Gabriele Miniagio | Universalità eidetica e individualità.

L'Uno e i molti, Parte prima.
Il problema della predicazione fra Platone e Aristotele                                                   
Tre quarti dell’Uomo salirono in alto, /
Un quarto rinacque quaggiù. /
Da questo egli si spiegò in tutte le direzioni /
Nelle cose animate e inanimate.
                                [Ṛg Veda, X 90]
- Se fosse una e identica, sarebbe presente nella sua interezza nei molti, che però sono separati, e in questo modo sarebbe separata da sé.
- No – replicò Socrate – Almeno se si comporta come il giorno che, restando uno e identico, è contemporaneamente in molti luoghi, senza essere separato  da sé. Se si comportasse così ciascuna forma sarebbe una e identica, presente contemporaneamente in tutte le cose.
                                                                              [Platone, Parmenide, b1-6]
Come può l’idea platonica essere presente a se stessa nella sua unità e contemporaneamente partecipata dalle cose sensibili? Che cos’è questa strana relazione, la partecipazione, che consentirebbe all’unità di dispiegarsi nella molteplicità senza frammentarvisi?
Gli ultimi dialoghi platonici, specialmente il Parmenide, il Sofista e il Timeo, affrontano il problema su un piano ontologico. Ma la distinzione fra l’idea considerata per sé e l’idea partecipata dalle cose ha avuto fondamentali conseguenze per la storia della logica, poiché, come si vedrà, essa ha permesso di scorgere, dietro le sembianze polivoche della copula “è”, la differenza fra enunciati d’identità ed enunciati predicativi, enunciati su specie ed enunciati su individui, enunciati essenziali ed enunciati accidentali, aspetto intensionale ed aspetto estensionale. Perciò, nonostante sia fuorviante sul piano interpretativo dire che Platone abbia formulato esplicitamente una teoria della predicazione, nonostante non vi sia spazio nel suo pensiero per una logica intesa come tecnica del ragionamento corretto, poiché la questione non esce dal piano ontologico, resta vero tuttavia che il concetto di partecipazione è stato per molti aspetti la fucina da cui sono emerse le coordinate fondamentali della logica stessa ed è utile perciò analizzarlo anche da questo punto di vista.
Nel corso di questo studio tratteremo il nesso unità-molteplicità negli ultimi dialoghi di Platone scandendo il discorso in tre tappe fondamentali:
  1. il problema della partecipazione da un punto di vista logico e semantico;
  2. la ginnastica filosofica sul nesso unità-molteplicità in quanto tale, che Platone propone alla fine del Parmenide;
  3. la soluzione del Timeo.
Svilupperemo la prima tappa nel presente saggio, cui seguiranno le altre due.
 
  1. I problemi del Parmenide.
Nel Parmenide la dottrina platonica delle idee viene sottoposta al vaglio dell’ontologia e della logica eleatica. La finzione narrativa è che un giovanissimo Socrate incontri Parmenide e Zenone e dialoghi con loro a partire dalla tesi che quest’ultimo espone: il molteplice è impossibile in quanto contraddittorio;i molti infatti sono dissimili fra loro, ma in quanto dissimili essi sono simili [1]. Tutto questo non è senza conseguenze per la filosofia platonica, perché va ad intaccare un caposaldo dell’intera teoria delle idee, ossia la loro pluralità.
Per disinnescare l’obiezione interviene Socrate: i molti – egli dice – partecipano [2] delle idee di simile e di dissimile, ma non si identificano con nessuna delle due; attribuire somiglianza e dissomiglianza al molteplice non comporta perciò la mescolanza fra queste due idee prese di per sé; dunque non vi è affatto contraddizione. Se questa mescolanza avvenisse a livello eidetico – egli aggiunge – allora sì che saremmo di fronte ad un prodigio inspiegabile[3]. Ma così non è. O almeno così sembra. Dunque da una parte ciò che le idee sono per sé, nella loro autoidentità, dall’altra le cose che ne partecipano.
Ora però nel Sofista il discorso sulla partecipazione si amplia e va a riguardare il mondo delle idee[4];esso infatti è complesso, ramificato, poiché ogni idea dirama in idee subordinate: l’idea di tecnica per esempio si divide in tecniche di produzione e tecniche di acquisizione, le tecniche di acquisizione in tecniche di scambio e di cattura, le tecniche di cattura in lotta e caccia, e così via[5]. Perciò quando si dice che un’idea è l’idea sopraordinata (per esempio che “la caccia è una tecnica di cattura”) non si vuole affermare l’identità, ma l’inclusione dell’idea più specifica nell’idea più generica[6]. Dunque non solo le cose partecipano delle idee, ma anche le idee più specifiche partecipano di idee più generiche: questa doppia partecipazione è espressa dal giudizio predicativo, distinto logicamente da quello d’identità.
Prima distinzione da fissare: quella fra identità e predicazione.
Non deve però passare inosservata la differenza fra i due casi del giudizio predicativo: quello che attribuisce ad una cosa un’idea, ossia ciò che le appartiene per sé, il suo essere, e quello in cui un’idea è iscritta nella diairesi e definita; da una parte dunque l’enunciato che riguarda enti individuali, dall’altra l’enunciato che riguarda specie generali; da una parte pensare una cosa sotto un concetto, dall’altra definire questo stesso concetto; di entrambi, in modo diverso, viene detto il che-cos’è. Il caso dell’identità di un’idea con se stessa, che è stato sopra considerato, è evidentemente anch’esso un enunciato su specie.
Questa differenza sarà espressa molto chiaramente da Husserl, che distinguerà tra una prima forma di pensiero predicativo, operante su oggetti individuali (Sezione 2 di Esperienza e giudizio), ed una seconda forma, operante su oggettività universali, ossia su specie generali (Sezione 3) [7].
Fissiamo quindi la seconda distinzione, quella fra enunciati su individui ed enunciati su specie concettuali.
Inoltre distinguere fra l’idea in sé e le cose che ne partecipano permette di differenziare in un termine da una parte il concetto che esso esprime, il suo contenuto informazionale preso nella sua generalità, dall’altra l’insieme degli enti a cui esso si riferisce e che lo esemplificano. Nella storia della filosofia il primo aspetto ha preso il nome di connotazione o intensione o senso (Sinn) il secondo di denotazione o estensione o riferimento (Bedeutung[8].
È questa la terza distinzione che il pensiero platonico permette di fare alla logica successiva: aspetto intensionale ed aspetto estensionale dell’enunciato.
Ma l’eredità platonica non finisce qui: in molti dialoghi, primo fra tutti il Fedone, si distingue fra ciò che una cosa è per sé, per via appunto della sua partecipazione all’idea, e ciò che essa si trova ad essere, ossia quelle caratteristiche che Aristotele chiamerà accidentali [9]. È evidente che questa forma di predicazione riguarda soltanto le cose e non le specie in sé prese.
Emerge qui unaquarta distinzione, quella fra enunciati essenziali ed enunciati accidentali.
Ecco allora il risultato; la nozione platonica di partecipazione permetterà alla logica di distinguere fra:
  1. enunciati predicativi ed enunciati d’identità;
  2. enunciati su enti individuali ed enunciati su concetti generali;
  3. intensione ed estensione;
  4. enunciati predicativi essenziali ed enunciati predicativi accidentali.
L’intreccio fra le questioni in Platone può essere ricostruito secondo questo schema.
 

