Marco Ciccarella | Io, identità e ripetizione. Deleuze e il problema della differenza

Introduzione
L’Io nella sua costitutiva ripetizione è davvero in grado di affrancarsi dalla duplicazione del sé? Identità e differenza sono davvero legati dal filo ontologico della ripetizione? E, soprattutto, qualora si potesse costruire questo “flusso”, davvero identico e diverso sarebbero distinti? In altri termini, la differenza sarebbe realmente fuori dal sé o, come possibile, immanente alle continue variazioni identitarie, quasi fossero riflessi prospettici sempre di un unico Sé? La ripetizione produce l’Altro? «La ripetizione non è generalità. La ripetizione deve essere distinta dalla generalità in vari modi», scrive Deleuze, ecco perché «la ripetizione come condotta e come punto di vista concerne una singolarità impermutabile, insostituibile. I riflessi, gli echi, i doppi, le anime non appartengono al regno della somiglianza o dell’equivalenza», «il furto e il dono sono i criteri della ripetizione»[1]. Ciò che intendo analizzare in questa prima parte del lavoro è l’equivoca natura della ripetizione, condotta di un identico impermutabile, ripetuto riflesso, eco speculare del sé, furto e dono. Perché se di furto e dono si parla, si deve intendere una sottrazione da altro, si deve intendere l’appropriazione-espropriazione verso il sé dall’altro-da-sé. L’Altro è implicato in questa ripetizione, seguendo l’esordio deleuziano, fino al punto che anche in presenza di un furto di sé a sé si dovrebbe continuare a sostenere l’ipotesi di un ripetuto che non mi apparteneva, almeno a quelle condizioni, e che quindi il ripetuto apra a un non-proprio. Perché è così significativo questo inizio? Perché da subito il binomio ripetizione-identico vacilla, nella presentazione di Deleuze, e perché questo vacillare insinua un identico differenziale. Tutto da verificare, ovviamente, nella sua contraddittorietà ossimorica, apparente o reale che sia, eppure si insinua e persiste per tutto lo scorrere delle pagine di Differenza e ripetizione.
 
