziale anziché concettuale. Le obiezioni di Parmenide si mantengono invece in una nozione inelaborata e univoca di essere, totalmente spazializzata. La metafora della presenza delle idee alle cose come il giorno a tutto ciò che esso abbraccia, usata nel dialogo dal personaggio Socrate come risposta al “maestro venerando e terribile”, sembra allora fare riferimento proprio a questo salto ontologico che l’iscrizione nell’idea di un livello concettuale esige: il concetto illumina una realtà fatta di cose singolari perché ne mette in evidenza le somiglianze, ma può essere considerato in sé; le idee sono così una specie di mappa del mondo, una mappa che, beninteso, è essa stessa territorio, come nel famoso racconto di Borges2.
Se questo è vero, il Parmenide non sarebbe un’autocritica di Platone, ma una denuncia della possibile equivocazione eleatica della dottrina delle idee; le aporie che in esso si mostrano vanno quindi lette nel senso etimologico della parola: di qui non si passa, non è questa la strada che conduce verso le idee!
Ecco dunque schematicamente come si presenta l’essere dell’idea:
1. Statuto ontico: ente che c’è.
2. Statuto concettuale: essenza. Doppia operatività
2.1. Unità intensionale.
2.2. Invarianza di un campo di oggetti.
È interessante notare, a questo proposito, che il pensiero moderno, da un punto di vista rigorosamente platonico, compie l’errore opposto rispetto a quello di Parmenide, svincolando 2 da 1, autonomizzando il concetto dalla condizione di ente che c’è, per dargli una “esistenza” soltanto mentale. Il concettualismo che di solito si attribuisce ad Abelardo nella disputa sugli universali, l’empirismo di Locke, il trascendentalismo di Husserl non escono da questa prospettiva. L’idea platonica, perciò, non dissociando mai lo statuto concettuale dallo statuto ontico, non può essere soltanto una realtà pensata dalla mente, interna ad essa e costruita per astrazione (Abelardo)3. A maggior ragione non può essere un dato sensoriale reale, un’immagine psichica (Locke). Ma essa non può essere paragonata neanche al noema di Husserl, che, pur non essendo né un contenuto reale, psichico, immanente, sensoriale, né un concetto intramentale, pur essendo cioè trascendente all’atto noetico, è comunque nient’altro che un suo correlato4, costituito da un ego puro a partire dagli strati passivi e ricettivi dell’esperienza, come mostra la fenomenologia genetica.
Ecco allora che nessuna di queste posizioni può aiutarci a capire che cos’è l’idea platonica. Come si è visto, nella storia della filosofia moderna e contemporanea ciò che di più vicino vi è ad essa sembra il Sinn di Frege, nel quale ritroviamo il doppio statuto dell’idea: esso è un ente che c’è indipendentemente dalla mente e al tempo stesso veicola una determinata connotazione intelligibile; nella semantica fregeana, infatti, accanto al segno e all’oggetto denotato (Bedeutung), vi sono i Sinne, i quali costituiscono un terzo regno di realtà ideali che oggettivamente sono e che non si identificano con le immagini psichiche, con qualcosa che sia “dentro” la mente o comunque da essa costituito.
Per le obiezioni alla nozione di imitazione il discorso è lo stesso. Come si è visto, il problema era questo: le cose imitano le idee, sono simili ad esse; ma due cose sono simili fra loro perché simili alle idee; perciò se ogni similitudine richiede il ricorso ad un’idea, anche la similitudine di una cosa ad un’idea ne richiede una ulteriore e così via. Ora, l’argomento si può disinnescare in questo modo: le cose hanno un’essenza che le rende simili, mentre l’idea è quell’essenza; essa non è uno dei simili da assemblare, ma è il criterio stesso della similitudine. Siano f ed f’ le cose; sia Φ l’idea; sia F una certa proprietà; dire “f è F” significa dire che f ha una certa proprietà che lo iscrive in un insieme (giudizio predicativo); dire invece che è Φ è F significa dire che esso è, si identifica con quella proprietà, la F-ità, la quale ne esprime il contenuto connotativo (giudizio d’identità). Ecco allora perché il regresso all’infinito non s’innesca: f ed f’ sono simili perché inclusi nell’insieme delle cose che hanno la proprietà F, mentre l’idea Φ è identica a quella proprietà, che non ha dunque bisogno di essere supportata da un’altra idea5. Il doppio statuto, ontico e concettuale, dell’idea sembra quindi risolvere i problemi della partecipazione e dell’imitazione.
Si può dire altrettanto della seconda parte del dialogo, della gymnasía intorno all’Uno e al molteplice? Sarà esattamente di questo che ci occuperemo nel presente saggio.
 