Enunciati essenziali

 

 

 

Enunciati predicativi

su enti individuali

Attribuiscono ad un ente individuale una specie in cui è espresso che cosa esso è in generale

Partecipazione delle cose alle idee (Parmenide)

su specie concettuali

Attribuiscono ad una specie concettuale un genere in cui essa è compresa

Diairesi delle idee (Sofista)

Enunciati d’identità

su specie concettuali

Attribuiscono ad una specie concettuale l’identità

Essere per sé delle idee contrapposto all’essere per partecipazione delle cose (Parmenide)

Enunciati accidentali

Enunciati predicativi

su enti individuali

Attribuiscono ad un individuo una proprietà accidentale

Ciò che qualcosa non è per sé (Fedone, etc.)

 
 
  1. La teoria aristotelica della predicazione.
La teoria platonica della predicazione trova in Aristotele uno sviluppo complesso e articolato. La logica aristotelica introduce un nuovo, decisivo elemento rispetto alle quattro distinzioni sopra riportate: la differenza fra enti individuali e proprietà, ossia fra la categoria di sostanza e le categorie che esprimono le sue caratteristiche(qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, agire, patire). All’interno di ogni categoria avremo poi termini che designano specie e termini che designano delle singolarità. Avremo pertanto quattro tipi di termini:
  1. individui o sostanze prime (Socrate);
  2. generi di individui o sostanze seconde (uomo, animale);
  3. proprietà singolari (bianco);
  4. generi di proprietà (colore).
Quali sono le relazioni logiche fra questi termini? Dobbiamo distinguere fra enunciati che connettono termini all’interno della stessa categoria (predicazione in senso stretto; esser-detto-di) ed enunciati che connettono alla sostanza termini appartenenti a categorie diverse (inerenza; essere-in). Perciò i generi degli individui sono detti degli individui o di generi meno estesi (all’interno della categoria di sostanza uomo è detto di Socrate e animale di uomo); analogamente i generi delle proprietà sono detti di proprietà singolari o di generi meno estesi (all’interno della categoria di qualità colore è detto di bianco). Quando qualcosa è detto di qualcos’altro ne esprime il che-cos’è, esso cioè entra nella sua definizione. L’esser-detto-di è dunque predicazione essenziale. Le proprietà individuali invece sono in individui, come loro caratteristiche non definitorie: per esempio bianco e colorato sono in Socrate [10].
Si interseca qui l’elemento più propriamente aristotelico (la differenza fra sostanze e proprietà) con la distinzione platonica fra l’individuo e specie concettuale. La predicazione, l’esser-detto-di, riguarda infatti o le specie concettuali (quando un genere è attribuito ad un genere meno esteso) o gli individui (quando le sostanze seconde sono attribuite alle sostanze prime o i generi di proprietà sono attribuiti alle proprietà individuali). L’inerenza, l’essere-in, riguarda la sostanza individuale. In termini di logica modale esser-detto-di ed essere-in si caratterizzano rispettivamente per la necessità e la contingenza [11].
Aristotele poi precisa il quadro distribuendo esser-detto-di ed essere-in nei quattro predicabili [12]. Essi sono infatti le modalità in cui un predicato viene attribuito ad un soggetto e corrispondono a: definizione, genere, proprio e accidente. L’esser-detto-di comprende la definizione e il genere, l’essere-in il proprio e l’accidente. Vediamo ora più nel dettaglio.
La definizione [13] avviene all’interno della stessa categoria e consiste, per ogni termine, nel riferirgli genere prossimo e differenza specifica[14]; prendiamo per esempio “uomo” come termine da definire: esso appartiene alla categoria della sostanza, ossia degli enti individuali che sussistono per sé; ciò detto, prendiamo, all’interno delle sostanze, il genere prossimo al definiendum, “animale”, e poi la differenza che lo specifica, “razionale”; possiamo quindi dire che “uomo è (per definizione) animale razionale”. Essa esprime compiutamente l’essenza, il che cos’è del qualcosa. Il definiendum e la definizione sono perfettamente identici.L’enunciato definitorio è dunque un enunciato d’identità. La sua traduzione estensionale è un enunciato universale affermativo.
Il genere [15] invece è il termine più universale entro cui qualcosa è compreso ed è parte della definizione, del che-cos’è. Per esempio uomo è genere di Socrate e animale è genere di uomo. Da notare che il genere può essere riferito sia a termini individuali sia a generi meno ampi: in questo caso si parla di specie. È del tutto evidente che i termini genere e specie sono relativi: animale è genere di uomo ma specie di vivente. L’attribuzione di un genere dunque costituisce una modalità predicativa distinta dall’inerenza (proprio e accidente), poiché esso avviene all’interno della stessa colonna categoriale, mentre quella mette insieme colonne diverse; ma essa è da distinguere anche dall’identità, perché il genere manca della differenza specifica che renderebbe i contenuti connotativi dei termini, appunto, identici. Da un punto di vista intensionale il concetto della specie, più ricco,comprende quello del genere come propria parte. Quando ad un soggetto viene attribuito un genere, dunque, esso gli trasferisce integralmente la propria definizione, il suo contenuto connotativo. Dal punto di vista estensionale invece è la specie che viene inclusa nel genere, con una sorta di proporzionalità inversa rispetto all’intensione. Il corrispettivo estensionale dell’attribuzione di un genere ad una specie è dunque un enunciato universale affermativo.
L’accidente [16] è il termine che designa una proprietà che può essere o non essere nel qualcosa e non è mai il suo discorso definitorio. Esso infatti esprime una caratteristica del singolo e mai di tutti gli individui della specie. Per questo, a differenza del genere, quando attribuisco un accidente ad una sostanza, non avviene mai il trasferimento della sua definizione: Socrate è bianco non implica che esso sia un colore. A differenza del genere e del proprio (v.) esso comporta in termini estensionali un giudizio particolare (qualche uomo è bianco).
Il proprio [17] è il termine che designa una caratteristica che appartiene sempre ad una certa specie, pur non esprimendone il discorso definitorio, come “capace di grammatica” rispetto a “uomo”. In termini estensionali l’attribuzione di un proprio consiste in un giudizio universale affermativo (“tutti gli uomini sono capaci di grammatica”) e questo costituisce un’importante differenza rispetto all’accidente, che non  può essere generalizzato in un enunciato universale. Ma la differenza è anche col genere: entrambi comportano estensionalmente un giudizio universale affermativo, ma in un caso l’inclusione di una classe in un’altra deriva dalla divisione interna del contenuto connotativo (genere), nell’altro no (proprio)[18]. Infatti, analogamente all’accidente, attribuire un proprio non comporta il trasferimento di definizione (l’uomo è bipede, dunque tutti gli uomini sono bipedi, ma uomo non è una modalità di andatura; viceversa per il genere: l’uomo è animale, dunque tutti gli uomini sono animali, uomo è vivente). La predicazione resta accidentale, ossia il proprio non entra nella definizione concettuale del soggetto, anche se ne comprende integralmente la denotazione. Nella Metafisica Aristotele parlerà di un accidente per sé, nozione che sembra identificarsi con quella di proprio.
Possiamo ora svolgere qualche considerazione conclusiva. Aristotele affronta le quattro distinzioni che la teoria platonica ha permesso di svolgere alla luce di una quinta distinzione, semantica, logica e ontologica, quella fra sostanza e proprietà della sostanza. La teoria aristotelica della predicazione è dunque costruita su cinque differenze fondamentali, ciascuna intrecciata all’altra, l’ultima delle quali originale rispetto a Platone:
  1. identità e predicazione in senso lato,
  2. enunciati su individui ed enunciati su specie,
  3. intensione ed estensione,
  4. enunciati essenziali ed enunciati accidentali,
  5. inerenza e predicazione in senso stretto.
 
