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Tracce, detriti, alterità
Ecco, l’adombramento è l’intervento rappresentativo del soggetto sull’Altro, su un «là» che si riduce a «qui», come mondo circostante ridimensionato ad Io, laddove interno e intorno finiscono per confluire in un’unica soggettività egologica che sradica l’Altro della sua indipendenza. In altri termini, nella dinamica intersoggettiva si assiste ad una invariabilità della variazione in cui il «qui» dell’Io, sempre variabile, assume invariabilità costitutiva in quanto sempre «qui». L’altro è depredato, lasciato «là». L’inclusione dell’alterità passa dal «qui», come toglimento dell’altro, come assimilazione della variazione, da qui invariante, come ininfluenza dell’altro. Il quadro intersoggettivo che ne risulta costituisce la perdita dell’altro, e di conseguenza la perdita del Sé, in un gioco di riflessioni prospettiche, di dubbio luogo, di dubbio raggiungimento. La comunità rappresentata è, quindi, l’irriducibile e paradossale sintesi di «qui» comuni, in cui ogni Io vede sé e l’intorno come sua proprietà costituita, significata, generata. Tra tracce e detriti autonomi si cela l’Altro irriconosciuto, oggetto di proiezione, di riempimenti, di teatri delle maschere che si dibattono tra interni ed intorni, tra «qui» e «qui». Eppure ci siamo, proprio tra tracce e detriti, tra proiezioni e riempimenti, l’Altro si struttura variabile al piano costitutivo e immanente del Sé. Eppure ci siamo, perché si struttura e raccoglie i suoi «qui» divenuti «là», nelle sue tracce e nei suoi detriti. Qui si innesca una trasfigurazione dell’immanenza, la sua reversibilità irreversibile, la sua epifania fenomenologica: Io e Altro che, proiezione per proiezione, riempimento per riempimento, fanno reciproci conti egologici. Tracce, detriti e ombre si consumano in una corrispondenza attoriale, di fronte il riflesso si fa vivo. Qui si intende l’epifania immanente dell’Altro, il suo segno, il lascito di un «là» che deve essere già stato un «qui» per ri-diventarlo. E allora è entropatia? Si torna nel vuoto analogico? O piuttosto si ramifica una corrente di ombre che, detrito dopo detrito, si struttura in variazione protocostitutiva di un Noi? Il tempo intersoggettivo scandisce frequenze e tracce dal vuoto di una rappresentazione intersoggettiva che si rende comunque in presenza. Il «qui» dispone il «là», lo accoglie e raccoglie, lo contamina e lo fa implodere, lo segna e ne è segnato. Segni e tracce, detriti e ombre si consumano e si rincorrono e sono, sopra tutto sono.
- Eccedenza e commisurazione
L’eccedenza, il non stare fino in fondo nel «qui» egologico, quella riottosa crepa che si commisura irriducibile tra limiti irriconosciuti, eppure presenti: è l’incontenibilità di quei detriti, di quelle tracce che nel rincorrersi reclamano la propria alterità. L’esser altro dell’Altro, l’essere «qui», escluso, non tacitato. Ben inteso, la riduzione al Sé resta processo irreversibile, tuttavia l’epifania di una immanenza altra, propria di un «qui», eppure irriducibile ed eccedente «là», si disvela nell’ombra delle tracce, rara e oscura, esclusione tra inclusioni. Ed è proprio questa esclusione che muove intersoggettività, dal gorgo dell’irriducibile, da un limen proprio eppure altro, varco e mura, crepe, appunto, di un sistema di assimilazione di irriconosciuti che percorre senza tregua spazio egologico, interno e intorno. Segni e tracce, detriti e ombre, però, possono non risolversi nell’Io, ma in un Noi che è preludio di epifanica in-comprensione compresa. È il tirar dentro al limen, ma è anche l’esser tratto oltre, fine e con-fine, Io e Altro. È lo star fuori da un oltre già interno, già raggiunto, e comunque altro, non riconosciuto, eccedenza appunto, resto irrisolvibile, epifania irrimediabile, Noi. Un noi con cui dover fare i