2. La ginnastica filosofica come élenchos.
Nella seconda parte del Parmenide il maestro eleate, dopo aver avanzato le obiezioni sopra riportate contro la partecipazione e l’imitazione, esorta ad una ginnastica intorno al rapporto fra Uno e molteplice. Come interlocutore viene scelto un giovane di nome Aristotele. L’esercizio consiste nell’assumere dapprima l’ipotesi che l’Uno è, poi l’ipotesi che l’Uno non è, traendone le conseguenze secondo lo schema seguente.
I. Se l’Uno è
I. I Conseguenze per l’Uno rispetto a sé stesso
I.II Conseguenze per l’Uno rispetto agli altri
I.III Conseguenze per gli altri rispetto all’Uno.
I.IV Conseguenze per gli altri rispetto a sé stessi
II. Se l’Uno non è
II. I Conseguenze per l’Uno rispetto a sé stesso
II.II Conseguenze per l’Uno rispetto agli altri
II.III Conseguenze per gli altri rispetto all’Uno.
II.IV Conseguenze per gli altri rispetto a sé stessi
Qual è il senso di queste serrate otto serie deduttive? Nella ginnastica filosofica non sembrano esserci conclusioni positive: ciascuna delle otto serie termina in modo aporetico o perché arriva ad un’entità priva di determinazioni e inconoscibile (l’Uno in sé e gli altri dall’Uno in sé) o perché arriva a determinazioni contraddittorie.
A mio modo di vedere, che cercherò di giustificare qui di seguito, il senso della gymnasía sembra proprio questo: sottolineare lo scacco a cui va incontro un pensiero adialettico, come quello di Parmenide, un pensiero che non assume il modo di essere del tutto particolare del concetto, la sua natura informazionale e non materiale, che gli rende possibile essere uno e operare nel molteplice.
Ora, di questa sezione del dialogo sono state date molteplici interpretazioni; proviamo ad elencarle su un piano – per così dire – orizzontale, senza riguardo alle differenti epoche storiche. C’è chi ritiene che il Parmenide (e in particolare la gymnasía) sia un divertissement filosofico volto a ridicolizzare gli eleati (Taylor6, Calogero7) o comunque una confutazione delle loro pretese (Cherniss8); c’è chi crede invece che in alcune serie deduttive vi sia un risultato positivo, pienamente platonico, da distinguere dal risultato negativo di altre serie, ascrivibile a Parmenide (Berti9); c’è chi addirittura dice che nella gymnasia si celi il nucleo profondo del pensiero platonico (i neoplatonici10); c’è chi sostiene che mostri alcuni elementi delle cosiddette dottrine non scritte (la scuola di Tubinga); infine chi è del parere che si tratti di ginnastica in senso stretto e niente più, ossia di un esercizio preliminare alla dialettica vera e propria (Ferrari). Siamo di fronte ad un vero e proprio labirinto di interpretazioni in cui sembra impossibile districarsi11.
Prima di prendere posizione, proviamo a vedere su quali punti vi è divergenza.
1. Vi è qualche serie che sia una dottrina in positivo dell’Uno o tutte le serie mostrano delle aporie?
2. La diversità delle conclusioni a cui arrivano le serie deduttive (p. es. I.I deduce che l’Uno non ha predicati, mentre la I.II che ha predicati contraddittori) deriva dal fatto che parlano di condizioni ontologiche diverse (l’Uno per sé e l’Uno nei molti) o deriva dal metodo seguito dal personaggio Parmenide?
3. Le varie serie deduttive sono alternative o compatibili fra loro? Una è filosoficamente fondata e l’altra no oppure sono vere su livelli, ontologici o metodologici, distinti? Insomma il loro rapporto è V/F o V/V?
La questione chiave mi sembra la prima. La posizione che sosterrò è che ciascuna delle serie è aporetica (1); di conseguenza le varie serie non sono né alternative (V/F) né compatibili (V/V), ma tutte votate allo scacco (F/F) (3); infine la loro diversità deriva dal metodo dell’analisi (2).
Analizziamo quindi la posizione di coloro che sostengono che la gymnasía abbia un risultato positivo, per esempio l’interpretazione neoplatonica. Essa le considera pienamente compatibili fra loro (3) e giustifica la differenza delle serie con la differenza di condizioni ontologiche dell’Uno, prima nel suo divino e ineffabile essere in sé, poi nel suo esser-altro (2). Ne verrebbe una dottrina a tutti gli effetti (1).
In modo diverso, Berti12 pensa che la prima e la seconda serie si escludano a vicenda (3) e che questo derivi dal metodo d’analisi (2); inoltre egli indica un risultato positivo (1): mentre la prima serie farebbe riferimento ad una prospettiva isolazionista e parmenidea, che verrebbe confutata, la seconda, in modo pienamente fondato e conforme al pensiero di Platone, assumerebbe la partecipazione dell’Uno nei molti; il rapporto fra la prima e la seconda serie sarebbe quindi F/V. Meinwald13, dal canto suo, come Berti, pensa che la differenza derivi dal metodo (2) e che il risultato sia positivo (1), ma che le due serie siano perfettamente compatibili (3).
Ora, a mio modo di vedere che la serie I.I sia aporetica è sufficientemente mostrato dal testo:
[L’Uno] non può avere né nome né definizione e non può essere oggetto di conoscenza, sensazione e opinione. – Pare di no. – Non può perciò venir nominato, definito, opinato e conosciuto e nessuna delle cose che sono ha sensazione di esso. – Sembra di no. – ma è possibile che riguardo all’Uno le cose stiano in questi termini? – A me sembra di no.14
L’assenza di connotazioni e l’inconoscibilità, non vanno dunque nella direzione di una divina ineffabilità, bensì in quella di un fallimento argomentativo. Particolarmente rilevante è l’impossibilità di attribuire all’Uno persino l’essere.
Quanto alla serie I.II neanch’essa può essere considerata come avente un risultato positivo: essa non si limita a contraddire la I.I, ma è in se stessa contraddittoria, poiché attribuisce all’Uno coppie di predicati incompatibili (è finito e infinito, in sé e in altro, identico e diverso, simile e dissimile, è e non è in contatto con sé e gli altri, è uguale e diseguale, partecipa e non partecipa del tempo). Che questa contraddittorietà non sia un risultato positivo emerge se si focalizza un problema: come può Platone attribuire a Parmenide la tesi secondo cui l’Uno è nei molti e supporta condizioni fra loro contraddittorie? Insomma come può far dire a Parmenide che l’essere è molteplice e contraddittorio ossia l’esatto contrario della sua dottrina senza che ci sia una spia testuale di questo rovesciamento? È molto più facile pensare che qui Platone imiti il metodo zenoniano della riduzione all’assurdo, assumendo la tesi dell’Uno nei molti per farne scaturire la contraddittorietà15.
Qual è allora il risultato della gymnasía? Dal punto di vista di Parmenide esso consisterebbe in un fallimento argomentativo tanto della tesi “l’Uno è” (I), tanto della tesi “l’Uno è nei molti” (II), mentre per Platone il fallimento sarebbe di quel punto di vista e di ciò che esso non considera, ossia il carattere ontologicamente diverso delle idee, informazionale e non connotabile in senso materiale e mereologico.
Per le altre la sostanza non cambia; tutte sembrano avere un risultato negativo: dati due predicati opposti da attribuire all’Uno, o la serie deduttiva arriva all’impossibilità di attribuirne almeno uno dei due o essa arriva ad attribuirli contraddittoriamente entrambi.
L’esito della gymnasía è quindi questo:
- serie impredicative, che portano al risultato: né A né non-A,
- serie omnipredicative, che portano al risultato: A e non-A.
Ecco ora schematicamente i risultati della prima serie impredicativa16. L’Uno
- non ha parti e non è in nessun luogo (1-5).
- non è né in quiete né in movimento (6-7).
- non è né identico né diverso, né simile né dissimile (8-9) .
- non è uguale o disuguale, maggiore o minore né rispetto a sé né rispetto ad altro (10)
- non è nel tempo (11).
Dunque l’Uno non è e non è uno.
Vediamo ora il risultato della serie omnipredicativa17. L’Uno
- è costituito di un numero di parti limitate e illimitate;
- è in sé e in altro;
- è in movimento e immobile;
- è identico e diverso a sé e agli altri;
- è uguale e disuguale a sé e agli altri;
- è nel tempo e non è nel tempo.
Entrambi i risultati sono assurdi; essi sono, per così dire, il grado zero del pensiero: da una parte l’indeterminazione, dall’altra la contraddizione.
I presupposti eleatici portano dunque o ad un Uno in sé che è impensabile o ad un uno-nei-molti che è contraddittorio. Queste aporie servono dunque a cambiar strada. Ma perché siamo arrivati a tale risultato? È questo il punto teoreticamente rilevante. Se ci fosse evidente la ragione, la gymnasía non potrebbe forse preparare la strada ad un risultato positivo? Qual è la strada da imboccare per giustificare gli enunciati “l’Uno è” e “l’Uno è nei molti”?
 
3. I problemi di una concezione adialettica dell’essere
Proviamo ad azzardare un’ipotesi riprendendo il Sofista. Lì emerge chiaramente che il genere del Movimento, partecipando del Diverso, è diverso da tutti gli altri generi, compreso l’Essere; perciò esso non è (cioè non è l’essere in sé considerato: muoversi non significa esistere); ciononostante di esso si deve dire che è, perché all’essere partecipa (ciò che si muove deve esistere); inoltre, partecipando dell’Identico, esso è identico a sé stesso18. La stessa cosa avviene a qualunque altro genere o idea: i rapporti di partecipazione non fanno perdere né la sua diversità da ciò di cui si partecipa né l’identità con sé; d’altra parte, né la diversità da ciò di cui partecipa né l’identità con sé compromettono il rapporto partecipativo. Il Sofista insomma mostra chiaramente che l’azione congiunta dell’Identico e del Diverso permette ad ogni idea di distinguersi all’interno del genere di cui partecipa e di rimanere al tempo stesso identica a sé stessa.
Dunque, se applichiamo i risultati di questa dialettica al rapporto fra l’Uno e l’essere (che è il problema della prima serie; v. oltre), possiamo dire quanto segue:
1. L’Uno è (partecipa dell’essere);
2. L’Uno non è (partecipando del diverso non è identico all’essere, non è di per sé il genere dell’essere);
3. L’Uno è identico a sé stesso.
Ora come può l’Uno essere e non essere? Come può mantenere la sua identità se i suoi predicati sono contraddittori? Queste domande che nascono all’interno dell’ontologia eleatica, nell’ontologia platonica sono mal poste. I generi sommi si partecipano perché sono intessuti, intrecciati (symplokè) l’uno all’altro. Perciò, la prima serie dell’argomentazione di Parmenide, che sbocca su un Uno ineffabile, a cui non si può attribuire neanche l’essere, si muove, nel suo procedere argomentativo, entro un orizzonte logico e ontologico errato, adialettico, che non prende in considerazione la tessitura reciproca dei generi.
Analogo discorso per la seconda serie, che attribuisce all’Uno che contiene i molti determinazioni contraddittorie: qui non si considera che l’idea, in quanto concetto che si specifica, in quanto entità informazionale e non materiale, è strutturalmente un’unità molteplice, in grado di ramificarsi senza perdere la sua unità, come l’esempio del pescatore con la lenza mostra, e che ogni spazializzazione mereologica di questo nesso è fuorviante.
Il Sofista è molto chiaro al riguardo.
Chi sia dunque capace di far questo coglierà distintamente un’unica idea, che si ramifica da ogni parte attraverso molte altre, ciascuna delle quali rimane un’unità separata, e poi molte idee fra loro diverse circondate dall’esterno da una sola, e anche coglierà un’unica idea che, attraversando molti interi, si ricompone in un’unità, e molte idee che sono invece distinte e separate: in questo consiste il saper operare distinzioni per genere, cioè come per ciascun genere sia possibile comunicare.19
Ecco un passo del Fedro in cui viene indicato lo stesso procedimento.
Socrate. Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato […]
Fedro. E qual è l’altro procedimento che dici, O Socrate?
Socrate. Consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio.20
I passi dei due dialoghi si somigliano in modo impressionante, a testimonianza che nel Parmenide e nel Sofista non avviene un’autocritica di Platone, ma una confutazione dei presupposti eleatici che si frappongono ad una corretta interpretazione della dottrina delle idee.
L’idea deve essere vista come una realtà che nel dividersi in molteplici ramificazioni, non perde la propria unità. È confermato allora il risultato emerso nella prima parte del dialogo: bisogna abbandonare il sottogiacente schema spaziale con cui Parmenide, nella gymnasía, interpreta l’essere dell’idea e saper cogliere che lo statuto concettuale in esso presente lo dispone in una modalità specifica, immateriale, informazionale, diversa da quella delle cose e che consiste nella capacità dell’unità di farsi molteplice senza frantumarsi e del molteplice di farsi abbracciare da essa senza precipitare nell’indistinto. Questo uno nel molteplice e molteplice nell’Uno è il nesso dialettico. Il pensiero di Parmenide, viceversa, è adialettico, non coglie cioè la specificità dell’essere eidetico, la sua strutturale capacità di essere unità nella molteplicità e molteplicità nell’unità.
Nel regno dell’informazione non esistono parti, ma un intreccio concettuale orizzontale di generi coestensivi (identico e diverso nel Sofista, Uno ed essere nel Parmenide) o verticale in un genere che si ramifica (la diairesis del Fedro e del Sofista). Pensare è tessere fili (symplokè), non giustapporre parti. Il pensiero adialettico della gymnasia non comprende né l’intreccio fra generi coestensivi né la sfilatura in generi subordinati, riportando tutto a mereologia. Ecco allora ciò che sul Parmenide, ex post, ci può dire il Sofista: la serie impredicativa (I.I) non considera la tessitura reciproca fra l’Uno e l’essere e non è perciò in grado di fondare filosoficamente l’affermazione “l’Uno è”. La serie omnipredicativa (I.II) invece fraintende in senso spaziale la specificazione informazionale fra genere e specie, la sfilatura fra l’Uno e il molteplice, e non può dire che “l’Uno è nei molti” senza dar luogo ad indistricabili contraddizioni.
Torna qui il punto sottolineato all’inizio: l’intreccio fra generi coestensivi e l’articolazione in generi subordinati sono forma di relazione che mantengono la distinzione fra i termini relati e questo è reso possibile da quella natura di concetto che è indissociabile dall’idea. Tipico dei concetti infatti è di entrare in relazioni equidenotative o di specificarsi senza con ciò perdere la propria unità connotativa, le proprie caratteristiche intensionali. Stessa cosa per quanto riguarda la proprietà di base di un concetto di avere dei denotata, che non sono sue parti reali, ma un campo tenuto insieme da un’invarianza: l’unità connotativa permette di individuare la molteplicità denotata senza smembrarvisi poiché essa, nella sua realtà fisica non costituisce le parti di un contenuto informazionale. Siamo dunque di fronte ad un pensiero in cui né la coestensività delle idee (i cinque generi sommi del Sofista, l’Uno e i molti nel Parmenide), né la loro specificazione (la diairesis), né il loro operare classificatorio nella denotazione (la metexis), smembra l’unità.
Non è questa un’interpretazione troppo moderna? No, se non si perde di vista che a operare l’intreccio coestensivo dei generi, la loro specificazione e la costituzione che essi permettono di un campo analogico non è il soggetto conoscente: il concetto non ha uno statuto intramentale, ma quello di un’essenza che sussiste realmente; il problema di Platone resta l’essere, quell’essere che nell’idea prende la forma dell’unità molteplice, del giorno uno presente alle cose che in esso si danno.
Nell’Appendice posta alla fine di questo saggio verranno analizzate la prima e la seconda serie e si potranno vedere più nel dettaglio i passaggi argomentativi che portano il pensiero adialettico parmenideo a collassare o in un Uno privo di determinazioni o in un Uno intrinsecamente contraddittorio.
 