  1. Cinque forme fondamentali di enunciato
Abbiamo ora tutti gli elementi per una tavola che tenga conto delle cinque questioni sopra sollevate e dei loro intrecci reciproci secondo certe tipologie di enunciato. Quando diciamo che un soggetto è un predicato (S è p) dobbiamo distinguere fra i seguenti casi.
  1. Definizione (giudizio d’identità).
  2. Sussunzione di una sostanza sotto un genere (specie) [19].
  3. Sussunzione di un genere di sostanze sotto un genere più ampio.
  4. Inerenza alla sostanza di un accidente individuale.
  5. Inerenza alla sostanza di un proprio individuale.
  6. Inerenza alla sostanza di un accidente generale [20].
  7. Inerenza alla sostanza di un proprio generale [21].
  8. Sussunzione di un accidente individuale sotto un genere di accidente.
  9. Sussunzione di un proprio individuale sotto ungenere di proprio.
  10. Sussunzione di un genere di accidente sotto un genere di accidente.
  11. Sussunzione di un genere di proprio sotto un genere di proprio.
Nella discussione sulla teoria platonica della predicazione ci serviremo dei primi cinque casi. Gli altri, compresi quelli controversi (6 e 7) sono stati menzionati solo per completezza. Di questi cinque casi diamo ora qualche chiarimento supplementare in relazione a Platone.
  1. Definizione (identità). È emerso che il giudizio definitorio è un giudizio d’identità e consiste nell’assegnare ad un termine generale il suo contenuto connotativo. Platone sembra trattare il giudizio d’identità allo stesso modo: un certo termine può essere sostituto da un sintagma che esprime tutta la diairesi da cui esso è ricavato. Diremo così che l’idea di pescatore con la lenza è identica a quell’idea che si trova dividendo l’idea di tecnica di caccia e scegliendo ogni volta la giusta diramazione [22].
  2. Inclusione di un individuo in un genere che esprime la sua essenza.Quando Platone parla della partecipazione delle cose alle idee, sembra riferirsi proprio a questo caso: le cose prendono parte all’idea, pur non essendo identiche a quell’idea.
  3. Inclusione di un genere in un genere sopraordinato. Anche qui non siamo di fronte ad un giudizio d’identità. E anche qui Platone anticipa Aristotele: quando dico che la pesca con la lenza è una tecnica di pesca questo accade perché l’idea di tecnica di pesca può essere divisa fino a incontrare la pesca con la lenza; ma la pesca con la lenza non è identitariamente la tecnica di pesca in generale, poiché altrimenti non potrei affermare che lo sono anche la pesca con la fiocina o con la rete.
  4. Attribuzione di un accidentea un individuo.Di nuovo Platone anticipa tutto ciò quando nel Fedone parla di proprietà che appartengono a un qualcosa per sua natura e proprietà che questo si trova semplicemente ad avere [23].
  5. Attribuzione di un proprio. Platone sembra anticipare tutto questo nel Fedone con l’esempio della neve che è per natura fredda [24].
Vediamo ora con uno schema generale cosa accada in ciascuno dei cinque casi rispetto alle questioni sopra sollevate (identità e predicazione in senso lato, enunciati su individui ed enunciati su specie concettuali, enunciati essenziali ed enunciati accidentali,inerenza e predicazione in senso stretto), intendendo ogni caso in senso intensionale e dando una traduzione estensionale in enunciati quantificati.

 

TIPO

DI ENUNCIATO

IDENTITÀ / PREDICAZIONE (IN SENSO LATO)

INDIVIDUI / SPECIE

ESSENZIALE /

ACCIDENTALE

Inerenza/ Predicazione 

(in senso stretto)

Quantificazione

 

 

 

SOGG.

PRED.

 

 

 

1

Definizione

Identità

Conc. gen.

Conc. gen.

Essenziale

(Identità)

Univ

2

Sussunzione di sostanze prime sotto un genere

Predicazione s. l.

Ind.

sing

Conc. gen

Essenziale

Predicazione s. s.

Part.

3

Sussunzione di un genere sotto un genere

Predicazione s. l.

Conc. gen

Conc. gen

Essenziale

Predicazione s. s.

Univ.

4

Sostanze prime e accidente

Predicazione s. l.

Ind.

sing.

Propr. sing

Accidentale

Inerenza

Part.

5

Sostanze prime e proprio

Predicazione s. l.

Ind.

sing.

Propr. sing.

Accidentale

Inerenza

Part.

(universalizzabile).