conti, accaduto, accadente e ineludibile, che vìola il patto della costituzione di un Sé onnivoro. La violazione è fuga ed eccedenza dal «qui», è il «là» che si ribella, è l’ombra che si sottrae alla proiezione costituente. È, in altri termini, il resto che non torna, sottrazione di un Sé che si esclude includendosi, che entra restando fuori, Altro irrinunciabile. In questa reciprocità non duplicativa, il Noi si struttura e si assolve nella reciproca, trovata alterità epifanica, tra detriti e tracce, nella non familiarità delle proiezioni che stavolta si riconoscono come non proprie. Un Io deregolato, decodificato da Altro. Altro che adombra, che segna e detta codici, aggiunge e sottrae, contamina e assolve. Il senso di assoluzione è nella stratificazione di detriti irriducibili, scoperti altri, di ombre non proiettive, di segni e tracce che raccolgono l’esclusione e la includono in un Noi. Il Noi è la costituzione dell’escludere, non inclusione, non l’interno sedotto e annullato, bensì un intorno come con-fine, cioè come limen permeabile e fine comune. Ci si trova lì, raggiunti dall’insondato, dallo scandalo dell’inassimilabile che disvela epifanica alterità. Sono i due Io, i due Altri, che si accolgono come vera alienazione, laddove l’eccedenza è sottrazione di sé, è la scoperta che la proiezione ha un termine nelle tracce irrisolte dell’Altro, nei segni ricevuti e incompresi, perché nuovo codice. Il Noi è esclusione che rivela epifania dell’Altro, dove l’inclusione risolveva differenze in indifferenza. E proprio in questa esclusione, nell’eccedenza irriducibile, si scopre condivisione, differenti risolti in un Noi. Il riflesso si fa vivo perché estraneo, mi guardo in uno specchio che non riconosco, in un riflesso che sono costretto a rincorrere come improprio, finalmente improprio. Ombre che si rincorrono tra detriti e segni, tra tracce e maschere, in epifanie consumate perché presenti, esclusione inclusa, Io e Altro, fine e con-fine.
- L’esclusione come principio anti-analogico
Cosa si intende per esclusione intersoggettiva? Per una costituzione di un Noi, ombre e riflessi, stavolta, altri da Sé? E perché l’esclusione è disvelamento, epifania altra nell’immanenza? Il chiudere fuori è condizione del paradosso egologico, è l’ammissione riconoscitiva di un altro-da-Sé, laddove l’inclusione toglieva differenza, qui si afferma e l’uno diventa due, da Io a Noi. L’escludere rivela l’inincludibile, poiché procede sempre dopo un tentativo di inclusione, nella norma costitutiva di una immanenza dell’indifferente, di un tutto come altro-di-Sé. Ma quando le tracce codificate di sempre si dimostrano altre irriducibili, allora l’escludere, come inclusione fallita, si apre alla decodificazione di un oltre inespresso e presente. Il lasciar-fuori è comprensione di una in-comprensibilità, e nel reciproco escludersi si costituisce un disvelamento di opposti che comunicano la propria alterità. Solo da qui è possibile condivisione, ben oltre l’includere, vi è un escludere condiviso in cui i due sono davvero due, in cui ognuno è epifanica rappresentazione di un oltre presente, fuori e dentro, escluso e incluso, appunto con-diviso. Esclusione e condivisione suonano paradossali, ma proprio come incontro di paradossi, di Io costitutivi che si stratificano differenti, tra segni e tracce, detriti e ombre, reclamano e raccolgono distinzione. Si scriveva, all’inizio di questo articolo, proprio della tragica assimilazione costitutiva di un Io mai capace di riconoscere altro-da-Sé, di un’entropatia fallimentare perché analogica, perché sempre geneticamente risultato di un Sé proiettivo. L’ipotesi avanzata è il capovolgimento della analogizzazione dell’Altro, della riduzione del «là» in un «qui» continuo e immanente. L’Altro appare quando non è riconosciuto, quando il visibile è il mai visto, quando il riflesso in cui ci