4. Le implicazioni dell’intreccio dialettico fra l’Uno e i Molti nel campo della logica e della teoria dell’enunciato
La specificità dell’essere dell’eidetico, la sua natura informazionale e non materiale, ha una prima conseguenza nel campo della logica e della teoria dell’enunciato: l’Uno che è presente in modo informazionale nei molti rende possibile un pensiero che si articola in enunciati predicativi ed enunciati di identità intensionale. Nel saggio precedente abbiamo elencato tutti i casi possibili. Riprendiamo qui brevemente i cinque principali e li ridiscutiamo alla luce della questione Uno-molti.
1. Definizione (identità). Un certo termine può essere sostituto da un sintagma che esprime tutta la diairesi da cui esso è ricavato come nell’esempio del pescatore con la lenza. L’Uno nei molti vuol dire qui articolazione informazionale di un genere in generi subordinati.
2. Inclusione di un individuo in un genere che esprime la sua essenza. La cosa partecipa di un’idea senza essere ad essa identica: l’Uno nei molti vuol dire qui che l’unità connotativa si mantiene una nella molteplicità denotata, poiché essa, nella sua realtà fisica, non può costituire le parti di un contenuto informazionale.
3. Inclusione di un genere in un genere sopraordinato. L’eidetico, essendo informazionale e non materiale, può articolarsi in generi subordinati senza perdere la propria unità, come nell’esempio della pesca con la lenza. L’Uno nei molti è qui la diairesis, come in 1.
4. Attribuzione di un accidente a un individuo. Nel Fedone parla di proprietà che appartengono a un qualcosa per sua natura e proprietà che questo si trova semplicemente ad avere. Anche qui, in modo ancora più netto che in 2, torna la differenza tra l’informazionale e il fisico, la capacità della connotazione di rimanere una nella molteplicità denotata.
5. Attribuzione di un proprio. Una proprietà che appartenga strutturalmente ad un campo di oggetti senza esserne definitoria, in sé considerata rimane un contenuto connotativo da essi distinta, come in 2 e in 4. Di nuovo l’unità dell’informazionale nella molteplicità del fisico.
Per una discussione più analitica delle cinque tipologie di enunciato si veda il primo saggio.
 