 
  1. Identità e predicazione nel Fedone, nel Parmenide e nel Sofista: il problema dei contrari
Torniamo alla risposta che nel Parmenide Socrate dà a Zenone: i molti non sono identitariamente l’identico e il diverso, ma ne partecipano. Questa considerazione sembra riprendere quanto già era stato detto nel Fedone, dove, per mostrare l’immortalità dell’anima, partecipe dell’idea della Vita, si affermava che essa non può mescolarsi all’idea della morte [25]. Per affermare questa non mescolanza Platone ricorreva a tre esempi: il piccolo e il grande[26], il caldo e il freddo [27], il pari e il dispari [28]. Riprendiamoli brevemente.
Simmia è più grande di Socrate, ma più piccolo di Fedone; egli dunque si trova ad avere la grandezza, ma non ce l’ha per sua natura. In termini aristotelici diremmo che si tratta di predicati accidentali, che per di più sono relazioni. La grandezza in sé e la piccolezza in sé, le idee, non si mescolano. Questo vuol dire che, indipendentemente dagli individui a cui venga attribuita, la determinazione logica generale presa in sé, per la quale in un rapporto c’è qualcosa di più grande, non si confonde con quella per cui, nello stesso rapporto, c’è qualcosa di più piccolo. La contraddizione dunque non alberga nel mondo delle idee. Nello schema sopra riportato siamo nel caso 4 (accidente).
Veniamo ora al fuoco e alla neve. L’uno ha la proprietà costitutiva del caldo, l’altra del freddo. A differenza dell’esempio precedente abbiamo un predicato che appartiene strutturalmente al qualcosa, senza il quale esso cesserebbe di essere ciò che è. Ebbene qui la situazione è ancora più radicale: non solo non si mescolano le proprietà ideali pensate in astratto, ma questi contrari non possono convivere neanche nella cosa stessa. La neve calda cesserebbe di essere la neve; essa – dice Platone – all’avvicinarsi del caldo o gli cederà il posto o perirà. Il rapporto dei contrari reciprocamente esclusivi riguarda dunque non solo le idee, ma anche le cose, quando esse siano le loro proprietà strutturali, ossia non quelle che si trovano ad avere, ma quelle che hanno per natura propria. Nello schema sopra riportato siamo nel caso 5 (proprio).
L’ultimo esempio riguarda invece il rapporto fra idee e idee. L’idea del tre è dispari e non può ospitare in sé l’idea del pari. Dobbiamo quindi assumere un tipo di predicazione che per ogni idea, attraverso la diairesi, fornisca il suo genere sopraordinato, di cui essa è specificazione. Siamo qui nel caso 3 (genere).
Ora, il Parmenide, come abbiamo visto, riflette su una quarta coppia di contrari, l’identico e il diverso. A quale dei tre esempi precedenti possiamo assimilarla? A quale delle cinque forme di giudizio? La risposta non è affatto semplice: non è del tutto chiaro infatti se “i molti” voglia dire “le molte cose” o “l’idea di molteplicità”. Potremmo quindi trovarci o nel caso 2, inclusione di un individuo in genere, o nel caso 3, inclusione di una specie ideale in un genere sopraordinato. Il caso 4, l’accidente, e il caso 5, il proprio, sono da escludere perché per l’identico e il diverso Platone parla di partecipazione a idee e non di predicati che esprimono i momenti individuali della cosa.
Ciò detto, l’aspetto più importante è forse un altro: o che l’attribuzione alla molteplicità dell’identità e della differenza riguardi le molte cose (2), o che riguardi l’idea di molteplice (3), possiamo dire con certezza che comunque non siamo di fronte ad un’identità (1).Questo basta per mostrare l’errore logico di Zenone, ossia la confusione fra identità (1) e predicazione, qual che ne sia la forma (2 o 3).  Lo schema di ragionamento dell’eleate sembra in effetti essere questo:
  1. A¹B;
  2. A è D (diverso);
  3. A=D;
  4. B è D;
  5. B=D;
  6. dunque A=B, il che contraddice l’assunto iniziale.
La soluzione, come mostra lo schema,  sta nell’interpretare, nel secondo e nel quarto passaggio, lo “è”come segno non d’identità, ma di partecipazione o delle cose all’idea (caso 2) o dell’idea ad un’idea sopraordinata (caso 3).
Ma qui sorge un problema: contrariamente a tutte le altre coppie di contrari (il caldo e il freddo, il grande e il piccolo, il pari e il dispari)l’identico e il diverso sembrano in qualche modo partecipare l’uno dell’altro; come mostra il Sofista l’identico è diverso dal diverso, mentre quest’ultimo è identico a se stesso [29].
Tutto questo è tanto più stupefacente quando si consideri che identità e diversità sono proprietà strutturali che ogni idea in quanto idea, indipendentemente dal suo contenuto, ha; ognuna infatti è identica a se stessa e diversa dalle altre. Rispetto alla questione dei contrari, dobbiamo quindi ammettere un “caso x”,divergente da tutti quelli finora analizzati (grande e piccolo, caldo e freddo, pari e dispari), che riguarda le proprietà generali delle idee in quanto idee, i generi sommi, come le chiama il Sofista: queste macro idee, pur non essendo identiche, pur essendo anzi opposte, partecipano l’una dell’altra. È questo il prodigio a cui si accennava nel Parmenide e nel Filebo? Esso dunque accade davvero?
Prima di rispondere può essere utile ricapitolare il cammino percorso alla luce del problema dei contrari con un nuovo schema.

Cose che partecipano di entrambi i contrari

 

 

 

 

Simmia rispetto a grande e piccolo

Caso 4: accidente

I contrari non partecipano l’uno dell’altro

 

I molti (cose) rispetto all’identico e al diverso

Caso x: generi sommi

I contrari partecipano l’uno dell’altro

Cose che partecipano di uno e uno solo dei contrari.

La neve rispetto al freddo, la quale esclude il caldo

Caso 5: proprietà strutturale del qualcosa

I contrari non partecipano l’uno dell’altro

Idee che partecipano di uno e uno solo dei contrari

Il tre rispetto dispari, il quale esclude il pari

Caso 3: genere in cui è inclusa un’idea

I contrari non partecipano l’uno dell’altro

Idee che partecipano di entrambi i contrari

I molti (idee) rispetto all’identico e al diverso.

Caso x: generi sommi

I contrari partecipano l’uno dell’altro

 
Ecco allora la conclusione stupefacente: i contrari presi di per sé non si mescolano, se non quando indicano le proprietà strutturali delle idee. Come spiegare questo paradosso? Per abbozzare un tentativo di risposta torniamo all’affermazione del Sofista per cui, rispetto alla partecipazione, ci sono tre casi possibili: o tutte le idee partecipano di tutte o nessuna partecipa di nessuna o in alcuni casi vi è partecipazione e in altri no. Ora mentre è da escludersi che tutto partecipi di tutto e che niente partecipi di niente, accade che la partecipazione talvolta si dà e talvolta no [30]. Dunque niente di stupefacente se in alcuni casi (caldo e freddo, pari e dispari, grande e piccolo) non si dia partecipazione e in altri sì (identico e diverso). Senonché come possiamo parlare di opposti se essi partecipano l’uno dell’altro? Gli opposti sono appunto quella coppia di idee che all’interno dello stesso genere non partecipano l’uno dell’altro per via della diairesi. Se identico e diverso partecipano l’uno dell’altro possiamo dirli opposti?
L’unica soluzione al quesito è considerare che il diverso e l’identico non sono idee che la dialettica separa e unisce, ma i movimenti stessi del separare e dell’unire, costitutivi della dialettica in sé considerata: il primo indica il farsi molteplice dell’idea, il secondo il suo restare una, il primo è la forza che disgiunge gli opposti, l’altra la forza che identifica ciascun genere con se stesso.Se identico e diverso operano congiuntamente, devono inevitabilmente parteciparsi, in quanto aspetti del medesimo processo, la dialettica appunto. Diverso e identico, dunque,non hanno una natura propria, una quiddità, ma sono ciò che fa sì che ogni idea, distinguendosi e restando se stessa, ne abbia una; siamo dunque di fronte a metaconcetti formali,strutture interne del mondo delle idee, che ne costruiscono l’impalcatura logica, dando a ciascuna il proprio posto. Grazie all’identico e al diverso il mondo delle idee è complesso, ramificato, molteplice, senza però sprofondare nel caos e nell’indistinzione, conservando, cioè, l’unità di ogni idea. Ecco allora il risultato: caldo e freddo, pari e dispari, grande e piccolo sono il risultato della dialettica diairetica, mentre l’identico e il diverso sono le sue forze motrici; gli uni sono ciò che essa identifica distinguendo, gli altri sono lo stesso identificare-distinguere.
 