Ripetizione e generalità
Iniziamo allora a definire cosa intende Deleuze per ripetizione e a contrapporre quest’ultima alla generalità. «Sono dunque in opposizione la generalità, come generalità del particolare, e la ripetizione come universalità del singolare». La singolarità ripetuta, quindi universalizzata, è il «ripetere un irricominciabile», un «portare la prima volta all’ennesima potenza»[2]. La generalità, intende Deleuze, è la vuota indistinzione, la ripetizione è l’elezione di un singolare ad eternità, è la ripetizione simbolica dell’uno nel rituale. Mentre, infatti, la generalità determina la somiglianza dei particolari, la somiglianza dei diversi, la ripetizione è l’identico ripetuto. «Se la ripetizione esiste, essa esprime nello stesso tempo una singolarità contro il generale, una universalità contro il particolare»[3]. È interessante che Deleuze rappresenti la ripetizione come contrapposta alla legge e, di conseguenza, all’abitudine. «La ripetizione è il pensiero dell’avvenire, opponendosi all’antica categoria della reminiscenza e a quella moderna di habitus»[4]. In questi termini, ci viene presentata una ripetizione come potenza positiva, impositiva, come, citando esplicitamente Nietzsche, un eterno ritorno creatore. La ripetizione si dà come miracolo contro la legge, perché, così sostiene Deleuze, è l’eccezione che si impone alla consuetudine del diritto, è la natura che soverchia l’accordo comunitario, la convenzionalità intersoggettiva del codice: lo si vedrà più avanti, la ripetizione distingue i ripetuti, dunque li fa essere, mentre l’abitudine sottrarrebbe distinzione, omologando unitariamente la distinzione in indifferente unità. «Eternità contro la permanenza»[5], ecco perché la ripetizione sarebbe trasgressiva, in questa inusuale prospettiva. È così? È davvero costituibile una ripetizione dello stesso che vìoli, che addirittura sovverta, l’habitus? Quanto distanti sono singolarità e particolare, universalità e generale? Infine, perché l’eversione ripetitiva violerebbe l’identità a beneficio della differenza? «Il teatro della ripetizione si oppone al teatro della rappresentazione, come il movimento si oppone al concetto e alla rappresentazione che lo relaziona al concetto»[6]. Ripetizione contro rappresentazione, il primordiale che anticipa l’organizzazione, maschere che vengono prima dei volti e, infine, spettri che anticipano i personaggi, soggetti. L’Io si troverebbe a dover dirimere un primato, dibattendosi tra il teatro della ripetizione opposto al teatro della rappresentazione, laddove «maschere» precedono volti, «spettri»[7] precedono corpi. Questa precedenza genera il nuovo, la ripetizione partorisce la differenza. Sembrerebbe intendere, Deleuze, che la celebrazione, per così dire, attoriale anticipi la soggettività. Come se le due autocoscienze hegeliane si raggiungano nel riconoscimento proprio nella finzione dell’essere pronte alla morte, disposte ad andare fino in fondo, pur non arrivandoci. Vince il signore, colui che mostra di non aver paura della morte, vince la maschera più riuscita, vince il corpo che si mostra fantasma. Quanto bastano maschera e spettri ad un Io? «Se si suppone una nozione individuale o una rappresentazione particolare a comprensione infinita, provvista di memoria ma senza coscienza di sé, la rappresentazione comprensiva è certo in sé e si dà il ricordo che comprende ogni particolarità di un atto, di una scena, di un evento, di un essere. Ma ciò che manca, per una ragione naturale determinata, è il per-sé della coscienza, il riconoscimento»[8]. Dunque, continua Deleuze, «il sapere così come è in sé non è altro che la ripetizione del suo oggetto: è recitato, vale a dire ripetuto, messo in atto invece d’essere conosciuto. La ripetizione appare qui come l’inconscio del libero concetto, del sapere o del ricordo, l’inconscio della rappresentazione».[9] Il riconoscimento è, appunto, il per-sé della coscienza. La rappresentazione, nella sua costitutiva mediazione, sostiene Deleuze, non provvede al per-sé, rimane invischiata nel trascendentale. È, quindi, motivo di analisi la relazione che Deleuze costruisce tra la ripetizione e il riconoscimento, quasi a voler mostrare come solo la differenza, che è costituita dal ripetere, e dal ripetersi, sia condizione del riconoscere. Occorre, dunque, indagare le implicazioni di questo modello differenziale, mostrare il confronto con Hegel ed Husserl su un tema cruciale come io ed altro. In quale possibile rapporto sono la dialettica del riconoscimento, l’entropatia e la ripetizione? C’è lo spazio filosofico per una prospettiva che li consideri come un sostrato comune nella costituzione dell’Io? Il «fantasma» pre-corporeo di Deleuze si maschera entropaticamente, oppure la maschera è la condizione stessa del vedere sé e, quindi, l’Altro? Ma di quale Altro parliamo, di un altro-di-sé dell’Io o di un altro-da-sé? Di immanenza o di trascendenza? I dubbi nascono dalla accezione di differenza che lo stesso Deleuze, fin da queste pagine, restituisce: «la ripetizione appare dunque come una differenza, ma una differenza assolutamente senza concetto, in tal senso differenza indifferente»[10]. Quanta forza differenziale possiede una siffatta ripetizione, al punto da costituire differenza, eppure indifferente? La sottrazione del concetto la si dovrebbe intendere come differenza pre-epistemologica? Anche il riconoscimento precede il concetto? Come a dire che il ri-conoscere debba necessariamente precedere, addirittura costituendolo, il conoscere, quasi fosse ancora una volta una rappresentazione del reale il vero teatro dell’Essere. Il «Noi» simbiotico, immanente, si singolarizza in figure indebolite, pallide maschere che si autorappresentano comunitariamente in una farsa che si compone di dignità ontologica proprio nella sua insostenibilità. Eppure, questo palco relazionale, agito nella ripetizione del rappresentato e delle sue tragiche figure spettrali, si compone di un riconoscere già dato, già costituito. In altri termini, Deleuze ci offre uno spettacolo in cui, questo è il sospetto, ciò che dovrebbe accadere, la costituzione intersoggettiva, è già accaduto dietro le quinte. Spettri, menzogne e maschere articolano una rappresentazione già segnata, mai prossima ad uno sviluppo possibile. Ciò perché l’Io non può essere superato da questa farsa comunitaria, per quanto maschera e spettro esso sia. Deleuze non risolve la dimensione genetica della comunità attoriale, qualsiasi cosa siano, le figure non escono dall’indistinzione del “Noi”, proprio al contrario delle intenzioni del modello proposto. Il palco si appropria di una distinzione mai data, di un differenziale irraggiungibile, date queste premesse. Un riconoscimento che precede il conoscere sarebbe possibile alla sola condizione di un noi già costituito, una sorta di immanenza di un tutto che nella sua ripetizione si frantumi in distinti. Questa metafisica dell’unità ha il pregio della fascinazione, ma l’evidente limite di un passaggio saltato, quello genetico.
 
 
_________________
[1] Ibid., p. 7
[2] Ibid., p. 8
[3] Ibid., p. 9
[4] Ibid., p. 15
[5] Ibid., p. 9
[6] Ibid., p. 19
[7]Ibid., p. 19
[8] Ibid., p. 24
[9] Ibid., pp. 24, 25
[10] Ibid., p. 26