5. Le implicazioni dell’intreccio dialettico fra l’Uno e i Molti nel campo della matematica
 Vorrei mostrare ora come la concezione platonica della matematica, che è sottesa a molti dei passaggi argomentativi della gymnasía21e che fa riferimento alla dottrina dei Numeri Ideali22, comporti anch’essa una riarticolazione del nesso dialettico fra unità e molteplicità e un rifiuto degli schemi mereologici di Parmenide.
Vediamo innanzitutto la dottrina dei Numeri Ideali. Aristotele attribuisce a Platone la concezione secondo cui da una parte le idee sarebbero le cause di tutte le cose, dall’altra gli elementi costituitivi delle idee sarebbero l’Uno e la Diade23; essi genererebbero logicamente i Numeri Ideali con cui le idee si identificherebbero o a cui si ridurrebbero24. In che modo avviene questa generazione? Come si giustifica questa identificazione/riduzione?
Incominciamo dalla prima domanda. Dall’Uno e dalla Diade i Numeri Ideali si generano in questo modo: dall’egualizzazione operata dall’Uno sulla diade scaturisce il Due25, dall’azione duplicante della Diade, rimasta ancora attiva, su di esso scaturiscono i numeri pari26 e presumibilmente dall’addizione di un’unità ai numeri pari scaturiscono i dispari27. Quanto alla seconda questione: l’idea è riducibile al péras, al limite entro cui è racchiuso il corpo materiale28, pensato naturalmente in sé e non nelle sue occorrenze determinate, e questo dal canto suo è costruito su condizioni geometriche di base, il punto, la linea, la superficie e il solido; ora punto, linea, superficie e solido a loro volta sono costruiti su un numero di punti che è pari rispettivamente a uno, due, tre e quattro; perciò essi partecipano o si identificano29 ai primi quattro Numeri Ideali. Dunque se la causa formale delle cose sono le idee, se questa causa formale agisce come un péras che le in-forma, se questo péras è costruito su enti geometrici che corrispondono a quattro Numeri Ideali, le idee sembrano ridursi ad essi. Questi Numeri Ideali sono compresi nella Decade pitagorica (la somma di uno, due, tre e quattro dà appunto dieci) ed agiscono come principi di armonia30.
Ora, dai Numeri Ideali iscritti nella Decade vanno distinti i numeri matematici veri e propri (come del resto sono da distinguere il punto, la linea, la superficie e il solido in sé, come principi formali dell’universo geometrico, da quelli che occorrono nelle molteplici figure). I Numeri Ideali sono assolutamente incombinabili (asymbletòi), mentre i numeri matematici addizionabili, sottraibili, etc. (sýmbletoi)31. Avremmo dunque questa gerarchia:
1. L’Uno e la Diade;
2. I numeri ideali della Decade (principio delle idee in quanto contiene iscritti in sé i principi matematici di ogni possibile péras);
3. Le idee (il péras considerato in sé,32);
4. I numeri matematici combinabili e gli enti geometrici molteplici;
5. I corpi materiali.
Rimane però un problema interpretativo intorno a questo péras, a cui si riduce l’idea: esso va pensato come figura geometrica ideale, una e identica (l’immagine pura del triangolo in sé, colta con gli occhi della mente, di contro ai molti triangoli che l’immaginazione o la percezione sono in grado di percepire, qualcosa come l’oggetto dell’intuizione eidetica husserliana), o come la definizione che la genera? Una cosa è chiara: esso non può coincidere con la figura determinata che comprende la cosa individuale, perché, portando con sé l’individualità, sarebbe privo di generalità e si confonderebbe con 4.
Veniamo all’analisi delle due ipotesi interpretative. Se fosse vera la prima, sarebbe forse esagerato parlare dell’idea come un ente geometrico; essa sarebbe più correttamente la sua regola di costruzione e tutta la geometria sembrerebbe caratterizzarsi per quell’assetto assiomatico e quella derivabilità dei teoremi dalle definizioni che poi Euclide avrebbe esplicitato. Più che a una geometrizzazione delle idee, dunque, le dottrine non scritte procederebbero ad una assiomatizzazione, ossia ad una concettualizzazione, della geometria.
Se invece fosse vera la seconda ipotesi l’idea avrebbe uno statuto spaziale, ma secondo una spazialità molto particolare, nella quale non sarebbe possibile la duplicazione delle figure. Ma c’è un altro aspetto fondamentale da mettere in luce: la proprietà dell’ente geometrico ideale non può essere attribuita alle singole parti: se questo poligono è un triangolo, l’essere-triangolo non può venir attribuito al singolo lato. Perciò il fatto che l’idea abbia lo statuto fenomenologico di immagine piuttosto che quello di concetto non cambia niente da un punto di vista logico: per l’idea, ancorché geometrizzata, l’attribuzione di una proprietà non ha carattere mereologico. Questo salto oltre la mereologia, che l’essere ideale impone, è esattamente ciò che Parmenide nella sequenza 5 della seconda serie (v. Appendice) non comprende: quando egli dice che se l’Intero non è contenuto in ogni singola parte, allora non può essere contenuto nella loro somma, egli non vede che per la predicazione rispetto ad enti ideali, così come per ogni tipo di predicazione intensionale (cfr. §4 enunciati 2 e 3), non valgono le regole della mereologia ordinaria; per quello che riguarda l’eidetico l’Intero non è la somma delle sue parti.
L’altro problema interpretativo riguarda il rapporto fra i primi quattro Numeri Ideali da un lato e punto, linea, superficie, solido, dall’altro. Esso sembra speculare rispetto al primo e di nuovo investe lo statuto dell’idea geometrica: immagine ideale o concetto? Anche qui il dilemma è solo apparente. Se Uno, Due, Tre e Quattro fossero le loro regole di costruzione la geometrizzazione delle idee nelle dottrine non scritte sarebbe in qualche modo da ridimensionare. Se invece fosse vera la seconda, saremmo di nuovo di fronte ad uno spazio puro in cui non è possibile né la moltiplicazione delle figure né la riduzione della predicazione a merologia.
Il quadro, come si può vedere, è di enorme complessità. È comprensibile perciò che nella storia dell’Accademia lo si sia voluto semplificare: secondo la testimonianza aristotelica Speusippo avrebbe eliminato i numeri ideali33, mentre Senocrate avrebbe identificato i numeri matematici con i numeri ideali34.
Ora, cosa ha da dirci il Parmenide su questa ontologia aritmo-geometrica attribuita da Aristotele a Platone? Un punto importante è già emerso: o che l’idea si identifichi in una figura geometrica ideale una e identica o che essa si riduca alla sua regola di costruzione, o che essa abbia lo statuto fenomenologico dell’immagine o che abbia lo statuto fenomenologico del concetto, emerge il nodo della specificità dell’eidetico e della sua inconcepibilità in termini mereologici.
Ma vi è un altro nodo fondamentale da sottolineare: la distinzione fra Numeri Ideali incombinabili (asýmbletoi) e numeri matematici combinabili (symbletói), ossia fra i numeri 2 e 3 quando li identifico in sé stessi e quando li sommo; sommare 2 e 3 non fa perdere al nostro pensiero l’identità in sé pensabile del 2 e del 3; le somme non possono annullare la capacità di pensare in sé gli addendi e di identificarli di nuovo al di fuori di quella somma.
Ci deve essere dunque il piano dell’identificazione del numero e il piano della somma; il pensiero matematico sembra essere in qualche modo dialettico, richiedere da una parte la distinzione, dall’altra l’unione fra i termini. Ecco che allora torna il nesso fra l’Uno e i molti: da una parte nella serie ideale il numero si comporta come un Uno in sé, fermo nel suo péras; dall’altro, nella serie matematica, il numero presuppone un uno-nei-molti, nel senso che esso come intero oltrepassa il suo péras per sommarsi; ma di nuovo, in questa somma ciascuna delle unità non esce dal suo péras, altrimenti la somma sarebbe inferiore o superiore a quella che effettivamente deve darsi.
Ma il nesso dialettico fra l’Uno in sé e l’uno-nei-molti non si esaurisce in questo: i numeri ideali stessi hanno una genesi (logica e non cronologica, beninteso). Nell’atto della genesi, per l’azione della Diade, il péras è oltrepassabile, ma nel risultato, ossia nel Numero Ideale colto in sé, il péras è invalicabile. La stessa genesi comincia, a detta di Aristotele, non dall’Uno che si divide, ma dall’Uno che esercita la sua azione strutturante sulla Diade, rendendola il Due Ideale. La Diade tuttavia continuerà ad agire duplicandolo per dar luogo alla serie pari dei Numeri Ideali e addizionando/sottraendo un’unità per dar luogo alla serie dei numeri dispari; quest’azione è controbilanciata dall’Uno che cristallizza ognuno dei numeri generati e impone la Decade come limite estremo del mondo fisico.
Torna per l’ennesima volta il punto sottolineato all’inizio, ossia la differenza ontologica fra il piano eidetico e il piano materiale: se l’essere del numero fosse materiale e non informazionale, la permanenza identitaria di ogni numero nelle operazioni aritmetiche non sarebbe possibile.
 
6. L’enigma dell’istante
Veniamo ora ad un passaggio giustamente celebre che emerge alla fine della seconda serie discussa da Parmenide: la questione dell’istante. Tali sono la sua portata teorica e le sue implicazioni nell’interpretazione complessiva del dialogo che occorre trattarla separatamente. L’istante emerge lì come una realtà incollocabile (àtopon) in grado di tenere insieme essere-qualcosa e divenire-qualcos’altro: in una certa porzione di tempo x è qualcosa; in un’altra porzione di tempo x si altera e cessa di essere quel qualcosa per diventare qualcos’altro; tra le due condizioni dell’essere qualcosa e del divenire altro c’è in mezzo l’istante. Ecco allora il problema: l’istante, inteso come limite fra essere e divenire, come luogo incollocabile che consente il transito dall’uno all’altro, che non ha di per sé né l’una né l’altra determinazione, è un risultato positivo che permette di fondare il rapporto fra idee e cose? È nell’istante che l’idea fuoriesce nel mondo materiale?
A mio modo di vedere bisogna essere cauti. L’essere incollocabile connaturato all’istante non inerisce all’idea, ma alla cosa: è in essa che la condizione di esser-qualcosa è destinata a venir meno per cedere il passo alla condizione di divenire-altro; questo discorso però non può essere fatto per l’idea, a cui la seconda condizione non può appartenere. Ed è proprio qui l’errore di Parmenide, come sopra si è visto: non scorgere la differenza ontologica fra l’essere dell’idea e l’essere della cosa.
Da questo punto di vista il passaggio emblematico dell’errore filosofico di Parmenide è l’11.1 della seconda serie (v. Appendice): qui si dice che l’Uno, partecipando dell’essere, “è, fu e sarà”. Ora però questo essere che si declina in un “è, fu e sarà” non può essere quello dell’idea, di per sé inalterabile, ma quello della cosa, un essere mescolato al divenire attraverso, appunto, l’istante. L’esser-qualcosa che cede il passo al divenire-altro, insomma, è una condizione provvisoria e, in quanto tale, non può appartenere all’idea. Platone irrigidisce così il proprio dualismo anziché attenuarlo? Non ne sono così sicuro: non sarebbe possibile parlare del divenire-altro senza la condizione iniziale e provvisoria di essere-qualcosa e la condizione finale di essere-altro. Come mostra Hegel nella Scienza della logica il divenire «[…] si raccoglie eziandio in un’unità quieta»35: il divenire non è logicamente comprensibile senza un esser-qualcosa iniziale e finale, senza un essere determinato che ne costituisce terminus a quo e il terminus ad quem. È una forma apollinea che il divenire dionisiaco scolpisce o distrugge.
L’essere-x è dunque già nella cosa, sia pure in modo provvisorio; questo mostra che l’idea non ha bisogno di uscire da sé stessa per entrare nel mondo materiale, ma che essa è già fuori di sé, in quanto il mondo è strutturato eideticamente in un esser determinato, benché nella condizione provvisoria e problematica del tempo. Questa strutturazione eidetica faceva sì che il mondo si configurasse come campo analogico, come rete di similitudini, come invarianza che attraversa un dominio di oggetti; ora essa, più semplicemente, indica quel provvisorio esser-qualcosa senza cui il divenire non è intelligibile.
 