  1. Il problema del rapporto fra concetti di specie e momenti individuali: le obiezioni alla nozione di partecipazione.
Le cose partecipano delle idee; le idee partecipano delle idee; grazie al concetto di partecipazione si può distinguere fra l’identità (1) e tutti gli altri casi della predicazione (2, 3, 4, 5). Se tutto questo è molto chiaro logicamente, cosa vuol dire ontologicamente partecipazione? Le obiezioni che a questo concetto vengono dal personaggio Parmenide nell’omonimo dialogo sono celeberrime. Se le cose partecipano dell’idea, chiede il maestro eleate, lo fanno integralmente o solo in parte? Se la partecipano integralmente essa si smembra e perde la propria unità [31]. Se la partecipano solo in parte, a maggior ragione tale smembramento si verifica: di qua l’idea partecipata, immanente, di là l’idea non partecipata, trascendente (con ulteriori paradossi rispetto all’idea di grandezza e piccolezza) [32].
La risposta di Socrate ha qualcosa di enigmatico. L’idea penetra le cose pur rimanendo in se stessa una, così come fa il giorno che, pur abbracciando molti luoghi, non è separato da se stesso [33]. Parmenide non comprende fino in fondo la metafora e la riformula con l’immagine del mantello[34],dando così un’interpretazione fisicista: un’idea sta sopra [35] molte cose come un mantello sta sopra molti uomini. Tuttavia l’immagine del giorno serviva proprio a porre la questione in termini diversi, a negare cioè che le occorrenze singolari di un concetto possano essere davvero concepite come sue parti e ad indicare due domini diversi, ontologicamente e logicamente distinti:forzando un po’ e tornando di nuovo a Frege, potremmo parlare da una parte della connotazione, del Sinn, del contenuto informazionale di un concetto preso in astratto[36], dall’altra della denotazione, della Bedeutung, del riferimento.In questa interpretazione l’affermazione di Socrate relativa al giorno vorrebbe quindi dire che gli oggetti denotati non sono parti del contenuto connotativo, pur essendo esso la condizione che permette di avere una denotazione: in altri termini è soltanto comprendendo il che cos’è dell’idea che noi comprendiamo il che cos’è comune di un certo insieme di cose, l’uno fa vedere l’altro senza perdervisi, come il giorno illumina i luoghi senza per questo moltiplicarsi in esso.
Ciò detto il problema rimane intatto: qual è il rapporto fra l’idea in sé considerata e la sua individuazione nella cosa? Se la proprietà di cui l’oggetto è portatore non è una parte del corrispondente concetto logico ideale e astratto, come può essere riportata ad esso?Insomma se si danno da una parte il contenuto informazionale in sé considerato, dall’altra la sua realizzazione nelle realtà concrete, da una parte l’unità e la generalità della specie concettuale, dall’altra la pluralità e l’individualità delle proprietà inerenti alle molte cose,che relazione c’è fra questi due ordini dell’essere e del conoscere?
Come può l’idea essere specie concettuale e momento cosale? Come può l’idea essere una e molteplice?
 
  1. Il problema del rapporto fra concetti di specie e momenti individuali: le obiezioni alla nozione di imitazione
Platone tratta il rapporto fra proprietà oggettive e specie logiche astratte attraverso l’evocativa metafora del giorno, un’unità che avvolge i molti spazi senza tuttavia perdervisi.   Cosa vuol dire tutto questo? La metafora del giorno non viene approfondita, rimane un sottotesto, un enigma che incombe. Perciò Socrate, messo apparentemente alle strette da Parmenide sulla nozione di partecipazione, si rifugia nel concetto di imitazione: le cose imitano le idee. Il che vuol dire che i momenti individuali di una cosa sarebbero in qualche modo simili alla specie concettuale in sé considerata.
Parmenide a questo punto avanza un’obiezione (che Aristotele riprenderà con l’argomento del terzo uomo): se le cose imitano le idee è perché sono simili ad esse; ma la similitudine non può essere stabilita senza il riferimento ad un’idea: due cose infatti sono simili fra loro in relazione ad un’idea che entrambe esemplificano; se dunque per stabilire una similitudine fra due entità occorre un’idea, per stabilire una similitudine fra idea e cose occorre una seconda idea, a cui l’una e le altre sarebbero simili, e poi di nuovo una terza e così via [37].
L’argomento potrebbe essere disinnescato ancora una volta considerando la differenza che c’è fra l’essere-F quando è attribuito ad una cosa quando è attribuito ad un’idea: in un caso abbiamo un giudizio predicativo che assegna ad un soggetto individuale l’essenza che tutte le cose della sua specie condividono (caso 2: Socrate e Simmia sono uomini) [38]; nell’altro abbiamo un giudizio d’identità, che definisce quell’essenza in generale (caso 1: “uomo è animale razionale”) [39]. Dunque essere-F per la cosa significa inclusione predicativa in una specie (2), mentre per un’idea definizione identitaria di ciò che la connota (1); nel primo caso lo “è” può esser scritto come appartenenza, nel secondo come identità connotativa [40]. Includere un individuo in una specie è operazione logica diversa dal definire quest’ultima.Insomma le cose hanno una proprietà per cui sono simili (predicazione), mentre l’idea è quella proprietà (identità);ecco perché il regresso all’infinito non si innesca.
Proviamo a formalizzare con dei simboli astratti. Siano f ed f’ le cose; sia Φ l’idea; sia F una certa proprietà. Dire “f è F” significa dire che f ha una certa proprietà che lo iscrive in un insieme (caso 2) [41]; dire che è Φ è F significa dire che esso è, si identifica con quella proprietà, la F-ità, la quale ne esprime il contenuto connotativo (caso 1). Ecco allora perché il regresso all’infinito del terzo uomo non s’innesca: f ed f’ sono simili perché inclusi nell’insieme delle cose che hanno la proprietà F, mentre l’idea Φ è identica a quella proprietà, che non ha dunque bisogno di essere supportata da un’altra idea.
Le cose hanno un’essenza che le rende simili; l’idea è quell’essenza; essa non è uno dei simili da assemblare, ma è il criterio stesso della similitudine.Il giudizio che assegna ad una cosa una proprietà essenziale è predicativo e consiste nell’assegnazione di un genere ad un individuo (2); il giudizio che attribuisce ad un’idea una proprietà essenziale è identitario, definitorio e consiste nell’attribuirle un contenuto connotativo (1).
Rimane però ancora la questione sopra emersa: posso assegnare una cosa ad un genere in virtù del fatto che esso realizza una proprietà in cui consiste il suo che-cos’è, ma questa realizzazione è individuale; quella che invece definisce indentitariamente Φ è generale; il problema è dunque non che esse siano simili, ma che non possano esserlo, proprio a causa della differenza fra la molteplicità delle determinazioni cosali e l’unità del concetto. Insomma la differenza logica fra il definire una proprietà generale e attribuire una sua occorrenza ad un certo sostrato confuta senz’altro l’argomento del terzo uomo, ma apre una questione ancora più grossa: che rapporto c’è fra un concetto, inteso come unità ideale e identica, e le sue realizzazioni in termini di momenti individuali (fattezze, proprietà) inerenti alle cose?
 