si cerca non restituisce l’attesa della propria immagine, quando, infine, il ri-conoscimento fallisce in quanto comincia un conoscimento del nuovo. Riconoscere implica un conoscere il già noto e sempre il già noto si costituiva dal Sé. In altri termini, riconoscere è ritrovare Sé nell’Altro. Ma in questa trasfigurazione estensiva del Sé, la proiezione inclusiva di un «qui» sul «là», come ponte per la conquista e l’assimilazione, come presa del comune e resa del distinto (il non compreso era reso indietro, appunto, rifiutato e rimosso), portava invariabilmente all’annullamento dell’Altro e alla restituzione di un altro-di-Sé sempre proprio, sempre incluso. La comparsa dell’Altro si rivela, invece, proprio nell’inversione del processo assimilativo, laddove il resto irriconosciuto diviene costituente e il comune viene reso e perso. Il riconoscimento non può passare dal riconoscere, ma dallo scarto dell’inassimilabile, dall’esclusione del non familiare. Certo, sono ombre e detriti, tracce e segni, non a caso, sono rantoli che attraversano crepe. Il paradosso del riconoscimento, che si inabissava di fronte alla pretesa di un inizio che il conoscere non consentiva, si apre proprio dinanzi a un non reso, al resto incomprensibile, allo scarto continuo di un altro-di-me in luogo di altro-da-me. La non riconoscibilità costitutiva dell’Altro è fondamento di questa epifania condivisa e, allora sì, riconoscitiva come esclusi che si reclamano, con-divisi.
- Esclusione e immanenza. Il Noi
Ecco, l’esclusione in una immanenza epifanica di alterità reciproca si dispiega nei non riconosciuti che si trovano proprio in quanto esclusi dal Sé, segni incompresi di una presenza che si fa nuovo codice, confine, resistenza permeabile tra crepe e detriti, tra eccedenza e resto. E allora, l’esclusione si solleva a condivisione, la non familiarità si sorprende in rivelazione, quel resto incomprensibile si affranca per Altro. L’Io si raggiunge nel vortice esclusivo e condiviso di un Noi, Io-Altro sistemici, confine e fine di Sé. L’analogia è chiusa e sottratta, l’analogon è restituito al mittente, non serve più. L’Altro è ora proiezione non riconosciuta, come tratti inespliciti, come un Sé che non mi appartiene e che, in questa inappartenenza, si rivela metamorfico differente, non più comune, bensì resto, non più inclusione, ma esclusione condivisa. È evidente che non si sta ponendo un tratto fondativo del Noi, ma una eccezione intersoggettiva e intrasoggettiva. Il Noi è in questa prospettiva genesi epifanica e irriproducibile, disvelamento di Altro non comune, occasione, piuttosto che fondazione. È, appunto, l’occasione di tracce che sfuggono e sfumano alla e dalla riduzione consueta e, questa sì, davvero sistemica. È l’Altro come istante tra vuoti entropatici, un pieno tra silenzi autoproiettivi, è l’uscita di un «là» dalla riproduzione riflessiva egologica. Lo si scriveva prima, è il riflesso irriconosciuto e irriconoscibile di un Sé che si vede Altro e che si perde nell’Altro. Differenza e incomprensione si avvolgono a un Noi dischiuso ed escluso, l’altro dell’Altro, voce atonale che si rifrange sul confine, che lo modella e riforma, che rivela codici e segni da un oltre sempre non proprio. Conoscere e non riconoscere, eccedenze e non comunità, con-divisione e non inclusione, sono gli echi di uno stare di fronte che si esplicita come possibilità, come confine di tracce permeabili, di pieni e di vuoti, di voci e silenzi, di detriti e maschere che osano escludersi per trovarsi, per con-fondersi. Il Noi osa escludere e trovarsi, accogliere l’inaccoglibile, aprirsi al disordine di un ingresso scandaloso e inassimilabile, l’Altro per l’Altro. Lo specchio s’infrange, la proiezione si disarticola, i detriti e le crepe si strutturano in epifania, segni e tracce, detriti e ombre si rincorrono e sono. Sopra tutto sono.