7. Conclusioni
L’analisi della ginnastica filosofica intorno all’Uno e al molteplice ha confermato i risultati emersi nel saggio precedente. Nella prima parte del dialogo le presunte aporie della partecipazione e dell’imitazione nascevano dal mancato riconoscimento dello statuto concettuale dell’idea e della differenza rispetto all’essere della cosa. Come si è visto l’idea ha:
1. Statuto ontico: ente che c’è.
2. Statuto concettuale: essenza. Quest’ultima ha una doppia operatività:
2.1. Unità intensionale.
2.2. Invarianza in un campo di oggetti.
Parmenide non vede che il secondo aspetto agisce sul primo, determinandolo in una modalità diversa da quella della cosa. L’idea, come unità informazionale non è una cosa che occupa uno spazio o che ha parti; può dunque partecipare di altre idee coestensive o specificarsi in esse senza perdere la propria unità, secondo quanto mostra nel Sofista la symplokè dei generi. Perciò, fino a che l’essere dell’idea venga concepito sulla base dell’essere della cosa, ossia in modo spaziale, materiale e mereologico il nesso partecipativo fra idea e idea rimane inconcepibile.
Questo risulta evidente dalle prime due serie della gymnasía. La prima, che termina in Uno a cui è impossibile attribuire predicati, persino l’essere, non considera il piano orizzontale dell’intreccio fra i generi coestensivi e non è perciò in grado di fondare filosoficamente l’affermazione “l’Uno è”. La seconda, che finisce per attribuire ad esso determinazioni contraddittorie, non prende in conto il piano verticale della diairesis e non può arrivare a giustificare che “l’Uno è nei molti”. Il rapporto fra l’Uno e l’essere e l’Uno e i molti è inteso in modo materiale anziché informazionale. La stessa cosa si dica a proposito delle presunte aporie della partecipazione, emerse nella prima parte del dialogo, che scaturivano dalla mancata comprensione dell’essere informazionale della connotazione a fronte dell’essere materiale della denotazione.
È emerso infine che il nesso dialettico fra l’Uno e i Molti è in opera anche nelle cosiddette dottrine non scritte: o che l’idea matematizzata abbia lo statuto fenomenologico dell’immagine o che abbia lo statuto fenomenologico del concetto, emerge il nodo della specificità dell’eidetico e della sua inconcepibilità in termini mereologici. Questo si vede anche dalla concezione platonica della matematica, che mette in gioco il piano dei Numeri Ideali e il piano dei numeri matematici, ossia il piano dell’identificazione dei numeri, in cui essi rimangono confinati nel loro péras, e il piano delle operazioni, in cui essi lo oltrepassano: se l’essere del numero fosse fisico e non informazionale, andremmo incontro ai paradossi della mereologia e questa permanenza nella somma non sarebbe possibile.
In conclusione il nesso dialettico Uno-Molti si è così declinato:
1. Partecipazione fra generi coestensivi;
2. Diairesi di un genere in generi subordinati;
3. Unità della connotazione nella molteplicità della denotazione;
4. Statuto non mereologico dell’idea-numero.
Fra i non luoghi dell’indistinzione e della contraddizione, dell’unità repulsiva e della molteplicità indeterminata, il nesso dialettico fra l’Uno e i Molti rende possibile la conoscenza di ciò che è.
 
APPENDICE
A titolo di esempio analizziamo ora la serie impredicativa I.I e quella omnipredicativa I.II. L’analisi procederà attraverso l’enumerazione dei passaggi argomentativi.
 
Ipotesi I. L’Uno è
I. I Conseguenze per l’Uno rispetto a sé stesso (serie impredicativa)
1. Se l’Uno è, non è molti. Essere-uno è infatti diverso dall’essere-molteplice36.
 
2. Se essere-uno è diverso da essere-molteplice, dobbiamo dire che all’Uno non si può attribuire né l’avere parti, né l’essere un intero, poiché l’intero è fatto di parti37.
 
3. Ora, se l’Uno non ha parti, non c’è un luogo dove si può dire che esso comincia, una parte iniziale, e un luogo dove si può dire che esso finisce, una parte finale. L’Uno dunque non ha principio, non ha fine. Esso è dunque privo di quel limite che è il suo inizio e di quel limite che è la sua fine. Esso è perciò illimitato38.
 
4. Se è privo di limiti, di “bordi” iniziali e finali, esso non è in nessun luogo; in caso contrario verrebbe incluso nello spazio e frazionato nei molti punti. La legge dello spazio impone che tutto ciò che si situa al suo interno abbia limiti iniziali e finali39.
 
5. Non solo l’Uno non è contenuto nello spazio, ma non si può dire neanche che sia incluso in sé stesso; se fare è diverso da subire, esso sarebbe due: l’Uno contenente e l’Uno contenuto. Questo punto riproduce un passaggio argomentativo del trattato di Gorgia Sul non essere40.
 
6. In nessun senso si può attribuire il movimento all’Uno. Infatti
6.1 se per movimento si intende l’alterazione, esso diventerebbe altro da se stesso, ossia non-uno;
6.2 se per movimento si intende la traslazione (lineare o circolare), ciò implica le parti e secondo (2) non è possibile41.
 
7. Ma l’Uno non è neanche in quiete; per esserlo dovrebbe essere in un luogo, ma (3) e (4) lo impediscono 42.
 
8 L’Uno non è né identico né diverso né da sé stesso né da un’altra cosa43 .
8.1 Non è diverso da sé, perché altrimenti sarebbe non-uno.
8.2 Non è identico a una cosa diversa, perché, di nuovo, sarebbe identico a ciò che non è uno
8.3 Ma non è diverso da un’altra cosa: la diversità implica l’Altro e questo è impossibile se si ammette che vi è l’Uno in senso assoluto. Qui emerge chiaramente come la tesi iniziale assuma l’Uno in senso esclusivo, nel senso di “c’è un unico ente, non vi è altro al di fuori dell’Uno”.
8.4. Ma l’Uno non è neanche identico a sé stesso; attribuire l’identità non è lo stesso che attribuire l’unità, tant’è che quando qualcosa diviene identico ai molti diviene molteplice. Poiché i predicati dell’unità e dell’identità sono diversi, se si vuole che l’Uno sia Uno, non possiamo attribuirgli l’identità. Qui tocchiamo con mano in che modo l’auto predicazione esclusiva diventi impredicativa persino dell’identità.
 
9 Per il simile e il dissimile possiamo fare lo stesso discorso che abbiamo fatto per l’identico e il diverso44.
 
10. L’Uno non è né uguale, né disuguale, né maggiore né minore45.
10.1 Per essere uguale o disuguale dovrebbe avere al suo interno identiche unità di misura, ma esso non partecipa dell’identico (8.1, 8.2).
10.2. Non è maggiore o minore: dovrebbe avere parti e 2 e 3 lo impediscono.
 
11. L’Uno non è e non diventa né più giovane né più vecchio né della la medesima età, ossia non è nel tempo46.
11.1 Non è più vecchio o più giovane o della medesima età, perché non partecipa dell’uguaglianza o disuguaglianza (10) né della somiglianza o della dissimiglianza (9).
11.2 Non diventa più giovane o più vecchio: se diventasse più vecchio di sé diventerebbe anche più giovane. Ora, poiché “più vecchio di x” implica che x sia più giovane, e che divenire qualcosa presuppone un tempo pari alla durata di ciò che diviene, per divenire più vecchio o più giovane tale durata, anziché rimanere costante, o si allungherebbe o si accorcerebbe. Ma come può il divenire dispiegarsi in una durata maggiore o minore di ciò che diviene?
 
Il risultato della serie impredicativa è che l’Uno
- non ha parti e non è in nessun luogo (1-5).
- non è né in quiete né in movimento (6-7).
- non è né identico né diverso, né simile né dissimile (8-9) .
- non è uguale o disuguale, maggiore o minore né rispetto a sé né rispetto ad altro (10)
- non è nel tempo (11).
Dunque l’Uno non è e non è uno.
 
Ipotesi I. L’Uno è
I. II Conseguenze per l’Uno rispetto agli altri (serie omnipredicativa).
1. L’essere dell’Uno è e non si identifica con l’Uno47.
1.1 In caso contrario esser-uno sarebbe uguale a essere.
 
2. L’Uno ha parti ed è una pluralità illimitata48.
2.1 L’esser-uno e l’essere non sono la stessa cosa: lo “è” si dice dell’Uno che è e l’Uno di quell’essere che è uno .
2.2 Queste parti non possono essere l’una priva dell’altra (essere e uno). Ciascuna possiede l’uno e l’essere e così via all’infinito (verrebbe da dire come in un frattale). L’Uno è quindi una pluralità illimitata.
Qui le parti corrispondono ai predicati dell’essere e dell’esser-uno. Parmenide confonde predicazione e mereologia. È evidente, ancora una volta, l’interpretazione fisicista dell’idea, che non è in grado di cogliere il suo essere come essenza immateriale
 
3. L’Uno è illimitato e molteplice. Vediamo perché49.
3.1 Essere e unità sono diversi in virtù del diverso.
3.2 Il diverso non è identico all’essere e all’Uno.
3.3 Essere e diverso, essere e uno, uno e diverso: sono coppie, esiste il due
3.4 aggiungendo un elemento a una coppia il due diventa tre, che sono pari e dispari.
3.5 Se esiste il due esiste anche il due volte e il tre il tre volte. Dunque esiste il numero.
3.6. Se esiste il numero esiste la molteplicità.
3.7 L’essere si distribuisce nella molteplicità.
3.8 Non c’è parte dell’essere che non si distribuisca nella molteplicità.
3.9 In ogni parte dell’essere è presente l’Uno (l’Uno è predicato di ogni parte).
3.10 L’Uno viene sminuzzato ad opera dell’essere e si ritrova come molteplicità illimitata.
Le sequenze 1,2 e 3 dicono più o meno la stessa cosa con argomenti diversi.
 