  1. L’autopredicazione
Torniamo ora brevemente alla differenza logica fra il definire una proprietà generale e attribuire una sua occorrenza ad un certo sostrato. Se questa differenza ha un senso, la questione dell’autopredicazione o no delle idee, che tanto ha diviso gli interpreti,dev’essere anch’essa messa fuori circuito. Riprendiamola brevemente; il problema è: le idee si predicano o no di se stesse? Se sì, l’idea di grande dovrebbe essere grande, ossia spaziale, l’idea di bianco dovrebbe essere bianca, ossia empiricamente connotata; in un caso e nell’altro si contraddirebbe ai caratteri ontologici dell’idea [42]. D’altra parte la risposta non può neanche essere negativa: Platone dice infatti che l’idea di giustizia deve essere giusta [43], l’idea di santità santa [44], l’idea di bellezza bella [45]; inoltre, perché essa sia causalmente efficace nei confronti delle cose, deve contenere la proprietà in questione [46]. Insomma se l’idea si predica di se stessa essa,l’idea di bianco diventa bianca, dunque si cosalizza; se invece non si predica di se stessa, l’idea di giustizia non può “esser giusta” né causa di comportamenti giusti. Come uscirne? Vediamo.
Si è visto chele idee non sono qualcosa che ha una certa essenza, ma qualcosa che è identitariamente una certa essenza; esse sono identiche a un certo contenuto connotativo, ma non alle denotazioni che permettono di ricavare;l’idea di giustizia dunque non è una X che ha la proprietà di esser giusto, ma è l’esser-giusto in sé considerato, così come l’idea di bianco non è una X che ha la proprietà di esser bianco, ma è l’esser-bianco in sé considerato.L’idea di giusto è dunque “il” giusto in senso connotativo,ma non il giusto in senso denotativo, così come l’idea di bianco è “il” bianco in senso connotativo, ma non il bianco in senso denotativo. Dire il contrario significherebbe includere la connotazione nella denotazione, il Sinn nella Bedeutung” [47]. L’idea dunque si “autopredica” nel senso che essa è identica ad un certo contenuto connotativo, ma non si “autopredica” nel senso che la sua connotazione in sé considerata non è identica alle sue denotazioni. Da ciò si comprende come il termine “autopredicazione” sia del tutto fuorviante.
 
  1. La predicazione intraeidetica
Ora però, distinguere tra l’attribuzione ad un sostrato di una specie concettuale (Socrate è uomo) e la definizione identitaria di quella specie (l’idea di uomo è l’umanità), non ci costringe su un piano connotativo ad affermare solo l’autoidentità?  In un certo senso è così, perché tutti i giudizi connotativi, ossia i giudizi che esprimono la definizione di un concetto, sono, in termini kantiani, analitici. Questo vuol dire che siano semplici? L’affermazione di un’identità non può invece essere complessa? Dell’idea insomma si può dire solo l’autoidentità? Era questa la teoria della predicazione dei megarici, dottrina di stampo eleatico. Costoro sostenevano possibili soltanto i giudizi identici (A=A) e non ammettevano la predicazione in ogni sua forma, sia quella dell’attribuzione di un’essenza a un individuo (caso 2) sia quella dell’inclusione di un genere in un genere più ampio (caso 3).
Nel Sofista Platone fa i conti con questa posizione: emerge chiaramente che l’idea non è un atomo logico semplice, ma il terminale di una rete diairetica, secondo quanto mostra l’esempio del pescatore con la lenza. Posto dunque che il giudizio “l’idea di pesca con la lenza è l’idea di pesca con la lenza” è un giudizio d’identità, possiamo mettere al secondo termine o tutta la trama diairetica da cui esso è ricavato o un suo momento. Nel mondo delle idee dunque abbiamo giudizi che come secondo termine ammettono: o la totalità del processo diaireico o una delle idee sopra ordinate, ossia, in termini aristotelici, o la definizione o il genere. Abbiamo dunque o  il caso 1 (identità) o il caso 3 (attribuzione intraeidetica del genere).
 
  1. La metafora del γένος
Veniamo ora al termine genereγένος; esso a partire dal Sofista è un equivalente di idea. Lo scavo etimologico su questo termine è teoreticamente interessante. Genere è innanzitutto la stirpe, la linea della filiazione, che si mantiene una pur articolandosi negli individui delle diverse generazioni. L’idea, dunque, come la stirpe, è una, ma al tempo stesso si articola in una pluralità di componenti. La diairesi sta lì a dimostrarlo: l’idea è un’unità ramificata, che si dispiega in una molteplicità, senza perdere tale carattere unitario. La dialettica è dunque la scienza che è in grado di percorrere le ramificazioni di questa unità complessa.
Il rapporto fra l’idea e le sue ramificazioni diairetiche è insomma simile non a quello fra il tutto e le parti, come vuole l’interpretazione fisicista di Parmenide, ma quello fra la stirpe e gli individui che ne prendono parte.
Il γένος è dunque l’unità in se stessa molteplice, ramificata.L’idea può esser presso le molte idee subordinate senza perdere la sua unità, come il giorno nei molti luoghi. Ma per le cose?
 
  1. Problemi aperti
Possiamo fare il punto di quanto emerso. Partecipazione e imitazione, se intesi in senso fisicista, sono pseudo problemi, così come la questione dell’autopredicazione. La chiave di volta è stata la distinzione fra due tipi di giudizio: quello predicativo, che ad una cosa assegna il suo genere ideale essenziale (2), e quello d’identità che definisce questo genere (1); f è F vuol dire dunque includere f nel genere di tutte le cose che hanno la proprietà F, mentre Φ è F vuol dire che Φ è identico alla proprietà F presa in astratto, la F-ità; da una parte un enunciato su individui, dall’altra un enunciato su termini concettuali generali.
Ciò tuttavia nasconde un problema teoretico molto serio: che rapporto c’è fra una proprietà “scritta” in un sostrato individuale e una proprietà presa in senso generale? Come faccio a riconoscere che quella è un esemplare di questa? Che rapporto c’è fra ciò che penso in astratto e l’esemplare che riconosco?Che rapporto c’è fra l’unità dell’idea in sé, considerata nella sua generalità,e le sua realizzazione nelle cose molteplici in termini di proprietà individualizzate? Come può l’uno essere nella molteplicità senza per questo cessare di essere uno?Esiste, per dirla con Kant, una sorta di schematismo, una figurazione in termini individuali e molteplici, di un contenuto concettuale che in sé è uno e generale? Questo schematismo come accade logicamente ed ontologicamente? È forse l’intelligenza demiurgica del Timeo? È l’Intelligenza il giorno che penetra i molti luoghi pur rimanendo in sé uno?
Ora prima di chiedersi come ciò sia possibile dobbiamo chiederci se sia possibile. Per avvalorare una tesi la logica antica, proprio grazie a Zenone, utilizza la via della dimostrazione per assurdo, che consiste nel mostrare la contraddittorietà dell’antitesi. Ora la ginnastica filosofica, che occupa tutta la seconda parte del Parmenide, sembra proprio fare questo, deducendo tutte le assurdità che derivano dall’assunzione separata dell’uno e del molteplice. Il maestro eleate, infatti, di fronte ai problemi apparentemente insolubili della partecipazione e dell’imitazione,propone a Socrate una ginnastica filosofica sull’uno e sul molteplice; prima di porre in questione il nodo del rapporto fra idee e cose – egli dice – occorrerebbe affrontare il problema del rapporto fra unità e molteplicità in quanto tale:bisognerà dunque esercitarsi su tutte le conseguenze logiche che scaturiscono dall’affermazione dell’unità, dall’affermazione della molteplicità, dalla negazione dell’unità e dalla negazione della molteplicità. Da queste quattro tesi, come si è detto, verranno fuori conseguenze logicamente paradossali.
Ecco allora la saldatura fra la prima e la seconda parte del dialogo: molto probabilmente la ginnastica vuole affermare la tesi dell’inseparabilità dialettica fra l’uno e il molteplice, mostrando i paradossi della loro separazione. È come se Platone volesse farci intendere che i problemi del rapporto fra idee e cose (presenti nel Parmenide)hanno una radice molto più profonda, ossia la mancata comprensione di questo nodo. Questa mancata comprensione è all’origine altresì dei problemi nel rapporto fra idee e idee, come per esempio presso i Megarici (ciò che emerge nel Sofista).
Idee e cose, idee e idee; due forme di rapporto la cui problematicità ha la stessa scaturigine: la mancata comprensione della dialettica fra unità e molteplicità. Occorre perciò esplicitare le conseguenze logiche paradossali della separazione fra unità e molteplicità, condurre una sorta di dimostrazione per assurdo che riporti il pensiero entro i corretti binari di quella dialettica. La gymnasia sembra dunque avere questo scopo propedeutico, per così dire elenchico. La seconda parte di questo scritto avrà appunto per oggetto la gymnasia, di cui si esporrà la struttura, fornendo un tentativo di lettura più esauriente di quanto fatto finora.La terza si occuperà del Timeo e della soluzione della dialettica unità molteplicità in termini di Intelligenza.
(Continua)
 
PARTE II. LA GYMNASIA FILOSOFICA DEL PARMENIDE
PARTE III. L’INTELLIGENZA E L’INIZIO
….
 