4. L’Uno è limitato50
4.1 Le parti sono parti di un intero.
4.2 L’intero include le parti. L’Uno è limitato.
4.3 L’intero ha estremi e un mezzo. Esso ha una figura.
Emerge qui la contraddizione fra 1,2 e 3 da una parte e 4 dall’altra. L’Uno è al tempo stesso illimitato e limitato.
 
5. L’Uno è in sé e in altro51.
5.1 L’Uno è tutte le parti
5.2 L’Uno è anche l’intero.
5.3 L’Uno è incluso da sé stesso. È la totalità delle parti.
5.5 L’intero non può essere nelle parti, né in tutte né in una: per essere in tutte dovrebbe essere in ciascuna, ma se non è in una non può essere in tutte.
5.6 Se l’intero non è nelle sue parti non è in sé stesso e non è in nessun luogo.
5.7 Ma ciò che non è in nessun luogo, non è.
5.8 Dunque l’Uno, in quanto intero, non è in sé; dunque deve essere in altro.
5.9 Ma in quanto l’Uno è le parti, è in sé.
 
6. L’Uno si muove e sta fermo52.
6.1 L’Uno è in un diverso (5.8: le parti).
6.2 Qualcosa può essere in un che di diverso da ciò in cui è (5.8) solo se si muove.
6.3 Ma esso non solo è in un altro, in un diverso; esso è anche in sé (5.9); dunque è in quiete e si muove.
 
7. L’Uno è identico e diverso da sé e dagli altri53.
7.1 Ogni cosa è identica o diversa o parte di un’altra.
7.2 L’Uno non è parte di sé
7.3 L’Uno non è diverso da sé
7.4 L’Uno è identico all’Uno
7.5 Ma l’Uno è diverso da sé (poiché è in altro 5.8) 283
7.6 L’Uno è anche diverso da tutte le cose che non sono l’Uno
7.7 L’identico in sé e il diverso in sé sono contrari
7.8 Ogni cosa è identica a sé stessa e non può ospitare il diverso.
7.9 Dunque né nell’Uno né in ciò che non è uno, in quanto identici, c’è il diverso.
7.10 Non partecipando del diverso non possono di per sé stessi essere diversi.
7.11 Non essendo diversi né per partecipazione al diverso né per se stessi, essi non sono diversi. L’Uno non è diverso da sé né da altro
7.12 Ora il non uno non partecipa dell’Uno, altrimenti non sarebbe non-uno (è diverso dal non-uno, 6.6).
7.13 Ciò che non è uno non ha numero né parti.
7.14 Il non-uno non è né parte né l’intero dell’Uno.
7.15 Se non è né parte né diverso è identico.
7.16 L’Uno è identico al non-uno.
 
8. L’Uno è simile e dissimile rispetto a sé e agli altri (il non-uno)54
8.1 L’Uno è diverso dagli altri (7.6).
8.2 L’Uno e gli altri (il non-uno), proprio in quanto entrambi sono affetti dal diverso, sono simili (cfr. l’obiezione di Zenone a Socrate).
8.3 Il simile è contrario al dissimile.
8.4 Il diverso è contrario dell’identico.
8.5 Ma è emerso che l’Uno è identico agli altri (7.16).
8. 6 L’identico è quindi contrario del diverso.
8.7 Qualcosa che è diverso è anche simile.
8.8 Ma in quanto identico sarà allora dissimile: l’identico è il contrario del diverso e attribuire il diverso significava attribuire il simile (7.2); dunque dobbiamo attribuire il dissimile)
8.9 Per via del diverso l’Uno è simile e per via dell’identico dissimile.
8.10 In quanto è identico non è altro.
8.11 In quanto non è altro non è dissimile.
8.12 In quanto non è dissimile, è simile.
8.13 Ma in quanto è altro (o qui ci si richiama a 5.8 oppure più genericamente si afferma che l’Uno è altro dal non-uno; non si capisce) è dissimile.
8.15 Poiché è anche identico e diverso a sé (7), la dialettica è la stessa rispetto a sé.
 
9. L’Uno è in contatto e non è in contatto con sé e con gli altri55.
9.1 L’Uno in sé è in contatto con sé 291
9.2. È negli altri, dunque in contatto con gli altri (5.8)
9.3 L’Uno è quindi in contatto con sé e con gli altri
9.4 Ciò che è a contatto con qualcosa si trova dopo (mi sembra di capire: date due entità a contatto, una viene prima, l’altra dopo).
9.5. Quindi se l’Uno entra a contatto con sé stesso si trova dopo sé stesso, occupando lo spazio successivo a quello in cui si trova.
9.6 Quindi solo essendo due l’Uno può essere a contatto con sé stesso
9.7 Ma l’Uno non può essere due.
9.8 Dunque l’Uno non entra in contatto con sé stesso.
9.9 Ma non può neanche entrare in contatto con gli altri
9.10 Per entrare in contatto bisogna che sia consecutivo e che non ci sia una terza entità
9.11 Quando a due entità se ne aggiunge una terza i contatti saranno due.
9.12 In generale ogni volta che si aggiunge un’unità sia aggiunge un contatto e i contatti saranno sempre inferiori di uno rispetto alle unità in contatto (contatti= numero unità – 1)
9.13 Se c’è un solo ente non c’è nessun contatto
9.14 Ma gli altri dall’Uno non partecipano dell’Uno
9.15 Non essendoci la natura dell’Uno, negli altri non c’è numero
9.16 Dove non c’è numero non c’è contatto
9.17 L’Uno non è in contatto con gli altri (8.13) e gli altri non sono in contatto con l’Uno (9.15, 9.16).
 
10 L’Uno è uguale e diseguale, a sé e agli altri56.
10.1 Se l’Uno e i molti fossero maggiori o minori, non lo sarebbero per loro natura (cioè né nell’Uno né negli altri dall’Uno è compreso l’esser maggiore o minore, che deriva dunque dalla partecipazione).
10.2 Se avessero uguaglianza sarebbero uguali fra loro (sottinteso: e ciò non è possibile).
10.3 Se gli altri possedessero grandezza e l’Uno piccolezza o viceversa, la specie a cui si è aggiunta la grandezza sarebbe maggiore, l’altra minore. Vediamo perché.
10.4 Ci sono le due specie, la grandezza e la piccolezza.
10.5. Se nell’Uno si ingenerasse la piccolezza si troverebbe o in tutto l’Uno o in una sua parte
10.6 Ma se la piccolezza fosse coestesa all’Uno sarebbe uguale e se lo includesse maggiore
10.7 Ma come può la piccolezza essere maggiore o uguale e perdere così il suo tratto distintivo (l’esser-piccolo)? In un rapporto di eguaglianza non c’è qualcosa che è piccolo, ma qualcosa che è eguale. Se poi fosse maggiore sarebbe grande, dunque il contrario di se stessa.
10.8 Stessa difficoltà se la piccolezza si trovasse in una parte dell’Uno: essa sarebbe o uguale o più grande della parte.
10.9 Ma neanche la grandezza può trovarsi nell’Uno: ci sarebbe qualcosa di più grande di lei, l’Uno appunto.
10.10 Inoltre la grandezza è tale rispetto alla piccolezza, che però qui abbiamo detto che non c’è.
10.11 Ora, la grandezza in sé è più grande della piccolezza in sé e viceversa.
10.12 Essendo dunque la grandezza relativa alla piccolezza e viceversa (9.11) e non essendoci nell’Uno né piccolezza (9.7) né la grandezza (9.10), negli altri non può esserci né grandezza né piccolezza
10.13 Perciò l’Uno non è né maggiore né minore rispetto agli altri, ossia non è disuguale.
10.14 Di conseguenza dovrebbe essere uguale a sé stesso e agli altri.
10.15 Ma se è uguale a sé stesso dovrà includere sé stesso, dunque sarà maggiore (come contenente) e minore (come contenuto) di sé. Perciò non sarà uguale a sé.
10.16 Ora, tutto ciò che è o è uno o altro dall’Uno.
10.17 Ciò che è è sempre in qualche luogo.
10.18 Ciò che è in un luogo è in qualcosa di più grande essendo più piccolo.
10.19 Se tutto ciò che è, è in qualcosa, occorre dire che l’Uno è negli altri e viceversa; non c’è altra soluzione.
10.20 Poiché l’Uno si trova negli altri, questi saranno maggiori e l’Uno minore; ma poiché gli altri si trovano nell’Uno questi saranno minori e l’Uno maggiore. Dunque l’Uno è diseguale agli altri
10.21 L’Uno allora sarà uguale a sé stesso e agli altri (9.14) ma anche maggiore e minore di sé (9.15) e degli altri (9.19).
10.22 Essendo formato da unità di misura uguali, maggiori o minori, sarà anche uguale, maggiore o minore di sé e degli altri.
 
11 L’Uno è e non è nel tempo (ossia è e diventa, non è e non diventa più giovane e più vecchio, di sé stesso e degli altri)57.
11.1 L’Uno, che partecipa dell’essere, partecipa del tempo: è, fu, sarà.
11.2 Se il tempo scorre diventa più vecchio di sé (DVsé)
11.3 Qualcosa di più vecchio è in relazione a qualcosa di più giovane
11.4 Diventa più vecchio di sé che diventa più giovane (DGsé).
11.5 L’Uno diventa più vecchio e più giovane di sé (DVsé e DGsé).
11.6 Quando incontra il presente l’Uno cessa di diventare vecchio, ma è più vecchio di sé (EVsé). Si potrebbe dire che nel limite tendente a zero dell’istante, il divenire cessa e s’impone il puro essere: non c’è più il divenire x, ma l’essere-x.
11.7 Ciò che è più vecchio è tale rispetto a ciò che è più giovane
11.8 Quando incontrando il presente è più vecchio di sé l’Uno è più giovane di sé (EGsé).
11.9 L’Uno è e diviene più vecchio e più giovane di sé.
11.10 Ma è o diviene più giovane o più vecchio per un tempo uguale rispetto a sé
11.11 Quindi non è e non diventa né più giovane né più vecchio (nEVsé, nEGsé; nDVsé, nDGsé).
11.12 E gli altri? Essendo pluralità partecipano di un numero maggiore di uno
11.13 Fra i numeri si sono generati prima i minori.
11.14 Il numero minore in assoluto è l’Uno.
11.15 I molti sono più giovani dell’Uno e l’Uno più vecchio (EVa).
11.16 È risultato che l’Uno ha parti (2).
11.17 Ma se l’Uno ha parti è venuto a compimento dopo di esse. L’Uno è più giovane degli altri (EGa).
11.18 Ma ogni parte che viene ad essere è uno (ossia è parte dell’Uno).
11.19 L’Uno allora, quando si genera, non può allora mancare delle sue parti, degli altri.
11.20 L’Uno allora ha la stessa età degli altri, né più giovane, né più vecchio (nEGa, nEVa).
11.21 Ma se l’Uno è più vecchio degli altri (10.15) e più giovane (10.17) non può diventare ancora più vecchio o più giovane: aggiungendo quantità eguali (in questo caso di tempo) a quantità diseguali la differenza è sempre la stessa (nDGa, nDVa).
11.22 Tuttavia se aggiungiamo a una quantità di tempo maggiore e ad una quantità di tempo minore la stessa quantità, il rapporto diminuisce (p. es se un uomo genera un figlio a 30 anni, all’inizio è 30 volte più vecchio, ma a 60 solo due volte).
11.23 L’Uno diventa più giovane degli altri (DGa).
11.24 Gli altri diventano più vecchi
11.25 Ciò che è venuto all’essere dopo diventa sempre più vecchio di ciò che è venuto all’essere prima (è sempre il discorso della proporzione).
11.26 non è mai più vecchio, ma diventa costantemente più vecchio.
11.27 Allo stesso modo ciò che è venuto all’essere prima diventa sempre più giovane (ancora la proporzione)
11.28 Dirigendosi verso la condizione opposta il più giovane diventa più vecchio del più vecchio e il più vecchio più giovane del più giovane
11.29 Dunque l’Uno diventa più giovane perché è risultato essere più vecchio (10.15): (DGa).
11.30 Lo stesso ragionamento ma con risultato opposto se partiamo da (10.17): poiché i molti sono risultati essere più vecchi dell’Uno, dato che esso è venuto all’essere con il compimento delle sue parti, allora, essendo l’Uno è più giovane e dirigendosi verso la sua condizione opposta (11.28) per via del discorso sulla proporzione (11.22), esso diventa allora più vecchio degli altri (DVa)
11.31 l’Uno è e diventa sia più vecchio sia più giovane sia in base a sé stesso sia in base agli altri.
 
12 L’Uno che è era, sarà, diviene, diventava, diventerà, è oggetto di scienza.
12.1 Esso, in quanto è era, sarà, diviene, diventava, diventerà ha caratteri determinati e ciò che ha caratteri determinati può essere oggetto di scienza (ciò capovolge i risultati di I.I)58.
 
13 Ripresa del discorso (segue una serie di deduzioni relative ancora a I.II)59.
13.1 L’Uno è e non è uno e molti. La tesi non è esplicitamente formulata; possiamo però ricavarla dal rapporto controverso fra intero e parti, ossia da 5.9, 5.8 o anche da 10.
13.2 L’Uno partecipa del tempo (11)
13.3 Perciò è necessario che talvolta partecipi dell’essere talora no. Questione: l’essere è qui predicativo o esistenziale? Forse si tratta di uno pseudoproblema: quando l’Uno è uno(essere copulativo), l’Uno c’è (essere esistenziale); quando l’Uno non è uno (essere copulativo), l’Uno non c’è più (essere esistenziale).
13.4 Quando partecipa dell’essere non può partecipare del non essere e viceversa.
13.5 È diverso il tempo in cui partecipa dell’essere e il tempo in cui non vi partecipa. Ossia, di nuovo: è diverso il tempo in cui essendo-uno, l’Uno c’è e il tempo in cui, non essendo-uno, l’Uno non c’è.
13.6 Esiste un momento in cui prende parte (traducibile anche con afferra, prende) l’essere e un momento in cui lo abbandona. Altrimenti come potrebbe avere e non avere lo stesso predicato?
13.7 Prendere parte all’essere (prendere la condizione di essere) lo si chiama divenire (venire all’essere), abbandonare l’essere cessare di essere [Ancora la questione se interpretare l’essere a cui l’Uno partecipa come esistere o come formula ellittica per l’essere predicativo: nel primo caso gignetai vuol dire venire all’essere, esser generato e nel secondo divenire-qualcosa; analogamente apollytai: nel primo caso esser distrutto, nel secondo cessare di essere. Di nuovo però la chiave che abbiamo dato sopra: l’essere predicativo è qui l’essere-uno; per cui quando qualcosa è-uno, si può dire che l’Uno c’è; quando qualcosa non-è-uno, si può dire che l’Uno non c’è.
13.8 l’Uno dunque diviene qualcosa o cessa di essere qualcosa (viene all’essere o cessa di essere)
13.9 Essendo uno e molti, divenendo e cessando di essere uno e molti, cessa di essere molti quando diventa uno e di essere uno quando diventa molti.
13.10 Diventando uno e molti si unifica e si divide
13.11 Quando diventa dissimile e simile si rende simile e dissimile (cioè, quando diventa dissimile a sé stesso diventa simile ai molti e viceversa).
13.12 Quando diventa maggiore, minore o uguale, esso aumenta, diminuisce o si eguaglia. Divenire maggiore o minore significa che è diventato molteplice; divenire uguale significa che è tornato uno.
13.13 In queste trasformazioni esso passa dal movimento all’essere fermo e dall’essere fermo al movimento.
13.14 Ebbene, questo passaggio (13.13; la proposizione è una, ma per chiarezza è bene dividerla nelle sue due componenti) non è possibile in un tempo determinato: non esiste alcune tempo in cui sia possibile che qualcosa né si muova né sia fermo. Ossia ogni porzione di tempo coincide con uno stato: o il mutare o l’essere.
13.15 Esiste allora qualcosa di stupefacente di incollocabile (Brissot) nel quale qualcosa è quando cambia di stato: l’istante è qualcosa partendo dal quale si ha un mutamento verso uno dei due stati.
13.16 L’istante è qualcosa di stupefacente che si trova in mezzo fra il movimento e la quiete, perché non è in nessun tempo.
13.17 Quando l’Uno cambia di stato (metaballei) non è in nessun tempo, non si muoverà né sarà in quiete.
 
Il risultato della serie omnipredicativa è che l’Uno
- è costituito di un numero di parti limitate e illimitate;
- è in sé e in altro;
- è in movimento e immobile;
- è identico e diverso a sé e agli altri;
- è uguale e disuguale a sé e agli altri;
- è nel tempo e non è nel tempo.

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BIBLIOGRAFIA
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MIGLIORI 1994 “Il Parmenide e le dottrine non scritte” in G. Reale (a cura di), Verso una nuova immagine di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 167-222.
TAYLOR 2016, Platone. L’uomo e l’opera, Cartelvecchi, Milano (1926).
 