[1] Platone, Parmenide, 127 e ; trad. it. di F. Ferrari, BUR, 2004.
[2]I termini μέτεξις,μετέχειν,μεταλαμβάνειν nelle varie forme occorrono più volte nel Parmenide per indicare la partecipazione delle cose alle idee; μέτεξις in 132d3, 141d8, 151e8; μετέχειν in 129 a, 129b, 129c, 129d, 130b, 131c, 132a, 132c, 132e, 133a, 133d, 134b, 134c, 137e, 138a, 140c, 140d, 141d, 141e, 142b, 142c, 143a, 143b, 144a, 145b, 146e, 147a, 149c, 151e, 152a, 153a, 155c, 155d, 155e, 157c, 157e, 158a, 158b, 158c, 158d, 158e, 159d, 159e, 160a, 160b, 160e, 161c, 161d; 162 a, 167c, 163d, 164a; μεταλαμβάνειν: 129a, 130e, 131 a, 131e, 133a, 156a, 158b, 163b, 163d. Per la differenza fra μετέχειν e μεταλαμβάνειν v. F. Ferrari, «L’enigma del Parmenide», in Platone, cit.; p. 57. Ringrazio Filippo Sirianni per il contributo alla ricerca di queste occorrenze.
[3] Platone, Parmenide, 129 b1-3 e b6-c3; Filebo, 14 d-e.
[4]I termini μέτεξις, μετέχειν, μεταλαμβάνειν nelle varie forme occorrono più volte nel Sofista per indicare non, come nel Parmenide, la partecipazione delle cose alle idee, ma la partecipazione reciproca fra queste ultime; μέτεξις: 256b, 259a; μετέχειν: 216b, 228c, 235a, 238e, 251e, 255b, 255d, 255e, 256a1 e 256a 7, 256d, 256e, 259a, 260d3 e 260d7; μεταλαμβάνειν: 248d; 250e; 251d; 256b.
[5] Platone Sofista, 218 c3-221c3). L’esempio nel Sofista procede così: tecnica di: produzione / acquisizione: scambio / cattura: lotta / caccia: inanimati / animati: terrestri / natanti: nell’aria  / nell’acqua: a prensione (reti)  / a percussione (colpi): di notte (lampare) / di giorno (uncini): dall’alto in basso (fiocina) / dal basso in alto (lenza).
[6] Occorre dare un chiarimento preliminare dei termini genere, specie e proprietà che di seguito useremo. Innanzitutto occorre dire che la differenza fra specie e genere è relativa: animale è genere per uomo, ma è specie per vivente. Inoltre per genere e specie si può intendere sia l’aspetto estensionale, denotativo (l’insieme degli enti a cui un concetto si riferisce), sia l’aspetto intensionale (il contenuto informazionale preso in senso generale). Infine proprietà vuol dire sia le caratteristiche interne della singola cosa, i momenti individuali in esso singolarmente presenti (il rosso di questa automobile), sia la il concetto generale. Queste due distinzioni, connotazione-denotazione, proprietà come momento cosale - proprietà generale, sono strettamente legate e non prive di problemi, come vedremo.
[7] « Noi dobbiamo quindi distinguere la prima serie di giudizi, in cui di ogni sostrato si predica il suo momento individuale S’ è p’, S’’ è p’’ e, di contro a questa, i giudizi in cui viene predicato il p in ogni caso eguale, come l’universale, identicamente uno in tutti essi quale emerge in p’ e in p’’ etc. Ciò vuol dire che l’unità si precostituisce nella coincidenza passiva d’eguaglianza dei p’, p’’ etc come l’unità della specie […] Il giudizio S è p’, in cui p’ indica il momento individuale dell’oggetto individuale S, è del tutto diverso dal giudizio S è p, dove p indica l’universale, l’eidos» in E. Husserl, Erfahrung und Urteil, a cura di Ludwig Landgrebe, Claassen Verlag, Hamburg 1948; trad. it. Esperienza e giudizio, a cura di F. Costa e L. Samonà, Bompiani, Milano 1995; p. 298; corsivomio.
[8] I termini Sinn e Bedeutung, com’è noto, appartengono a Frege.
[9] È il caso della coppia di contrari grande e piccolo: Fedone, 102 c-103b5. Per un’analisi di questo caso cfr. infra §4. Per una discussione fra ciò che gli enti sono καθ’αὑτά e ciò che sono πρόστι v. E. Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Bompiani, Milano 2004; pp. 264-265.
[10]Controverso il caso delle proprietà generali: in alcune circostanze esse non sono dette dell’individuo (Socrate non è un colore, semmai è colorato), mentre in altre sì (la scienza, è detta della grammatica, che è dunque un suo genere, ed è in un uomo). Avremo pertanto: termini che non sono detti e non sono in alcunché (le sostanze individuali o sostanze prime); termini che sono detti di qualcosa ma non sono in alcunché (i generi e le specie delle sostanze o sostanze seconde: uomo o animale di cui Socrate è esemplare); termini che non sono detti di alcunché e sono in qualcosa (proprietà individuali: questo rosso); termini che sono detti di e sono in qualcosa (generi e specie di proprietà: il colore e il rosso come specie di cui questo rosso è esemplare). Cfr. M. Zanatta, «La genesi e il significato dottrinale delle categorie», in Aristotele, Categorie, Introduzione, traduzione e note a cura di Zanatta, BUR, Milano 1989; pp. 69-71.
[11]Cfr. Zanatta, cit., pp. 25-27.
[12] Per un’analisi della dottrina dei predicabili nel suo rapporto con le categorie v. Berti, cit., 256-265.
[13] Aristotele, Topici I 5, 101 b 38; VI 1, 139 a 28-29; 6, 143 b 8-9.
[14] Aristotele, Topici VI 3, 140 a 27-29.
[15] Aristotele, Topici, I 5, 102 a 31-32.
[16] Aristotele, Topici I 5, 102 a 4-7.
[17] Aristotele, Topici I 5, 102 a 18-19.
[18] Da questo punto di vista molto opportunamente Zanatta distingue fra classe e genere (o specie) in senso estensionale. M. Zanatta, cit.; p. 27.
[19] Da un punto di vista denotativo un certo individuo è inserito in un insieme; da un punto di vista connotativo invece accade una cosa bizzarra, perché l’individuo, nella sua singolarità, è indefinibile: vi è definizione soltanto della specie in cui esso è compreso; per Aristotele, infatti, la ragione dell’individuazione non è una differenza concettuale, ma una condizione ontologica, la materia: essa particolarizza i vari individui che hanno la stessa forma e sono perciò esemplificazioni della stessa essenza.
[20] L’inerenza alla sostanza di una proprietà generale (proprio o accidente che sia) rimane un caso controverso. V. in proposito nota 10.
[21] V. nota precedente.
[22] Un caso ulteriore d’identità, che qui non trattiamo è ciò che Frege chiama e qui denotazione. Essa avviene quando soggetto e predicato, connotativamente differenti, si riferiscono alla stessa entità. Un esempio potrebbe essere “Il vincitore di Jena è lo sconfitto di Waterloo”, ossia Napoleone.
[23]È il caso della coppia di contrari grande e piccolo: Fedone, 102 c-103b5. Per un’analisi di questo caso cfr. infra §4.
[24]Ivi, 103c10-104c3 Per un’analisi di questo caso cfr. infra §4.
[25] Platone, Fedone, 106b1-106d4.
[26] Ivi 102 c-103b5.
[27] Ivi, 103c10-104c3.
[28] Ivi 103e6-105b3.
[29] Per tutta la dialettica dei generi si veda: Platone, Sofista, 254b7-259b8. Platone non dice esplicitamente che l’identico partecipa del diverso; si tratta però della conseguenza logica dell’affermazione secondo cui tutti i generi partecipano, oltre che dell’essere, del diverso (256d11-e3).
[30]Sofista 251d5-e1.
[31]Parmenide, 131a4-b1.
[32]Ivi 131d2-e1.
[33]Ivi 131b2-6.
[34]Ivi 131b7-9.
[35]L’espressione ἕνἐπὶ πολλοῖς oppure ἕν ἐπὶ πολλῶν ricorre in molti dialoghi: Parmenide131b7-9, 132 c3, Repubblica V 476 a, X 596a, Menone 72c.
[36] Quando avvicino l’idea platonica al Sinn di Frege lo faccio proprio grazie all’antipsicologismo di quest’ultimo: il senso è un contenuto ideale identico che non solo prescinde dalle sue realizzazioni individuali, ma anche dall’esser pensato in termini di contenuti psichici. Il concetto, il senso sono dunque contenuti ideali identici indipendentemente sussistenti.
[37]Parmenide, 132c12-133a4.
[38] O, nel caso dell’individualizzazione di 2, ad un sostrato la forma che vi è incorporata, ossia ad una x la sua proprietà essenziale considerata però non come specie ma nella sua realizzazione individuale in esso. La distinzione fra il sostrato x e la proprietà individuale che vi si realizza può essere posta grazie al fatto che possono esservi sostrati del tutto identici, ossia strutturalmente indiscernibili, ma diversi solo numericamente, ossia copie perfettamente identiche.
[39] O anche l’attribuzione a un genere di un genere sopraordinato che in parte ne stabilisce il che-cos’è (animale rispetto a uomo; caso 3).
[40] A maggior ragione ciò e vero quando l’essenza è fuori gioco e all’individuo si attribuisce una proprietà accidentale (caso 4) o una proprietà strutturale non definitoria (caso 5).
[41] In Aristotele la forma individualizzata “uomo” che permette di considerarlo l’esemplare individuale della specie concettuale generale “uomo”.
[42] Per un’esauriente disamina della questione e per la relativa bibliografia, v. Ferrari, cit., pp. 63-79.
[43] Platone, Protagora, 330c.
[44]Ivi 330 d.
[45]Fedro, 101c; Simposio 210e-211a.
[46] Ferrari, cit., 70-71.
[47] Ferrari, concepisce l’eidos come un individuo ontologicamente sussistente (Φ) e al tempo stesso come un senso espresso da un predicato logico attribuito alle cose (F). L’eidos avrebbe questo predicato incorporato in se stesso, sarebbe identico ad esso e quest’ultimo ne esprimerebbe l’essenza (Φ è F). Vale la pena riportare due passi:
«L’eidos Φ costituisce dunque un individuo ontologico (primo e assoluto) che incorpora in se stesso il predicato F che di Φ esprime l’essenza. Nell’eidos troviamo a coesistere due aspetti: quello ontologico, in virtù del quale esso è un individuo metafisico separato, e quello logico, secondo cui l’idea esprime senza resti il senso (cioè l’aspetto descrizionale) del predicato»; Ferrari, cit., 75;
«Il grande in sé è identitariamente grande, mentre i particolari grandi sono tali per partecipazione all’idea di grandezza»; Ferrari, cit., 77.
Condivido senz’altro l’interpretazione secondo cui l’eidos è in senso identitario una certa essenza, ma trovo fuorviante che se ne parli in termini di individuo che incorpora un predicato. Non concordo cioè nel fare dell’idea un sostrato(Φ) a cui viene attribuita un’essenza (F); l’idea non è un sostrato che ha una essenza (Φ è  F), ma è quella stessa essenza in sé considerata (F-ità). L’esistenza separata e per sé dell’idea in Platone non è sovrapponibile al concetto aristotelico di esistenza separata e per sé, ossia quello di un individuo, di una sostanza, di un soggetto singolare. Insomma mentre in Aristotele l’ente che sussiste per sé, la sostanza individuale, ha un’essenza, in Platone l’ente che sussiste per sé, l’idea, è un’essenza. Perciò il rapporto fra un’idea e il suo contenuto connotativo non può essere riportato all’attribuzione ad un individuo di una certa proprietà essenziale (caso 2), ma all’identità connotativa (caso 1) o all’attribuzione di un genere ad un altro genere (caso 3).