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NOTE
1 Pur non tematizzando la logica come tecnica del ragionamento corretto, formalmente valido, pur rimanendo su un terreno rigorosamente ontologico, il Parmenide è emerso, insieme al Sofista, come il luogo teorico dal quale sono scaturite le coordinate fondamentali per una teoria dell’enunciato. È grazie al problema della partecipazione delle cose alle idee e delle idee alle idee sopraordinate che è stato possibile tracciare una mappa degli enunciati e distinguere fra enunciati predicativi ed enunciati d’identità; enunciati su individui ed enunciati su specie; intensione ed estensione dei termini concettuali; enunciati essenziali ed enunciati accidentali e infine inerenza e predicazione in senso stretto (tema quest’ultimo integralmente aristotelico).
2 Rimane tuttavia il problema emerso alla fine del saggio precedente: se si danno da una parte il contenuto informazionale in sé considerato, dall’altra la sua realizzazione nelle realtà concrete, da una parte l’unità e la generalità della specie concettuale, dall’altra la pluralità e l’individualità delle proprietà inerenti alle molte cose, che relazione c’è fra questi due ordini? Come può l’idea che è una specie concettuale essere ritrovata nella cosa come aspetto singolarizzato? Abbiamo accennato ad una possibile soluzione nell’Intelligenza demiurgica del Timeo, capace di immaginare, di dare figura (Einbildungskraft) a idee preesistenti. Svilupperemo più avanti questo tema nel terzo saggio di questo percorso, che avrà per oggetto appunto il Timeo.
3 Secondo la teoria medioevale dell’intenzionalità, ereditata da Brentano, si ha un oggetto intenzionale intramentale, che a sua volta intende un oggetto reale. Essa è dunque un’intenzionalità oggettuale. Quella husserliana è invece una intenzionalità d’atto, che prende di mira un oggetto da esso distinto. A livello genetico quest’oggetto è costituito su livelli differenti, via via più complessi, dalla soggettività trascendentale fungente.
4 Correlato intenzionale, secondo l’accezione husserliana dell’intenzionalità d’atto.
5 Rimane però ancora la questione sopra emersa: posso assegnare alle cose un che-cos’è comune in virtù del fatto che in ciascuna esso si realizza come proprietà individuale; che rapporto c’è fra un concetto, inteso come unità ideale e identica, e le sue realizzazioni in termini di momenti individuali (fattezze, proprietà) inerenti alle cose? Anche qui impostare il problema sul terreno dell’Intelligenza demiurgica del Timeo sembra promettere una soluzione.
6 Taylor 2016 (1927), p. 396
7 Calogero 1984.
8 Cherniss 1932.
9Berti 1975 e 1992.
10 Plot. Enneadi, V. 3.14, 18-19.
11 Per un quadro esaustivo e ragionato sulle interpretazione della gymnasía v. Ferrari 2004, pp 120 e segg.
12 Berti 1975 e 1992.
13 Meinwald 1991.
14 Parmenide, 152 a 3-8.
15 Un appiglio interpretativo per chi sostiene il valore positivo di questa serie è il brano 155 d-e (che ho indicato come sequenza 12 della serie argomentativa, cfr. infra). Esso sostiene che l’Uno può essere oggetto di scienza poiché contiene proprietà effettive (è, è stato, sarà, diviene, è divenuto). Ma si tratta, a ben vedere, di un’ulteriore riduzione all’assurdo perché questo risultato è in contraddizione con il risultato della prima serie sopra citato (152 a 3-8), per il quale dell’essere non c’è scienza.
16 Per un’analisi più approfondita si veda l’Appendice al presente saggio. I numeri qui riportati si riferiscono alla scansione dei passaggi argomentativi lì ricostruita.
17 Cfr. nota precedente.
18 Sofista 256 d
19 Sofista, 253 d5-e2.
20 Fedro, 265 d7-e3.
21 Per un’analisi dettagliata vedi Appendice a questo saggio.
22 Nella ricostruzione di questa dottrina seguo integralmente Berti 2004 (1977) p. 192 e segg.
23Metafisica A 6, 987 b 18-21.
24 Questa identificazione o riduzione delle idee ai Numeri Ideali, in quanto contenenti gli elementi di ogni possibile péras, secondo Berti è attribuita da Platone ad Aristotele come una progressiva acquisizione, come risultato della sovrapposizione di due distinte dottrine: l’una secondo cui le idee sono cause delle cose, l’altra secondo cui a svolgere questa funzione sono i Numeri Ideali, generati dall’Uno e dalla Diade; dopodiché, la constatazione che le une e gli altri svolgono la stessa funzione avrebbe portato Platone a identificarli o a ridurre quelle a questi; insomma tale identificazione/riduzione si basa sul potere di causa formale che entrambi hanno sulle cose; comunque sia, o in caso di identificazione o in caso di riduzione l’Uno e la Diade sarebbero i principi primi delle idee. Cfr. Berti 2004 190-91.
25Metafisica M 7 1081 a 24-25; M 8 1083 b 23-25; N 4 1091 a 24-25.
26Metafisica A 6, 987 b 33 – 988 a 1.
27Metafisica M 8 1084 a 4-5.
28Metafisica A 9 991 b 9-11; N 5 1092 b 8-13; B 5 1002 a 4-12. Cfr. Berti 2004, 190-191.
29 Se il punto, la linea, la superficie e il solido in sé, non quelli occorrenti nelle varie e molteplici figure spaziali, si identifichino ai primi quattro Numeri Ideali o semplicemente ne partecipino è questione assai controversa. Scrive Berti: «Oltre all’ammissione di numeri ideali, ai quali si riconducono le idee, Aristotele attribuisce a Platone l’ammissione di grandezze ideali quali la “linea indivisibile” che svolge la funzione del punto, la linea, la superficie e il solido che sono anch’esse sostanze, cioè entità aventi esistenza separata, ma non è chiaro in quale rapporto tali grandezze stiano con i numeri ideali: in ogni caso non devono essere confuse con le grandezze geometriche, che, come tutti gli enti matematici, sono entità intermedie tra le idee e le cose. Anche queste grandezze, come i numeri ideali, sono disposte in ordine di anteriore e di posteriore […] Da un lato sembrerebbe che esse fossero inferiori ai numeri ideali, perché Aristotele le indica come posteriori a questi, ma dall’altro sembrerebbero identificarsi con essi nel senso che la linea indivisibile è un’unità, la linea una diade, in quanto presuppone almeno due punti, la superficie una triade in quanto presuppone tre punti non allineati, e il solido una tetrade, in quanto presuppone quattro punti non disposti sulla stessa superficie: la somma di questi numeri è esattamente la decade, in cui termina, come sappiamo, la serie»; Berti 2004, p. 194. Per la questione teorica che qui si sta affrontando il fatto che questi enti geometrici ideali si identifichino o siano generati dai quattro Numeri Ideali è del tutto indifferente (v. oltre).
30Metafisica A 9 991 b 13-14; N 5 1092 b 14-15; Etica Eudemia I 8 1218 a 15-32. Cfr. Berti 2004, 191.
31Metafisica A 9 991 b 21-26; M 6 1080 a 16-37. Cfr. Berti 2004, 193.
32 Se il péras fosse pensato come immagine andrebbe smarrita la differenza con i numeri matematici combinabili e gli enti geometrici determinati (4).
33Metafisica M 9 1086 a 2-5; N 2 1090 a 7-10. Cfr. Berti 2004, 226.
34Metafisica Z 2 1028 b 24; M 6 1080 b 22-23; M 8 1083 b 2-3. Cfr. Berti 2004, 238.
35 Hegel, Scienza della Logica, trad. it. p. 99.
36 Parmenide 137 c 4-5-
37 137 c 5-d4.
38 137 d4-d6.
39 137 d4 – 138 a1.
40 138 a1 – 138 b6.
41 138 c1 – 139 a2.
42 139 a2 – 139 b4.
43 139 b5 – 139 e6-
44 139 b7 – 140 b1.
45 140 b1 – 140d8.
46 140 e1 – 141 e7.
47 142 b6 – 142 c7.
48 142 e7 – 143 a3.
49 143 a4 – 144 e7.
50 144 e8 – 145 b5.
51 144 b6 – 145 e6.
52 145 e7 – 146 a8.
53 146 a9 – 147 b8.
54 147 c1 – 148 d4.
55 148 d5 – 149 d7.
56 149 d8 – 151 e8.
57 151 e3 – 155 c4.
58 155 c4 – 155 e7. Le interpretazioni che sostengono il carattere positivo della seconda serie possono appoggiarsi a questo passaggio; per cui mentre la prima serie, che considera adialetticamente l’Uno in sé sarebbe aporetica, la seconda, che considererebbe l’Uno in rapporto ai molti, secondo la concezione di dialettica che emerge dal Sofista, sarebbe positiva. Tuttavia per sostenere il valore positivo della seconda serie permangono a mio avviso alcune difficoltà. 1. Platone non può attribuire al personaggio Parmenide la tesi di un uno nei molti. Se lo facesse sarebbe un’autoconfutazione che il dialogo non mancherebbe di far notare. 2. Il rapporto fra l’Uno e i molti non è il risultato positivo dell’analisi che il personaggio Parmenide compie, quanto piuttosto la premessa che essa assume metodologicamente per portarla all’assurdo, secondo il metodo tipico di Zenone. 3. L’essere oggetto di scienza va letto qui in relazione a ciò che il Parmenide reale pensava, ossia non potervi essere scienza di ciò che fu o sarà. Il Parmenide personaggio arriva quindi al paradosso che, poiché l’esser stato e l’avere da essere sono proprietà determinate, allora tutto quanto abbiamo detto finora rende l’Uno e i molti oggetto di scienza. Ma si tratta di un’ulteriore contraddizione: il personaggio Parmenide sembra quindi dire che dell’Uno non c’è scienza (perché gli vengono attribuiti predicati contraddittori) e che dell’Uno c’è scienza (perché è, è stato, sarà, diviene, è divenuto, diverrà sono proprietà determinate).

59 155 e7 – 157 b5.